New York Playground

Nella notte si gioca Nets contro Knicks, protagoniste di un'altra stagione negativa: quanto è difficile fare basket a New York, specialmente se non sai come farlo.

“Se ce la faccio qui, ce la farò ovunque”: è uno dei versi più famosi della canzone mondiale. Lo dice Frank Sinatra. Questo periodo ipotetico di “New York, New York”, che canticchiamo in taxi, da turisti emozionati sui ponti che portano a Manhattan, non ha il significato trionfale che gli attribuiamo di solito: è in realtà l’osservazione di chi si è sfinito a cercare il successo in una città nevrotica e impaziente. Vale a dire, ce l’avrei fatta molto prima in un posto meno assurdo. L’isteria collettiva della città fa e disfa i fenomeni in un quarto d’ora, come dava a intendere Andy Warhol.

Questa frenesia potrà andar bene per il pop, forse per il cinema e la tv, ma è letale per lo sport di squadra: ed è per questo, per la tendenza a cercare sempre soluzioni rapide e gloria immediata, che da un decennio le due squadre NBA di New York – i Knicks e i Brooklyn Nets – vanno malissimo. Le regole NBA sono fatte per premiare la costruzione lenta e intelligente. C’è il tetto salariale. I giocatori si acquisiscono a fine contratto o scambiandoli con altri. Gli scambi devono essere approvati dal capo della lega. Gli esordienti si pescano con una lotteria estiva. Si possono scambiare giocatori con biglietti delle lotterie future. Insomma, non è che arriva l’emiro e si costruisce la squadra a forza di assegni: serve molto ingegno e i dirigenti contano più dei soldi.

I playoff del 2012 a casa Knicks (Bruce Bennet/Getty Images)

Il figlio di papà

La squadra che gioca nel palazzetto dello sport più importante del mondo, il Madison Square Garden, non vince un titolo dal ‘73 e non va in finale dal 1999. Quell’anno, i New York Knicks persero contro quella che da noi chiameremmo una provinciale, la squadra di San Antonio, Texas, che da lì in poi avrebbe vinto cinque titoli in quindici anni grazie a un’organizzazione perfetta. Proprio quell’anno, un quarantacinquenne di buona famiglia cominciava a dirigere i Knicks. James Dolan non aveva nessuna esperienza da dirigente sportivo; sei anni prima era stato in un centro di riabilitazione, aveva problemi di droga e alcol. Ma veniva da una ricca famiglia che possedeva Cablevision, la società che fornisce la tv via cavo, tra gli altri, ai newyorkesi. Negli anni Novanta, Cablevision acquisì la società proprietaria del Madison Square Garden, e con ciò tutte le squadre che al Garden si esibiscono. Questo gioco di scatole cinesi portò alla bizzarra situazione per cui, dovendo dare qualcosa da fare al ragazzo dopo gli anni difficili che aveva passato, si affidò a James Dolan la gestione delle squadre comprese nella complessa società del Madison Square Garden, ossia i Rangers, storica squadra di hockey, un paio di cose minori, e i New York Knicks. Così, con tutti i manager residenti a New York che si potevano andare a cercare nella città più competitiva del mondo, uno dei marchi più famosi nella storia dello sport americano finiva amministrato da un rampollo incompetente.

Il meglio in stagione di Carmelo Anthony

Il rampollo tentò per anni di vincere in fretta, seguendo le leggi di Broadway invece che quelle dello sport di squadra, e il decennio andò male. Nel 2011, i Knicks parteciparono ai primi playoff dopo sette anni. Ce l’avevano fatta perché avevano scambiato un certo numero di giocatori, fra cui Danilo Gallinari, con Carmelo Anthony, uno dei più forti della generazione magica di LeBron, Wade e Bosh. Questi tre peraltro erano stati i veri obiettivi di New York l’estate prima, quando erano tutti in scadenza di contratto. E tutti, purtroppo, finirono nell’organizzatissima società di Miami, gli Heat, gestiti da un vero leader – ed ex Knick – Pat Riley. Anthony purtroppo, di tutti quelli, era il meno concreto. Talentuosissimo, il migliore pure scorer, realizzatore puro, di quella nidiata, Anthony è uno che si tiene la palla tutto il tempo, e non si è adattato al gioco tiki taka che è invalso nell’NBA negli ultimi anni.

L’anno dopo, partirono con un record di 8 vittorie e 15 sconfitte. Li salvò per un attimo dai casini l’asiatico americano Jeremy Lin, una riserva pescata dal fondo della panchina, che infiammò i cuori labili dei newyorkesi vincendo da solo sette partite in un periodo in cui Stoudemire e Anthony, le star, erano assenti per ragioni varie. La città impazzì per lui, ma il mese dopo l’allenatore si era già licenziato, tanto poco c’era di concreto in quell’exploit. Negli anni successivi, un paio di playoff senza raccogliere nulla, e rovesci di fortuna spietati: un anno arrivano primi nella loro division (il girone da cinque con cui fino all’anno scorso si competeva per essere teste di serie ai playoff). L’anno dopo, record di sconfitte nella storia della squadra e niente playoff. Com’è possibile? Perché non si riesce a trovare un filo logico?

