Il grande gioco

Gli arresti, le accuse, la corruzione, le mazzette, e finalmente le elezioni: il grande romanzo dello scandalo Fifa

«Let the chips fall where they fall». Che le schegge cadano dove devono cadere,  il tagliaboschi si deve preoccupare solo di abbattere l’albero, colpo di scure dopo colpo di scure. E ora che l’albero della Fifa è stato schiantato da nove mesi di scandali e arresti, le parole di Jack Warner suonano come una la profezia della Pizia. Lui, vicepresidente della Fifa e numero uno della Concacaf per 21 anni (la Confederazione che unisce Nord America, Centro America e Caraibi), è finito nella polvere, ma con lui è crollato tutto il sistema della Fifa. Un sistema che con le elezioni del 26 febbraio è chiamato a rinascere, o quanto meno a rigermogliare, se ancora qualche goccia di linfa sana scorre tra le sue radici. Per ora il panorama mostra solo le schegge, la desolazione di una segatura morale e imprenditoriale in cui è facile perdersi. Ecco perché, prima di capire chi riceverà la ingombrante eredità di Sepp Blatter, è utile cercare di capire dove, come e soprattutto per quale motivo quelle schegge sono cadute.

 

Il blitz

Member of the FIFA Executive Committee and Commissioner of the American Soccer League and Executive Vice President of the United States Soccer Federation and General Secretary of CONCACAF Chuck Blazer is seen in Hungexpo of Budapest on May 25 , 2012 prior to the 62nd FIFA Congress meeting. AFP PHOTO / PETER KOHALMI (Photo credit should read PETER KOHALMI/AFP/GettyImages)
Chuck Blazer, ex membro del Comitato Esecutivo Fifa, Segretario del Concacaf Chuck Blazer (Peter Kohalmi/Afp/Getty Images)

Il primo colpo di ascia sul tronco della Fifa risuona nell’alba di Zurigo, mercoledì 27 maggio 2015, quando la polizia cantonale svizzera fa irruzione nell’hotel di lusso del Baur au Lac. I membri del Comitato esecutivo Fifa sono riuniti in attesa del congresso del 29 maggio, chiamato a eleggere il presidente. Il padre padrone uscente, Sepp Blatter, è dato per favorito contro il principe giordano Ali bin Al Hussein. Ma quelle elezioni saranno agitate dall’arresto di sette alti funzionari: Jeffrey Webb (vicepresidente Fifa e presidente Concacaf, delle Isole Cayman), Eugenio Figueredo (vicepresidente Fifa, Uruguay), Eduardo Li (Costa Rica), Julio Roca (Nicaragua), Rafael Esquivel (Venezuela) e José Maria Marin (Brasile) e il consigliere della Concacaf Costas Takkas. Due giorni più tardi si costituisce a Trinidad e Tobago anche Jack Warner, ex vicepresidente Fifa. È subito chiaro che si tratta del peggior terremoto giudiziario nella storia del calcio. Sia per l’alta caratura dei 14 indagati, tra cui spiccano anche manager di società televisive e di marketing, sia per la coincidenza con la rielezione di Blatter, sia per la gravità dei 47 capi di imputazione, che vanno dalla frode al riciclaggio, dall’associazione a delinquere al racket alla cospirazione. E anche perché – come reso noto dalle autorità svizzere – il mandato di cattura è stato spiccato dall’Fbi. La spy story è appena iniziata.

 

Le accuse

Jack Warner, ex vice-Presidente Fifa, a Trinidad (Joe Raedle/Getty Images)
Jack Warner, ex vice-Presidente Fifa, a Trinidad (Joe Raedle/Getty Images)

Neppure il tempo di chiedersi cosa diavolo centri l’Fbi con le malefatte del calcio, che il ministro della Giustizia statunitense, Loretta Lynch, organizza una conferenza stampa destinata a diventare il peggior atto di accusa mai mosso al mondo del pallone. Parla di corruzione sistematica, di vent’anni di gestione fraudolenta, di due generazioni di dirigenti che dal 1990 si sono arricchiti approfittando della loro posizione; e ancora di un livello di malaffare incalcolabile, di un tradimento oltraggioso della fiducia. La cessione dei diritti tv, gli accordi commerciali, le elezioni presidenziali, i Paesi ospitanti, la sponsorizzazione degli eventi calcistici in Nord, Centro e Sud America: tutto era truccato, assegnato previa bustarella, per un giro di tangenti di oltre 150 milioni di dollari (110 solo per i diritti di marketing dell’edizione del centenario della Copa América, in programma quest’anno). Ma al di là delle cifre e delle parole usate dal procuratore generale degli Stati Uniti, finalmente si comincia a capire come si è giunti a quel primo colpo di scure. E a capire anche che in fondo il tronco della Fifa era già marcio.

