Piccola storia grigia

Tra il passato di Rivera, John Cheever e la nebbia: anatomia di una città, una squadra, e un tifo che non l'ha mai amata davvero.

«La casa è abbastanza facile da descrivere, ma cosa si può dire di un giorno d’estate in un vecchio giardino? Sentite che profumo ha l’erba, sentite che odore hanno gli alberi!». Quando, anni fa, ho letto per la prima volta Cronache della famiglia Wapshot di John Cheever, ho pensato dalla prima all’ultima pagina che parlasse del posto dove sono nato. Alessandria, in Piemonte, una cittadina di 93 mila abitanti secondo i dati del censimento dell’anno scorso, in realtà dopo qualche tempo non sembra più grande del fittizio villaggio di pescatori di St Botolphs di cui Cheever descrive le vicende quotidiane. Leggendo l’epopea familiare degli Wapshot ho scoperto che esiste un modo particolare di essere nostalgici di un luogo che non si ha mai particolarmente amato, delle sue fragranze, delle sue vicende. I vissuti dei personaggi di Cheever sono strambi e originali e inquieti e interessanti, ma circoscritti e in fondo irrilevanti, mai davvero aspiranti a costruire una storia più grande. Il trait d’union, mi sono detto poi, forse risiede nel fatto che anche ad Alessandria le persone si fermano per le vie del centro a chiacchierare di amici e conoscenti che di norma incontreranno per caso entro la fine della giornata seguente, e i discorsi di ogni giorno vertono su piccoli eventi, piccole dicerie, aperture di piccoli nuovi esercizi commerciali, e niente vuol essere più di ciò che è.

Spesso questi discorsi da pavé provinciale vertono su una squadra di calcio che da più di un secolo gioca con una maglia completamente grigia. Il suo nome ufficiale è Unione Sportiva Alessandria 1912. La pagina di Wikipedia dedicata al colore delle sue divise recita, alla voce “Uso, simbolismo, espressioni colloquiali”: «Il grigio simboleggia la mediocrità, il rumore di fondo», e a prima vista parrà adeguato associarlo a un capoluogo in generale non dotato di particolari bellezze, che nella classifica della qualità della vita del Sole 24 Ore dell’anno scorso è giunto 72esimo su 110 considerati, che ha di recente subìto un dissesto economico e visto un sindaco insediarsi in un Comune che aveva in cassa «solo 19 centesimi». Nebbia e cieli fuligginosi d’inverno, zanzare e afa d’estate: Alessandria, il baricentro del triangolo industriale. Eppure la mediocrità del grigio non ha impedito ai Grigi, così come la squadra è nota in città, di essere stati parte integrante dei primi passi mossi dal football in Italia. Stasera, all’Olimpico di Torino contro il Milan, saranno lì a dimostrare che anche le storie minori, quelle di provincia, ogni tanto si riscoprono ambiziose.

ales5

Prima di oggi, della squadra di Angelo Gregucci seconda in campionato di LegaPro e attesa in semifinale di Coppa Italia a San Siro, il calcio ad Alessandria significava necessariamente nostalgia di altre epoche, anche sabaude (il miglior risultato fatto segnare nella massima serie, un sesto posto, risale addirittura al 1929). L’Alessandria ha giocato la sua ultima stagione di Serie B nel 1974/75; per la Serie A bisogna andare più indietro, al campionato 1959/60. Proprio il 2 giugno 1959, in un Alessandria-Inter, fa la sua comparsa sul prato verde dello stadio Giuseppe Moccagatta «un ragazzo gracile, che toccava bene la palla», per usare le parole dello stopper dell’Inter Aristide Guarneri che se lo trova davanti. Si tratta del sedicenne Gianni Rivera, nato in piena Seconda guerra mondiale a Valle San Bartolomeo, sobborgo collinare della città, dal padre ferroviere Teresio (omonimo di quel Teresio Borsalino che aveva esportato nel mondo i cappelli dell’azienda di famiglia nei decenni precedenti) e la madre Edera. Rivera non è soltanto uno dei migliori talenti prodotti dal calcio italiano, se non direttamente il migliore, ma anche un innegabile simbolo del genius loci della sua terra. Di lui Gianni Mura ha scritto: «È stato un grande numero 10, senza una favela o un barrio miserabile a spiegarne la vocazione e il talento». Rivera, ragazzo d’oro e per alcuni “Signorino”, non corre e non alza mai la voce; non ne ha mai bisogno. In un’intervista una volta gli è stato chiesto cosa ricordasse della sua gioventù, e lui, con quel solito tono mite: «Che non sono mai stato giovane».