Il Barclays Center dei Nets nel 2015 (Rich Schultz/Getty Images)
Il Barclays Center dei Nets nel 2015 (Rich Schultz/Getty Images)

A New York, spesso ci si dimentica che le cose possono aver senso. Un caso spettacolare dell’attrazione esercitata dalla città, che inebetisce e innamora, è la situazione di Carmelo Anthony. In questi anni di poco successo, Anthony è diventato un venture capitalist, ha una società, fuma sigari, investe nelle start up tecnologiche. I Chicago Bulls vogliono tornare al titolo unendo Anthony a una squadra già quasi perfetta: lui decide di rimanere a New York per curare il proprio futuro negli affari. È forse il primo caso di un giocatore che per curare il proprio brand fa una scelta decisamente contraria all’istinto di ogni campione: cercare la situazione migliore per vincere e passare alla storia.

Il rinnovo di Anthony, con la sua nulla logica sportiva, ha quasi un effetto depressivo sulla squadra, che affonda… Ma prima che la situazione si faccia irrecuperabile, i Knicks decidono di assumere come President of Basketball Operations, cioè stratega supremo, l’uomo che ha vinto sei titoli con Michael Jordan e 5 con Kobe Bryant: Phil Jackson. Accolto come un salvatore, Jackson si inserisce a fatica nel nuovo ruolo, prova a rivoluzionare la squadra allontanando con scambi e scadenze e buyout tutti i giocatori dannosi (tra cui il nostro Bargnani, da lui accusato di ambiguità e scarsa voglia durante la ripresa dagli infortuni), ricostruendo con mosse non appariscenti. I newyorkesi hanno sbuffato come sempre, per finire poi a coprire di “buuuuh” l’ultima mossa di Jackson: alla lotteria, quest’estate, lo stratega ha scelto un giovane lettone altissimo e sottilissimo, spiegando che sarebbe servito tempo per vederlo sbocciare, ma che il talento era indiscutibile. Il ragazzo, alla serata di gala al Barclay Center di Brooklyn, si è preso i fischi dei tifosi impazienti.

29 punti contro Charlotte, più 11 rimbalzi: il career high di Porzingis

 

Speculazioni oligarchiche

Se sei un emiro e compri una squadra di calcio europea, tendenzialmente ce la fai. Esci, compri una squadra intera al prezzo che puoi permetterti, compri un allenatore, cambi lo sponsor tecnico, e procedi. L’America invece è complicata: sembra una democrazia dei miliardari. Le ingiustizie che attraversano l’intera società non si trovano dove i Pochi se la vedono fra loro: in una lega di trenta squadre, i ricchi sono tutti uguali. Col tetto salariale, i complicati meccanismi dello scambio di giocatori, se arrivi da fuori sentendoti ricco cominci male.

Arriva Mikhail Prokhorov, uno degli oligarchi giovani e pazzi che hanno dominato la Russia postcomunista. Simpatico, eccentrico, vanitoso, compra i New Jersey Nets all’inizio di questo decennio e dice che vincerà il titolo in quattro anni. Il suo grande progetto è salvare un marchio come i Nets dalle rampe del New Jersey che si devono attraversare in autobus, partendo da Penn Station, Manhattan, se si vuole seguire quella squadra che gioca in mezzo al nulla, nel palazzetto di East Rutherford. I Nets devono diventare una moda: vanno spostati senz’altro a Brooklyn, l’area urbana più chic del mondo.

Una delle poche soddisfazioni della stagione dei Nets: 116-106 contro i Thunder, a gennaio

Il progetto non è suo: un grosso immobiliarista di New York, Bruce Ratner, d’accordo fra gli altri con Bill De Blasio, che all’epoca è consigliere comunale, ha messo in moto un processo che porterà i Nets a downtown Brooklyn, rivitalizzando l’area grazie a un gigantesco progetto abitativo, che viene affidato allo starchitect Frank Gehry. L’idea viene in un periodo felice per la squadra: nel 2002 e 2003 i Nets sono arrivati alle finali, da campioni della Eastern Conference, per perdere inevitabilmente contro le dinastie Lakers e Spurs. Ma il marchio Nets è vincente e la cosa migliore da fare è portarlo nella Brooklyn dei rapper e dei ristoranti, dei creativi, degli hipster… Il padrino morale e faccia dell’operazione è Jay-Z, che diventa proprietario di una piccola quota e fa da Gatsby nella grande villa festaiola che è Brooklyn, dov’è nato.