 

Le indagini

Blatter e Mohammed bin Hammam, presidente della Confederazione asiatica, e una guida nella Basilica della Natività a Betlemme, nel 2008 (Musa al-Shaer/Afp/Getty Images)
Blatter e Mohammed bin Hammam, presidente della Confederazione asiatica, e una guida nella Basilica della Natività a Betlemme, nel 2008 (Musa al-Shaer/Afp/Getty Images)

Tutto prende il via nel dicembre 2010, quando vengono assegnati i Mondiali 2018 e 2022 rispettivamente a Russia e Qatar. Gli Stati Uniti, ritiratisi per la corsa al 2018 per concentrarsi su quella del 2022, non prendono bene la sconfitta. La Russia è nel mirino per il razzismo negli stadi, il Qatar ha zero cultura sportiva e condizioni climatiche proibitive. L’assegnazione fa arrabbiare la gente sbagliata, ovvero gli inglesi e soprattutto gli americani. I quali cominciano a cercare prove della presunta corruzione dei delegati chiamati a votare per l’assegnazione della Coppa del Mondo. L’Fbi inizia a ficcare il naso tra le 6 Confederazioni, mettendo nel mirino i presidenti delle singole federazioni. Gli investigatori notano come ogni membro del  Comitato esecutivo viva da nababbo e colgono come il sistema di scelta della Fifa sia quasi fatto apposta per favorire la corruzione. La svolta avviene quando, nel 2011, il qatariota Mohamed bin Hammam si candida alle elezioni presidenziali. Per ingraziarsi i voti dei caraibici fa avere delle buste marroni con 40mila dollari per ogni delegato, tramite il presidente Concacaf Jack Warner. Un passo falso che innesca la fine del sistema. Perché Chuck Blazer, deus ex machina della federazione Usa, non la prende bene. Warner era il suo uomo di fiducia, il suo fantoccio, e si è montato la testa. Ecco allora che dalle manone di Blazer parte un dossier che giunge fino alla Fifa e schianta le carriere sia di bin Hammam, sia del suo ex pupillo Warner. Dando però così agli inquirenti una traccia da seguire.

 

La talpa

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Chuck Blazer e il suo pappagallo Max (dal profilo G+ di Blazer)

La traccia, come insegna il Watergate, è sempre quella lasciata dal denaro. In particolare quello sui conti alle Cayman intestati proprio a Chuck Blazer. Lui, uomo dagli appetiti voraci (vive in un appartamento da 18mila dollari al mese e stazza quasi due quintali) negli Stati Uniti è l’uomo simbolo del soccer. Disoccupato, aveva sfruttato la passione per quello sport così poco americano praticato dal figlio per farne un business. Ne aveva colto le potenzialità economiche, diventando il numero due della Federazione e soprattutto il segretario generale nonché gestore finanziario della Confederazione continentale, con cui organizzava la Gold Cup, la Confederation cup e il Mondiale. Le organizzava da par suo, intascando per il disturbo oltre 21 milioni di dollari spalmati su vent’anni, tanto da guadagnarsi il nomignolo di Mr. Ten Percent, dato che un cent su 10 guadagnati dalla Concacaf doveva arrivare a lui. Tanta avidità, connessa a uno stile di vita smodato con tanto di foto coi grandi della Terra da Putin a Giovanni Paolo II, gli è stata fatale. L’Fbi e l’Irs (l’Agenzia delle Entrate americana) tracciano pagamenti di centinaia di migliaia di dollari sui suoi conti off-shore, scoprono società fantasma e bonifici dal Sudamerica. E dato che gli Usa possono perseguire ogni evasione fiscale dei loro cittadini – anche su capitali illeciti detenuti all’estero – ecco la svolta: come Al Capone, nel novembre 2011 Blazer viene tradito dalle tasse non pagate. E per sfuggire a una condanna ventennale firma un accordo di collaborazione: diventerà una spia sotto copertura, registrando con un portachiavi-cimice le conversazioni con gli alti papaveri Fifa per aiutare l’Fbi a smantellare il sistema di assegnazione fraudolenta dei Mondiali.

