Tutte le volte che arriva la Juve Max scende dal tabaccaio e compra un grosso Havana, ve lo giuro, una sberla lunga così. Poi si mette seduto quattro passi a sinistra della statuetta che tiene in giardino (il punto lo ha scelto sulla base di un preciso e severo calcolo aritmetico), fa un giro su se stesso – diciamo quarantacinque, cinquanta gradi, una mezza piroetta – e attacca a fumare quella specie di calumet scongiura sfiga. Puoi giurarci: quando arrivano quelli della Juventus, che sia settembre o maggio, con il vento che soffia o l’acquina noiosa che viene giù, con la neve o il caldo che soffoca, alle tredici in punto Max lo puoi trovare lì a consumare quel rito strampalato, un rito fatto di boccate e pensieri che se vanno in fumo, una cosa che (molto in teoria) dovrebbe servire a evitare la sconfitta del Bologna. Gli è andata parecchio male un sacco di volte, che ne dite? Ma poi, sapete com’è, a cose del genere o ci credi o chi te lo fa fare? Vivo a Bologna da più di due anni, a vederne di tutti i colori dovrei ormai esserci abituato. Eppure tifosi così io non li ho visti mai da nessun’altra parte. D’accordo: Max è uno un po’ eccentrico, un tipo strampalato. Ma gli altri? Mai una contestazione. Mai un coro fuori posto. Incitare, blaterare poco. We are one, noi siamo uno. Un motto, un mantra, un credo. Bologna è una regola. «Dammi retta, è la città. Sono i bolognesi. Perché credi siano riusciti a rigenerare Baggio, Signori e Di Vaio? I tifosi sono attaccatissimi alla squadra, ecco perché. La amano, farebbero pazzie, e credimi le fanno sul serio. Ma non forzano mai. I calciatori queste cose le avvertono». Se lo dice Gigi Maifredi, beh, deve essere vero. Voi direte: la fede calcistica è uguale dappertutto. Tolstoj, in fondo, lo diceva delle famiglie felici. E le società di calcio non sono delle grandi famiglie? Ma è nella rivalità più profonda che si tira fuori il peggio, è in quei momenti che saltano fuori le stranezze, i tic, le mutazioni eccentriche, le paure, e stasera, al Dall’Ara, c’è Bologna-Juve.
«Eeeh, tutto ‘sto trambusto, poi vedrai: dieci minuti, fan due gol e via, festa finita». La scaramanzia è ovunque. Persino Nicola, ragazzo serio, equilibrato e tenace (lavora in radio), non la smette di torturarsi il fegato a poche ore dal fischio d’inizio. A Bologna la settimana l’hanno trascorsa tutti quanti più o meno così, aggrappati alla speranza di sapere come si fa a disputare la partita della vita, ossessionati all’idea di poter battere la capolista o almeno metterla in difficoltà, maltrattarla un po’, magari, e fare quel passo verso l’Europa che mesi fa, quando non girava mai, quando il Bologna non vinceva mai, era peggio di un azzardo. Che poi, qui, la Juve non è soltanto l’avversaria per eccellenza, la corazzata da schiantare (a maggior ragione dopo quindici vittorie di fila), è di più, è la grande rivale dai tempi di Calciopoli, Dart Fener con il completino bianconero addosso. Insisto: «Avanti, su con la vita. E’ un momento fantastico, il Bologna può farcela». Nicola mi guarda di sottecchi, stralunato, prima di cambiare aria. Resto solo con le mie convinzioni, va beh. La città è nel caos, totalmente paralizzata. A Bologna non succede quasi mai, almeno non per una partita di calcio. Eppure fuori dai cancelli del Dall’Ara a una manciata di minuti dalle 18 c’è già un sacco di gente. Però è talmente presto che mi rompo. Metto in cuffia gli U2 e decido di farmi quattro passi fino all’antistadio per vedere l’accoglienza riservata ai pullman. Una volta, l’anno scorso, i tifosi organizzarono un passaparola su Facebook, si ritrovarono in più di mille nel grande spiazzo grigio, attesero l’arrivo del pullman, poi lo bloccarono in mezzo alla strada, e infine fecero scendere i giocatori costretti a passare tra la gente in festa, che applaudiva e incitava, un po’ come succede ai corridori nelle grandi salite in montagna del Tour de France. Bellissimo, pensai. Ma quella volta non giocavano contro la Juve. L’unica accoglienza è un petardo lanciato alla cieca contro il pullman degli avversari, gesto che poi Marotta, l’amministratore delegato bianconero, definirà «un atto di teppismo, di violenza che nulla ha a che fare con i valori veri di questa partita». Giro i tacchi, torno dentro.