Da qui la storia è complicata. Il piano di riqualificazione dell’area ribattezzata Atlantic Yards è enorme: 5 miliardi, 22 acri, 10mila lavori permanenti e più di duemila appartamenti per gente a reddito basso. Già nel 2003, il sindaco Bloomberg diceva: «Voglio farla. Fatela a tutti i costi». Il progetto di Gehry mirava a creare, all’incrocio di due viali enormi, un centro vitale, grande ma integrato con i quartieri residenziali circostanti. Al cuore di tutto, un palazzetto ben nascosto da un’articolata serie di palazzi alti e bassi: un’utopia di vetro per dare un senso a downtown.

Spuntini al Barclays Center (Craig Barritt/Getty Images)
Spuntini al Barclays Center (Craig Barritt/Getty Images)

Grazie al prestigio del progetto, Bruce Ratner si assicurò i 305 milioni di sussidi statali e comunali. Da lì, cominciarono le stranezze. Un’asta tardiva, chiamata quasi per formalità, fu vinta da Ratner nonostante la migliore offerta della società rivale. Peggio ancora, il progetto di Gehry fu scartato perché improvvisamente considerato troppo costoso. Furono sparse regalie in denaro e biglietti ai leader delle varie comunità locali. Fu a questo punto che arrivò Prokhorov e prese l’80 per cento della squadra e il 45 di Atlantic Yards da Ratner. Intanto, nasceva in relativa fretta un’arena enorme, spaziale, fuori scala rispetto alla zona; il New York Times l’ha definita un’astronave creata da Richard Serra e Chanel. Ha scritto che sta lì in mezzo e non unisce niente. Sta lì in mezzo, nel vuoto, perché i progetti di ricostruzione della zona sono stati scollegati dal progetto dell’arena, cioè il contrario di quanto previsto da Gehry. Il che vuol dire niente diciassettemila posti di lavoro come promesso, niente diecimila lavori permanenti per la gente della zona. Il New Yorker dice che l’arena è “coraggiosa e lunare”, crea un contesto. Ma il contesto sembra dire, così il New Yorker, non tanto «che l’arena è troppo grande, ma che il quartiere è troppo piccolo». Il rischio, dice, è che se poi si costruiscono le torri intorno, ci sarà un’escalation verso una grandezza che non integra il quartiere.

Il New Yorker dice che l’arena è “coraggiosa e lunare”, crea un contesto

Parlo di riqualificazione invece che di sport perché il punto dei Nets è proprio questo: la febbre newyorkese ha portato tutti a pensare che Brooklyn aveva finalmente una squadra da tifare. Ma è stata perlopiù la solita eterna speculazione immobiliare. Sul lato sportivo si è soprattutto pensato al marchio: La squadra si è data nuovi colori: nero e bianco, eleganti come ristoranti di Park Slope. Il font usato è quello vecchio della metro di NY, prima che fosse sostituito dall’odierno helvetica. Tutto perfetto, tranne la squadra: per vincere subito, Prokhorov dà via tutti i diritti alle lotterie future in cambio di campioni a fine carriera con cui provare a vincere tipo nei film quando dicono “facciamo un ultimo colpo e poi lasciamo tutto”. Fu due anni fa: Kevin Garnett e Paul Pierce, a raggiungere Joe Johnson e Deron Williams. Non andarono oltre il secondo turno dei playoff, e quella squadra fu smantellata: oggi la squadra è fra le peggiori dell’NBA.

 

Cosa fare a New York quando sei morto

Se sei un giocatore, questa maniera di gestire le cose può farti male: soprattutto se sei giovane. Prima ne ho citati un paio: Jeremy Lin e Porzingis. Il primo si era così esaltato, quel mese in cui era il re di New York, che ha comprato il dominio “linsanity”, dal nome della moda passeggera da lui ispirata. Di lì in poi non ha fatto che cambiare squadra, senza raccogliere niente. Porzingis è stato accolto con i buuuh, dicevamo. Poi si è scoperto che forse è forte, e viaggia a una media di 14 punti e 8 rimbalzi. New York è ai suoi piedi e lo esalta, non l’ideale per un giovane europeo che deve ancora farsi e ha diritto a periodi opachi durante lo sviluppo. Ai Knicks è passato Andrea Bargnani, e si è spento del tutto. Ora, invece di trasferirsi a Sacramento per giocare con Belinelli, come gli avevano proposto, ha scelto i Nets, dove non sta andando bene, per il momento. Però capisco la logica del Mago: sei a New York, la città dei Fabio Volo, dei Jovanotti, hai soldi da spendere, e se ti dicono che hai fallito puoi sempre dire che è colpa loro. Tanto, probabilmente, è vero.

 

Questo articolo è tratto dal numero 7 di Undici. Nell’immagine in testata, Il Barclays Center dei Nets. Rich Schultz/Getty Images. Nell’immagine in evidenza, un’azione di gioco tra Nets e Knicks, lo scorso 13 gennaio. Al Bello/Getty Images