 

Gli altarini scoperti e l’autogol

Jacob Zuma e Joseph Blatter, alla cerimonia di apertura dei Mondiali 2010 (Stephane De Sakutin/Afp/Getty Images)
Jacob Zuma e Joseph Blatter, alla cerimonia di apertura dei Mondiali 2010 (Stephane De Sakutin/Afp/Getty Images)

Blazer fa rapporto al governo americano 19 volte dal 2011 al 2013, quando viene arrestato insieme a Warner. Intanto le voci sul sistema corruttivo Fifa si fanno sempre più frequenti e diffuse. Ne scrivono in molti, ne sussurrano tutti. Le autorità inglesi accusano i delegati sudamericani di aver richiesto bustarelle per l’assegnazione del Mondiale 2018 e una gola profonda  (la qatariota Phaedra Al Majid) fa trapelare che il suo Paese avrebbe pagato 1,5 milioni per assicurarsi i voti di alcuni membri africani del Comitato Esecutivo. Abbastanza per far esplodere il bubbone. Tanto che nel luglio 2012 Sepp Blatter – per fugare i dubbi e dimostrare la trasparenza della Fifa – incarica il magistrato americano Michael J. Garcia di condurre un’inchiesta in tal senso. Senza rendersi però conto che Garcia è un osso duro. Per due anni interroga chiunque, viaggia ovunque (tranne in Russia), importuna ex membri del Comitato e redige un dossier di 430 pagine. Il quale viene puntualmente secretato e insabbiato dal giudice supremo del Comitato etico Fifa Hans-Joachim Eckert, con un autogol che si rivelerà decisivo. La versione della Fifa è che quel rapporto contiene rappresentazioni “erronee” della realtà e che sostanzialmente prova solo alcune nefandezze, ma non l’illegittimità dell’assegnazione dei Mondiali 2018-2022. Ragion per cui basta pubblicarne un “bigino” emendato. Ma Garcia non è d’accordo e prima si dimette, poi consegna copia del rapporto sia alle autorità svizzere sia a quelle statunitensi. E altre schegge del tronco Fifa sono pronte a volare.

 

Il bubbone Mondiale

Il sindaco di Rio De Janeiro, Eduardo Paes, e il Segretario generale Fifa Jerome Valcke a Rio, settembre 2010 (J. P. Engelbrecht/Afp/Getty Images)
Il sindaco di Rio De Janeiro, Eduardo Paes, e il Segretario generale Fifa Jerome Valcke a Rio, settembre 2010 (J. P. Engelbrecht/Afp/Getty Images)

Da quel settembre 2014 al blitz nella tersa alba zurighese del maggio scorso, gli inquirenti lavorano bene e trovano di tutto. Per esempio trovano le tracce, le intercettazioni e le mail che testimoniano un pagamento di 10 milioni partito nel 2008 dal segretario generale della Fifa nonché braccio destro di Blatter, Jerome Valcke, e arrivato nelle tasche del solito, vorace Jack Warner. Una mazzetta per comprare i voti caraibici decisivi per l’assegnazione del Mondiale al Sudafrica, secondo gli inquirenti. «Contributo per lo sviluppo del calcio nei Paesi della diaspora africana» secondo la Federazione di Johannesburg. «Cospirazione sionista» per Warner, politico scafato, venditore eccellente e ballerino notevole, così come dimostra il video girato nelle ore successive al suo rilascio su cauzione. Ma a ballare, anzi a tremare, è l’intero castello costruito in vent’anni dai dirigenti corrotti. Dopo i primi arresti di maggio, filtra di tutto. Ogni Mondiale, una cloaca. Per esempio viene desecretata la testimonianza resa da Blazer, che parla di tangenti già per l’assegnazione di Francia ’98; Die Zeit parla di un carico di armi con cui la Germania si sarebbe assicurata i voti dell’Arabia Saudita per battere il Sud Africa per l’edizione 2006 (per la cronaca, fu decisivo il voto del delegato neozelandese, unico nell’Oceania a non sostenere la nazione africana); il presidente della Federcalcio irlandese John Delaney rivela che la Fifa si accordò per “rifondere” l’Eire con 5 milioni di euro per evitare una causa dopo il gol viziato da fallo di mano di Henry che spedì la Francia al Mondiale 2010 invece dei verdi; per Brasile 2014, invece, il doping è sul marketing: sempre grazie a Valcke i contratti sono così ricchi e fuori mercato da eliminare ogni concorrenza (infatti i vertici della Federazione verdeoro Marin e Del Nero sono finiti agli arresti). Infine l’assegnazione già citata di Russia ’18 e Qatar ’22, con le microspie nel quartier generale britannico di Wembley, l’arresto dello spacciatore di buste di banconote Bin Hammam e le ammissioni di corruzione poi ritrattate.

