Non sapremo mai se il Verbo di Guardiola conteneva più saggezza o più melassa: sappiamo che ci abbiamo creduto in tanti, e che adesso ci crediamo un po’ meno. «Il mio unico merito è amare quello che faccio»; «Non c’è nulla di più rischioso che non rischiare»; «Noi non abbiamo bisogno di un centravanti: il nostro centravanti è lo spazio»: ci siamo innamorati di Pep per il tiki-taka, per il sextete, per la scoperta di Messi «falso nueve», ma anche per frasi come queste, che rompevano la piatta liturgia delle conferenze stampa restituendoci l’immagine oleografica di un allenatore missionario, se non addirittura di un profeta.
Nell’inconsapevole (o forse no) storytelling di sé stesso che metteva in scena per il solo fatto di aprire bocca, Pep – canterano, raccattapalle, capitano e allenatore sempre fedele agli stessi colori e sempre politicamente correttissimo – rappresentava indiscutibilmente il Bene, laddove José Mourinho – polemico, querulo, strafottente e mercenario – finiva inevitabilmente per incarnare il Male. L’eleganza dialettica con cui sapeva emergere dai ruvidi corpo a corpo col rivale faceva da pendant alla raffinatezza di pensiero calcistico e alla sua innata classe di uomo di mondo. Guardiola il politico, da sempre impegnato in prima persona nella causa dell’indipendenza catalana; Guardiola il filosofo, come una volta lo definì spregiativamente il suddetto Mou; Guardiola il cosmopolita, che si preoccupava di imparare le lingue ancora prima di mettere piede all’estero; Guardiola l’amico di intellettuali e scrittori, che leggeva i libri giusti e sapeva trovare quelli adatti per chiunque, persino per un illetterato confesso come Messi (Saber perder di David Trueba: inutile dire che l’interessato, notoriamente refrattario all’idea di sconfitta non meno che alla lettura, non l’ha mai aperto).
Poi un giorno Pep ha deciso che il Barcellona lo asfissiava. Che Barcellona lo asfissiava. Quattro anni sulla panchina del Camp Nou gli avevano imbiancato e poi definitivamente sparecchiato dalla chioma i residui capelli, e il pensiero di dover rimanere a fare il Guardiola per tutta la vita, con il popolo blaugrana a chiedergli di ripetere all’infinito i numeri che lo avevano reso immortale prima ancora di compiere quarant’anni, non gli dava pace. Così si è trasferito per un anno a New York, a imparare l’inglese, a visitare il Moma e il Metropolitan, a frequentare i teatri di Broadway, a dimostrare ancora una volta la sua spiazzante superiorità su tutti noi, che aspettavamo orfani il suo ritorno mentre lui sembrava poter far benissimo a meno del calcio. È stato però proprio in quel frangente che la narrazione provvidenziale del guardiolismo, di cui noi fan della prima ora siamo stati i primi corresponsabili, ha accusato la prima battuta d’arresto. Quando si è saputo che Tito Vilanova si trovava anche lui a New York per curarsi il cancro e che il suo amico Pep non era neanche andato a trovarlo, non siamo riusciti a trovare nemmeno una buona ragione, tra i mille motivi di scazzo che potevano sussistere tra i due, che giustificasse anche solo lontanamente la mancata visita a un amico malato.
Durante l’anno sabbatico, i più ingenui e sognatori tra noi avevano nel frattempo almanaccato a lungo su quale sarebbe stata la causa più o meno persa a cui Guardiola avrebbe consacrato la propria missione evangelizzatrice una volta tornato in panchina: la Roma o l’Athletic Bilbao? Il Brasile o il Brescia? La scelta del Bayern, da questo punto di vista, appariva non altrettanto suggestiva, ma almeno – ci si consolava – non era il Chelsea o il City, società buone per un Mourinho, non certo per un puro come lui. Puro per modo di dire, si intende: in Baviera Pep è diventato l’allenatore più pagato del pianeta (16 milioni all’anno), e il fatto di non essere ancora riuscito a ricambiare la fiducia con una Champions League non ha compensato, agli occhi magari un po’ ottusi ma certamente obiettivi dei fan bavaresi, alcuni inarrivabili scorci di bellezza (il 6-1 col Porto l’anno scorso, ad esempio) e i consueti e generosi slanci di creatività tattica (Lahm mediano, Alaba tuttocampista, centrocampo a 6 e via sperimentando) di cui è capace.
Non è comunque certo questa la ragione per cui l’anno prossimo Pep allenerà il City: lo allenerà perché, alla faccia dell'”amo quello che faccio” e del “rischio di non correre rischi”, a Manchester gli hanno offerto più soldi di tutti gli altri. Ed è solo al momento dell’annuncio ufficiale che a noi amanti, troppo a lungo obnubilati dalla passione, sono tornate in mente tutte le cose che non ci piacevano anche quando lo adoravamo: i trascorsi in Qatar e il sostegno alla candidatura per i Mondiali del 2022; la campagna per gli indipendentisti di centrodestra; il fatto che nonostante l’aura di cosmopolitismo intellettuale legga quasi solo autori catalani. Per non parlare di certe dichiarazioni un po’ arroganti come quella in cui se la prese con coloro che lo trattavano come un «meacolonia», un piscia-profumo superbo e borioso. Ecco, dopo anni di infatuazione cieca, oggi appare chiaro anche a noi che Pep è un «meacolonia». Ma se un giorno riuscirà di nuovo a farci innamorare come del suo Barça, siamo pronti a rimangiarcelo.
Nell’immagine in evidenza: una sciarpa con il volto di Guardiola fuori dall’Etihad Stadium di Manchester. Clive Brunskill/Getty Images