Firenze, settembre 2011. Riccardo Montolivo, capitano della Fiorentina, entra, sbattendo la porta, nell’ufficio del presidente della sua squadra, Andrea Della Valle. Contrariamente all’atteggiamento che lo contraddistingue in campo come uno dei centrocampisti con meno fervore agonistico del campionato, si mette a urlare, sbattendo i pugni sul tavolo, sopraffatto dalla frustrazione. Da mesi ha deciso di non rinnovare il contratto che lo lega ai viola, convinto che, nelle battute finali della sessione di mercato appena conclusa, ore in cui il tempo si dilata e lo spazio si deforma facendo sgretolare diktat, prese di posizione e pretese troppo alte, avrebbe ottenuto un benevolo via libera per lasciare con un anno di anticipo la sua prigione fiorentina. Tra le tante parole che rovescia contro il principale responsabile della sua mancata cessione, una persona che ha fatto della fermezza oltre ogni ragione la cifra stilistica della sua vita nel calcio, ce ne sono alcune che pesano più di altre: «Non posso vedere Nocerino che gioca al Camp Nou mentre io me ne sto qui». Antonio Nocerino ha appena lasciato il Palermo per il Milan, proprio con un contratto in scadenza, proprio l’ultimo giorno di mercato e, probabilmente, proprio per coprire un vuoto lasciato dal mancato arrivo di Montolivo.
Nocerino al Camp Nou
In quella stagione, battezzata dalla frase di Montolivo, Nocerino segna 10 dei 21 gol in Serie A realizzati in tutta la sua carriera. Come il Buba dell’omonimo racconto di Roberto Bolaño, pietra miliare della letteratura a tema calcistico presente nella raccolta Puttane assassine, Nocerino sembra un giocatore sospinto da una forza sovrannaturale, che gli permette di rendere reali gesti fino a quel momento ritenuti incompatibili con il suo portafoglio delle possibilità. Tra questi gesti, inesorabilmente, non solo c’è giocare al Camp Nou, ma segnare al Camp Nou, e non nei minuti finali di una stanca partita del Trofeo Gamper, ma nei quarti di finale di Champions League. Quello che succede dopo la stagione da realismo magico di Nocerino è storia nota, più realistica e meno magica: Montolivo approda finalmente al Milan, ma fallisce in pieno l’obiettivo di raggiungere lo status di grande giocatore in una grande squadra, incappando in uno dei peggiori periodi della storia recente dei rossoneri e dovendo per di più sopportare il peso di esserne il capitano, e quindi il simbolo. Il più limpido caso di hybris degli ultimi anni di calcio italiano.
La hybris, parola ginnasialmente tradotta con “tracotanza”, è uno dei grandi temi della mitologia e della tragedia greca, il cui corpus narrativo trova uno dei suoi motori principali in personaggi accecati dalla superbia che, dopo aver osato e essersi spinti al di là delle proprie capacita, e quindi dell’ordine costituito dagli Dei, incappano nella puntuale e spietata punizione di questi ultimi. Dei che, da censori delle velleità come moderni commentatori compulsivi di social network, condannano gli auto-sopravvalutati costringendoli a vivere nel lutto esistenze disastrate e grottesche, se paragonate alle aspettative dei peccatori stessi.
La splendida rete realizzata contro il Cagliari
Milano, settembre 2014. Giacomo Bonaventura, centrocampista dell’Atalanta, entra nell’ufficio dell’Amministratore Delegato della sua futura squadra, Adriano Galliani. L’estate precedente, arrivata dopo una stagione in cui aveva messo a segno sette gol fondamentali per la salvezza dell’Atalanta, si era conclusa senza che nessuna squadra si fosse fatta avanti in modo deciso per l’acquisto del suo cartellino. Buona parte di questa, invece, l’ha impiegata aspettando che la Fiorentina cedesse Cuadrado e reinvestisse su di lui parte degli utili dell’affare, ma invano. Sul finire della sessione di mercato si è fatta avanti l’Inter, ma, ancora una volta a causa di una mancata cessione, in questo caso quella di Guarin, la società non ha trovato i soldi necessari per accontentare l’Atalanta.