Oltre i cancelli, una barriera di ferro battuto e file di steward in k-way blu e gialli ogni cosa è illuminata. E’ come attraversare la porticina del film di John Malkovich, quella che sta al settimo piano e mezzo e conduce in un luogo strano e affascinante. Alla spicciolata arrivano Luca Carboni, Cesare Cremonini, Gianni Morandi, e la gente si sarà pure abituata, non ci farà più caso, per carità, ma a me fa sempre un certo effetto vedere alcuni dei miei cd dell’adolescenza camminare con la sciarpa rossoblù al collo. Arriva Joey Saputo, l’uomo che ha salvato il Bologna dal fallimento e dall’oblio, uno dei trecento più ricchi del pianeta dice Forbes, eppure, mi ha raccontato una volta Donadel, l’ex giocatore del Parma e della Fiorentina, «uno talmente gentile e alla mano che quando sono arrivato agli Impact, l’altra sua squadra, quella di Montreal, mi ha chiesto se volevo un caffè, io ho detto ok, volentieri, e me l’ha fatto lui, proprio lui, capisci?, trafficando un po’ con la macchinetta». Arriva Antonio Conte, il ct, che per l’occasione ha bel un paio di occhiali con la montatura color azzurro, azzurro Italia naturalmente. «Sento che potrebbe succedere qualunque cosa», dice Nicola sbucando da chissà dove e sgusciando di nuovo via, su in tribuna questa volta. Annuisco, faccio sì con la testa, ma io non sento nulla. Dalla curva vengono sparati fuochi d’artificio, è una festa, un’euforia collettiva; a Saputo tutti urlano a gran voce di portare il Bologna in Europa, e allora quello si alza, sorride e fa ciao con la mano. Ad Allegri i tifosi juventini chiedono invece sempre le stesse cose: vincere, vincere ancora. E’ tutto così surreale e carico di adrenalina che a Nicola viene la domanda del secolo: «Come cavolo si fa a capire se sarà una partita da libri di storia o no?». Io che ne so, Nick, e faccio spallucce. Nel dubbio, però, ci facciamo due selfie anche noi: ma sì. Perché poi l’attimo passa e non torna più. Forse memorabile non è, ma la partita è comunque avvincente. Molto tesa di sicuro. La Juventus spinge come una locomotiva e io mi volto un attimo verso il prode Nicola che fa una faccia come a dire: “Visto? Dieci minuti e crollano. Te l’avevo detto”. Invece no. Il Bologna resiste per tutto il primo tempo, non crolla, si arrangia; Maietta chiude su Morata come un Beckenbauer con la barba, Gastaldello non lascia passare quel demone coi capelli ossigenati che è Pogba, e quando c’è spazio i rossoblù provano pure a buttarcisi dentro a quell’impeto e a quella follia che non ti saresti mai aspettato di vedere, con Destro o Giaccherini i Don Chisciotte del Dall’Ara. La Juve è ovviamente più forte, e si vede. Ma, come aveva detto Nicola, «stasera può succedere di tutto». Comincio a crederci anche io. Donadoni sembra un leone in gabbia. Allegri caccia qualche urlaccio, sbraita. L’area intorno alle panchine è un palcoscenico e la partita della mimica tra i due allenatori è uno show sempre un po’ buffo.
Quando si ricomincia sembra che nulla sia cambiato, o interrotto veramente: la Juventus continua ad andare forte, a macinare gioco, mentre il Bologna tiene botta e quando può fa possesso palla calibrato e intelligente. C’è equilibrio, in fondo. Allora Allegri butta dentro Cuadrado. Donadoni toglie Taider per Brienza, il valzer delle sostituzioni è in realtà una macarena. C’è spazio anche per Dybala, che non guasta. Ma gli interpreti contano meno del grande tutto, come se Bologna-Juve fosse una gigantesca sfera granulosa tenuta assieme dall’energia sugli spalti, dalle forze intorno a questa partita che qui, in città, avevano atteso come una finale di Champions. Direte: è troppo, il peso è della Juve, che deve vincere per non rischiare di farsi sorpassare di nuovo dal Napoli al primo posto, al Bologna che importerà mai? Ma è molto più di questo. Avrei dovuto capirlo leggendo una frase di Buffon qualche giorno fa: «Il pensiero di vincere ce l’hai solo quando in passato hai già vinto». Una filosofia, un modo di essere. La vittoria per imitazione. E’ Platone che dice: «Conoscere è ricordare». Come si vince, come si è vinto. Un insegnamento che Donadoni sta cercando di dare alla sua squadra. Ecco cos’è tutta quella tensione. A cinque minuti dalla fine mi giro l’ultima volta verso Nicola, ma lui fa finta di non notarmi e tiene gli occhi fissi sul campo. «Oh, Nick, è andata, il pari è buono», ma quello fa una smorfia e mentre succede sento tutto lo stadio che fa una smorfia più rumorosa e crudele, e così mi rigiro di scatto e vedo Mirante ancora a mezz’aria che sta smanacciando lontano un pallone pericoloso. E’ l’ultima emozione. Nicola sbuffa, credo gli sia venuto un capello bianco per l’apprensione. Poi mi avvio nel corridoio che porta alla sala stampa. C’è anche Claudio Fenucci, l’amministratore delegato del Bologna. Ha i capelli scompigliati e l’aria di chi deve aver nascosto la tensione sotto la pelle. Mi dà un pacca sulla spalla, darà le solite due dichiarazioni per la stampa. Giù dalle scale c’è anche quel vecchio pazzo di Max. «Hai visto che il mio rito ha funzionato? L’anno prossimo si replica». Ah, maledetta scaramanzia. E penso: «Che gran trambusto, ragazzi. E se non fosse finita 0-0?».
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