In un’intervista chiesero a Rivera cosa ricordasse della sua gioventù, e lui: «Che non sono mai stato giovane»

La penna di Lietta Tornabuoni forse è stata quella che più di chiunque altro ha colto l’essenza di Gianni Rivera in poche righe: «Corre sul campo con la faccia esultante e ridente, con le braccia tese vicine al corpo e i pugni chiusi: senza grida né sguaiataggini né gesti osceni. Un’immagine così perfetta di felicità, così composta, così piemontese, impossibile da dimenticare». Co-fondatore del sindacato calciatori con Sandro Mazzola e Giacomo Bulgarelli, il wonder boy degli anni Sessanta in seguito è quello che ha detto alla Stampa: «Gli eccessi sessantottini non li ho mai capiti. E pure i traumi di Tangentopoli mi hanno lasciato perplesso. Avrei preferito sbaragliare la vecchia politica con metodi meno cruenti». Al di là del Pallone d’Oro del 1969, delle coppe e gli scudetti col Milan, di quel gol al San Paolo in un Napoli-Alessandria del 1960, così perfetto da far piangere il capitano grigio Franco Pedroni, Gianni Rivera è sempre rimasto un alessandrino, con tutto ciò che ne consegue.

cuscinetto

Dai Settanta in poi l’epopea dell’Alessandria Calcio diventa epica minore. E se è vero che alcuni nomi e imprese sono comunque entrati nel pantheon della squadra dell’Orso – i gol di Franco «Ciccio» Marescalco alla fine degli anni Ottanta, la punizione di Fabio Artico che regala il successo in casa sull’Hellas Verona nella primavera del 2011, spianando la strada verso i playoff per la B – il fascino degli anni di Rivera è ben altra cosa. Nel 1968, ad esempio, per gli 800 anni dalla fondazione della città, la società grigia invita il Santos a giocare un’amichevole al Moccagatta, e qualche fortunato conserva ancora la fotografia di Pelé che esce dal campo sorridente, con indosso la maglia numero 10 dell’Alessandria.

Nel 2003 arriva il fallimento societario e inizia una mesta risalita dalle serie inferiori, con trasferte in anonimi paesini da 5 mila anime e partite su campi brulli e fangosi che contribuiscono a diminuire il seguito dei grigioneri. Crescendo in città ho sperimentato la fase in cui tutti i coetanei giocavano a calcio e basket, quella in cui tutti facevano i Pr per localetti del circondario, quella in cui tutti frequentavano improbabili discoteche techno del torinese. Ma non sono mai stato testimone di un momento in cui si è tifato in modo sentito e uniforme per l’Alessandria, a tal punto che anche oggi l’attenzione diretta alla formazione che si gioca l’accesso alla finale di Coppa Italia mi fa un certo effetto.

sciarpa-2

A rimanere immutato per più di un secolo di storia è stato il grigio delle maglie, lo stesso esibito dalla società sportiva Forza e Coraggio, antesignana di quella fondata nel 1912. Qualche fonte sostiene che la scelta dell’insolito colore viene da un penchant per il bianco unito alla ricerca di una tonalità meno facile da sporcare. Quel che è certo è che il passaggio dal bianco-azzurro delle prime uscite al grigio è il risultato dell’iniziativa di Giovanni Maino – proprietario dell’omonima squadra ciclistica per cui correva anche il Costante Girardengo celebrato da De Gregori – il quale una sera in un’osteria della città si offre di dotare la neonata squadra di calcio di casacche simili a quelle dei suoi atleti.

Tornando a Cheever e soprattutto alla nostalgia e agli odori, tra gli altri ricordo ancora distintamente quello di fango dei giorni seguenti l’alluvione del fiume Tanaro del novembre del 1994, disastrosa per la zona compresa tra la città e le province di Cuneo, Asti e Torino. In una cronaca per La Stampa poi divenuta piuttosto celebre, Alessandro Baricco raccontava la prima partita giocata dai Grigi sul campo casalingo dopo la calamità: «Un’alluvione finisce anche così. Con ventidue giocatori in braghette corte che entrano in campo. E undici hanno la maglia grigia. E il campo si chiama Moccagatta. E quel che c’è intorno si chiama Alessandria». Anche le storie piccole ogni tanto diventano grandi.

 

Tutte le immagini del merchandising grigio su sfondo grigio sono tratte da alessadriacalcio.it