L’annata che ha convinto il Milan ad acquistarlo
Basterebbero sette milioni, una cifra spesa spesso con leggerezza nel mercato italiano, ma che apparentemente nessuno ha intenzione di spendere per lui. Si fa già sera quando inizia a circolare la notizia che Biabiany, già presentato sui social network dal Milan come nuovo acquisto, non vestirà il rossonero a causa del rifiuto di Zaccardo di percorrere in senso inverso la strada tra Milano e Parma. Basta una telefonata per far diventare Bonaventura l’ennesimo acquisto chiuso nell’ultima ora di mercato di Galliani, specialista della disciplina. Dopo aver firmato il contratto che lo legherà ai rossoneri per le stagioni successive, come per liberarsi di un peso che lo tormenta non solo dall’estate che sta per concludersi, ma da tutta la sua vita sportiva, scoppia a piangere, bagnando con le lacrime quello che probabilmente è il momento di svolta della sua carriera. Tra le tante punizioni inflitte a Montolivo per la sua hybris la peggiore è, senza dubbio, vedere affermarsi al suo fianco, nella sua squadra, come se fosse un morale della favola vivente e calciante, l’anti-hybris in persona, un auto-sottovalutato archetipico: Giacomo Bonaventura.
In una delle prime interviste da giocatore del Milan, rilasciata dopo essere andato in gol a 25 minuti dall’esordio in rossonero, dopo aver descritto l’ambiente di Milanello come un posto in cui c’è «la cultura del lavoro» (sarà lo stesso allenatore Inzaghi, a fine anno, a dire di voler rimanere al Milan proprio per riportarci la cultura del lavoro), parlando di se stesso afferma: «non mi sento mai bravo, penso che si debba crescere ogni giorno». Con un accecante lampo di umanità, Bonaventura rivela di avere la stessa ansia, la stessa mancanza di appagamento per il proprio lavoro, che affligge buona parte dei suoi coetanei. Viene spesso messo a confronto con i suoi colleghi per l’assenza dal suo corpo di capigliature appariscenti e tatuaggi, ma è in questa risposta che, in realtà, emerge tutta la diversità di Bonaventura.
Laddove qualcuno avrebbe detto «sono l’uomo giusto per questa squadra», e qualcun altro «voglio dimostrare quanto valgo», lui manifesta apertamente la sua insicurezza. La stessa mancanza di fiducia nei propri mezzi che, due anni prima, al termine della sua prima stagione da titolare in Serie A, lo porta a dichiarare in merito: «un giorno potrò dire di aver fatto parte anche io dell’album Panini». Bonaventura è uno dei giocatori italiani più talentuosi della sua generazione, ma apparentemente non lo sa, ed è convinto che una stagione in Serie A e una figurina intera da mostrare ai propri nipotini possano realisticamente essere il massimo traguardo della sua carriera.
Il capitolo della storia di Bonaventura che stona di più con la sua auto-narrazione di giocatore modesto nel corpo di una persona modesta è quello della sua decisività. Nel 2010, a coronamento della sua prima stagione da titolare, in Serie B con il Padova, segna uno dei tre gol che salvano i biancoscudati dalla retrocessione in Lega Pro, nel ritorno dei playout contro la Triestina. Nella stagione 2010-2011 i sui gol valgono da soli 15 dei 79 punti con cui l’Atalanta vince il campionato cadetto e torna nella massima serie. Nel 2012 segna il gol che chiude lo scontro diretto per la salvezza tra Atalanta e Fiorentina e che di fatto salva con tre giornate di anticipo i nerazzurri. Quando firma il suo contratto con il Milan ha già segnato tre gol a San Siro, fondamentali nelle due vittorie consecutive ottenute dall’Atalanta in casa dell’Inter tra il 2013 e il 2014. In questa stagione, oltre aver segnato su punizione il gol che ha risolto negli ultimi minuti del secondo tempo supplementare la partita di Coppa Italia col Crotone, ha partecipato, con 5 reti e 7 assist, a un terzo dei gol messi a segno dal Milan in campionato. Un Milan che, nelle due partite senza lui in campo, non è riuscito a vincere, segnando soltanto un gol.
Il momento della storia di Bonaventura che sembra essere più coerente con la sua auto-narrazione di giocatore modesto nel corpo di una persona modesta è quello del suo rapporto con la Nazionale. Ai Mondiali Under 20 del 2009 disputati in Egitto, che rimangono ancora oggi l’unica competizione alla quale ha presenziato al di fuori dei confini italiani, sia a livello di club che di nazionale, scivola dopo una sola partita nelle gerarchie del CT Rocca. Come esterno destro gli viene preferito Della Penna, oggi alla Boreale in Eccellenza, e dietro la punta si alternano Sciacca, attualmente svincolato, e Mazzarani, in forza al Modena. Nei tempi supplementari dei quarti di finale contro l’Ungheria, però, è proprio Bonaventura, subentrato a Della Penna, a segnare il gol del momentaneo 2-2 che sembra poter valere i calci di rigore per gli azzurrini, che erano stati all’inseguimento dei magiari per tutta la partita. Di lì a poco Nemeth segnerà il 3-2 finale, ma il gol di Bonaventura è l’equivalente di uno schizzo a matita di tanti gol che verranno negli anni a seguire: inserimento pala al piede dalle retrovie, dribbling, due avversari disorientati al limite dell’area dilatando il tempo di tiro, botta a incrociare sul palo più lontano, esultanza con corsa verso la panchina intervallata da urla di gioia (esattamente la stessa del prim gol con la maglia del Milan a Parma).