 

I pesci grossi: Blatter e Platini

Michel Platini e dei finti soldati della I Guerra Mondiale nel 2014 a Comines-Warneton (Philippe Huguen/Afp/Getty Images)
Michel Platini e dei finti soldati della I Guerra Mondiale nel 2014 a Comines-Warneton (Philippe Huguen/Afp/Getty Images)

Ma tutto questo quadro, all’indomani dell’ormai mitologica retata, incredibilmente sembra non toccare Sepp Blatter. Il quale si limita a commentare: «Non posso controllare tutto». Secondo le indiscrezioni sarebbe indagato, ma tetragono alle bordate che gli arrivano dai quattro cantoni, resta in sella: «Chi sbaglia paga, l’indagine è nata da una nostra denuncia», rivendica. Mondiali confermati, elezioni pure, nonostante il tentativo in extremis di posticiparle di sei mesi. Sembra avere tutti contro, da Cameron a Obama, dalle multinazionali che minacciano di bloccare le sponsorizzazioni all’ex amico Michel Platini, che dai vertici Uefa chiede «disgustato» le sue dimissioni. Eppure il 29 maggio Blatter vince di nuovo, dopo il ritiro al secondo scrutinio del principe giordano Ali bin al Hussein. Vince e attacca gli Usa («ingerenza da shock»), la polizia («inchiesta a orologeria») e soprattutto Platini: «Io perdono», le sue spietate parole, «ma non dimentico». Eppure è una vittoria destinata a durare poco. Il 2 giugno Blatter si dimette, ufficialmente «per amore della Fifa», ovviamente perché indagato negli Usa e ormai alle corde dopo le rivelazioni sulla tangente pagata dal suo vice Valcke e di cui lo stesso segretario generale diceva lui fosse al corrente. A fine giugno ritratta, lasciando intendere che la decisione spetterà solo al congresso straordinario, fissato appunto per il 26 febbraio. Passa l’estate, volano banconote in faccia a Blatter contestato in pubblico e dardeggiano altri mandati di ricerca internazionale firmati dall’Interpol e altre squalifiche per i dirigenti federali, dal Cile al Paraguay alla Corea del Sud. Poi, a settembre, una nuova bomba, stavolta per due: Blatter è indagato in Svizzera per gestione fraudolenta e appropriazione indebita e per il pagamento sospetto di due milioni di franchi a Michel Platini. Proprio lui, l’ex amico, poi traditore e in quel momento potenziale successore alla guida della Fifa. Lo accusano per un contratto firmato nel 2005 che faceva ricco il solito Warner e svantaggiava la Fifa, e lo accusano di aver versato due milioni di franchi svizzeri a Platini nel 2011 con la scusa di una vecchia consulenza del ’99-2002. «Lavori forse falsamente effettuati», in realtà si tratterebbe di un “cadeau” per convincere Le Roi a non correre per la presidenza Fifa contro di lui. Sotto la scure stanno cadendo anche le schegge più grandi e pericolose.

 

Il processo

Tokyo Sexwale e Gianni Infantino a Robben Island, dove Sexwalefu imprigionato durante l'Apartheid (Rodger Bosch/Afp/Getty Images)
Tokyo Sexwale e Gianni Infantino a Robben Island, dove Sexwale fu imprigionato durante l’Apartheid (Rodger Bosch/Afp/Getty Images)