Il gol di Bonaventura in maglia Under 20
Nonostante questo, il rapporto con l’azzurro continua a peggiorare con il tempo. Nel ciclo di Under 21 che disputa le qualificazioni agli Europei di categoria del 2011, poi mancate per la prima volta dal 1998, non trova spazio né sotto la guida di Casiraghi né sotto quella di Ferrara. Casiraghi lo convoca per le sue ultime partite da CT, ma non lo fa scendere in campo, preferendogli Schelotto, Fabbrini e Pasquato. Al termine della stagione 2012-2013 nel corso della quale si impone nel calcio italiano viene chiamato nella nazionale maggiore da Prandelli, che lo fa esordire in un’amichevole vinta 4-0 contro San Marino. È anche nel gruppo di giocatori chiamati per gli stage di preparazione ai Mondiali, ma viene lasciato fuori dopo le prime scremature, ancora una volta ritenuto secondo ad altri. Con l’arrivo di Conte in panchina viene convocato più spesso, ma anche in questo caso scende in campo soltanto una volta, ancora in un’amichevole, subentrando a venti minuti dalla fine di un Italia-Albania 1-0. In un contesto come quello di una selezione nazionale, con giocatori non abituati a stare insieme sul campo, rose assemblate senza la pianificazione di un mercato e moduli che cambiano continuamente alla ricerca della miglior combinazione possibile, la versatilità è una delle caratteristiche che dovrebbero essere più ricercate da un CT. Bonaventura, nonostante sia da tempo il centrocampista più versatile tra quelli convocabili in azzurro, ha quasi 27 anni, e soltanto due presenze in Nazionale.
La sua ricercata versatilità ci permette di capire completamente l’auto-narrazione del Bonaventura giocatore modesto nel corpo di una persona modesta. Ha la sfortuna di essere un esterno naturale del 4-4-2 nell’era dell’estinzione del 4-4-2, e reagisce a questa apparente incompatibilità con il contemporaneo scegliendo l’adattamento al posto della reazione. Invece di specializzarsi nel suo ruolo, sperando di diventare il feticcio di allenatori retromaniaci, si applica fino a diventare uno dei tre giocatori in Italia, insieme a Florenzi e Giaccherini (con i quali condivide molto, a partire dallo spirito di sacrificio), che possono essere definiti con l’aggettivo vintage “jolly”. Esterno, interno, trequartista dietro le due punte, in una delle tre posizioni dietro la punta nel 4-2-3-1, ala nel 4-3-3. Nuotando contro corrente in un mare di inchiostro afferma a più riprese, fin dai primi tempi all’Atalanta, che per lui non c’è differenza tra giocare mezz’ala o esterno, perché in fondo «i movimenti sono molto simili», e neanche tra mezz’ala e ala nel tridente, perché in fondo «ballano solo una decina di metri». Il calcio è pieno di giocatori troppo pigri e troppo sicuri di sé anche solo per spostarsi sulla fascia opposta a quella consueta, ma per Bonaventura cambiare quattro ruoli in tre partite è semplicemente la naturale conseguenza del suo sentirsi non ancora compiuto: «Se c’è qualche defezione, mi fa piacere che si pensi a me per sostituire un mio compagno». Bonaventura applica a scadenza settimanale il ditktat darwiniano di adattarsi per non estinguere, senza sapere di non essere affatto in via di estinzione.
Tutte le reti di Bonaventura contro l’Inter
Nella mitologia e nella tragedia greca Nemesi è la giustizia compensatrice, la divinità preposta alla concreta distribuzione di gioia ai giusti e dolore agli ingiusti. La carriera di Bonaventura è stata fino ad oggi limitata da molti lacci: il fisico gracile, la cecità degli allenatori, l’incapacità di apprezzare i non specialisti, la sfortuna, e non ultime la sua stessa umiltà e la sua stessa incapacità di liberarsi da auto-condizionamenti ed esprimersi senza il pensiero di non essere all’altezza. Nella stagione della maturità, con il Milan in crescita e gli Europei alle porte, per Nemesi potrebbe essere veramente arrivato il momento di saldare i conti con Jack Bonaventura, sciogliendo definitivamente tutti i suoi lacci, e lasciandolo imporre come giusto protagonista del calcio italiano.