Come un corpo assalito dai virus ma afflitto da una cronica immunodeficienza, l’organismo del calcio mondiale cerca di innescare i meccanismi di autodifesa. A ottobre la commissione d’inchiesta presieduta da Larry Mussenden delibera la sospensione per 90 giorni di Valcke, nel frattempo pizzicato pure a usare il jet Fifa per turismo personale e a lucrare su un giro di biglietti rivenduti a prezzi folli, oltre a Blatter e Platini. I quali si difendono: quei due milioni erano davvero il saldo dell’impegno dell’ex Pallone d’Oro nella campagna elettorale di Blatter e ci sarebbe un documento firmato dall’ex capo della Uefa Johansson che lo proverebbe. Sarà, ma la commissione Fifa presieduta da Eckert non ci crede. E a novembre lascia filtrare che sono in arrivo «sanzioni». Platini, che nel frattempo si è candidato alla presidenza, è di fatto congelato, non può fare campagna elettorale e si sente «trascinato nel fango», accostato ai peggiori delinquenti della storia del pallone e fatto fuori per mano giudiziaria. Detto, fatto: prima il Tas conferma la legittimità della sospensione, poi il Comitato Etico squalifica lui e Blatter per otto anni. Così, per difendersi in sede civile dal «processo farsa di giudici stipendiati dalla Fifa stessa», Le Roi è costretto a rinunciare alla corsa per la poltrona del calcio mondiale.

 

I candidati

Gianni Infantino a Nyon nel 2015 (Fabrice Coffrini/Afp/Getty Images)
Gianni Infantino a Nyon nel 2015 (Fabrice Coffrini/Afp/Getty Images)

Così ora, mentre la procura svizzera fa sapere che sta indagando su 150 operazioni finanziarie sospette connesse all’assegnazione dei Mondiali 2018 e 2022, si avvicina, se non la fine, almeno un nuovo inizio per questa storia. A Zurigo, venerdì 26, comincia un nuovo corso. E quella che fu di Blatter ora è una poltrona per cinque. Di questi, due sentono già mezza natica sullo scranno presidenziale. Il primo è Gianni Infantino, 46 anni, segretario generale Uefa dal 2009. Sostenuto dalle federazioni europee, da quelle sudamericane e da quelle centro-nordamericane, sarebbe un elemento di continuità ideale e territoriale: svizzero come Blatter, è immerso nei gangli del calcio e ne conosce i meccanismi, essendo avvocato specializzato in diritto sportivo. È considerato vicinissimo a Platini, tant’è che la sua candidatura è giunta solo dopo il congelamento di quella dell’ex numero dieci. Poliglotta, paga la scarsa mediaticità (si vede solo alla cerimonia di sorteggio dei gironi Champions…) e qualcuno potrebbe rimproverargli una contiguità con la gestione precedente.

Salman Bin Ebrahim Al-Khalifa a Doha (Karim Jaafar/Afp/Getty Images)
Salman Bin Ebrahim Al-Khalifa a Doha (Karim Jaafar/Afp/Getty Images)

Lo sfidante più agguerrito e pericoloso è lo sceicco 50enne Salman Bin Ebrahim Al-Khalifa, cugino dello sceicco del Bahrain nonché vice presidente Fifa e numero uno della Confederazione asiatica. Su di lui convergeranno le preferenze dell’Asia, anche se il suo sostegno a maggio a Blatter, unito alle mai del tutto fugate accuse di aver contribuito alla repressione di atleti che manifestavano per maggiori diritti in Bahrain nel 2011, rischiano di alienargli simpatie. Staccati, i due outsider: Tokyo Sexwale, magnate sudafricano delle miniere già in carcere insieme a Mandela, aveva sperato di unire l’Africa dopo l’esclusione dell’altro candidato, il discusso liberiano Musa Bility, ma è tentato dal ritirarsi. Jerome Champagne, invece, ex diplomatico 57enne ed ex giornalista, conosce i meccanismi della Fifa alla perfezione e ha un manifesto di riforme molto chiaro. Resta da capire se non verrà percepito come la marionetta di Blatter, che finora ha avversato solo a parole.

L’unico ad aver osteggiato il Grande Capo Blatter anche nei fatti è il quinto candidato, quel principe Ali Al Hussein figlio del mitico re di Giordania che lo aveva già sfidato a maggio. Un coraggio che rischia di non convincere, quello dell’unico vero candidato “nuovo”. Soprattutto perché al di là del bel libro dei sogni sul no al razzismo e alle partite truccate  c’è poco: la pubblicazione integrale del rapporto Garcia, una poltrona a Kofi Annan e la stima firmata Diego Maradona. Che in quanto a schegge impazzite, non ha niente da invidiare a nessuno, figuriamoci alla Fifa.