Onnipotenza

Steph Curry è il primo giocatore Nba a realizzare 300 triple in una sola stagione: per capire lui, e come sta cambiando il gioco, serve la parola «fun», divertimento.

Ricevo la mail un venerdì sera. Mi viene chiesto di scrivere di Steph Curry, “un’analisi della sua onnipotenza, del suo momento fuori dal normale”. Tutt’altro che fuori dal normale mi appare la richiesta, perché il n°30 di Golden State è reduce dal suo personalissimo tour della Florida. Per molti significa un biglietto per Disney World a Orlando e magari una notte brava a South Beach. Per lui 51 punti rifilati ai Magic seguiti da altri 42 ai danni degli Heat solo ventiquattro ore dopo (ho un amico che vive a Miami ed era alla partita: giuro che mi ha liquidato la gara da 42+7 rimbalzi+7 assist con 6/12 da tre dicendomi che Steph non ha neppure fatto un granché, salvo segnare le due triple decisive nell’ultimo minuto di gara. Vedi alla voce: assuefazione).

Golden State Warriors v Denver Nuggets

Mi vengono chieste anche altre cose: “Il basket sta davvero cambiando con lui?”. Mi verrebbe semplicemente da rispondere di sì, a meno che non sia normale segnare – di media! – più di cinque triple a partita (toccando quota dieci o più già cinque volte in stagione) e metterla regolarmente da oltre nove metri (è 35/52 al momento in cui scrivo, il che significa che attribuendo ai suoi 35 canestri da tre punti un valore 1.5 volte superiore a quelli da due, la sua percentuale effettiva è superiore a quella di un perfetto 52/52 da due!). Restiamo un attimo sul concetto di distanza: sommando quelle dei tiri segnati da Curry lo scorso anno si arriva oltre i tremila metri (3.024, per l’esattezza), che diventano quasi settemila (6.993) addizionando invece quelle dei tiri da lui presi. Quest’anno ha aumentato sia il primo che il secondo dato. Cosa vuol dire? Che di colpo lo spazio che le difese avversarie devono difendere è diventato molto più ampio che in passato, un 25% abbondante in più, con le ovvie complicazioni del caso. Ecco cosa vuol dire “aprire il campo”, e permettere così, negli spazi che si creano, più tagli, più movimento di giocatori, più penetrazioni (nelle conclusioni al ferro dal palleggio, lo stesso Curry ricava 1.14 punti a possesso, terzo miglior dato Nba).

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Chart by Joshua Fink

 

“È la miglior stagione di sempre di un giocatore Nba?”. Ci sono numeri che lo confermerebbero, e lo farebbero con una sicurezza quasi scientifica. Uno dei rating che misura l’efficienza delle prestazioni di un giocatore lo vede attualmente sfiorare quota 33, una cifra che supera perfino quelle delle annate ruggenti all’inizio dei gloriosi 60s di tale Wilt Chamberlain (31.82 nel 1962-63, 31.74 l’anno prima, i due migliori dati di sempre). Oh, Chamberlain, uno che non era neppure umano, somigliando molto più a un dio greco in scarpe da ginnastica che a un normale giocatore Nba. “E quanto c’entrano gli Warriors in quello che fa?”. Parecchio, a mio avviso. Davvero parecchio. Perché io non ricordo una squadra giocare con questo altruismo e divertirsi così tanto nel farlo (e su questo concetto di divertimento poi ci torno).

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Sms

Ma può bastare rispondere così? Ovviamente no. Solo che il giorno dopo va in scena la sfida tra Warriors e Thunder, a Oklahoma City. Sono tentato di vederla live, 2.30 AM, ma poi la mattina presto devo accompagnare un’amica in aeroporto, per cui lascio stare. Decollato il suo volo, c’è tempo di tornare a casa e fare play su MySky, per godersi tutto con più calma. Solo che sulla strada di ritorno mi arriva un sms, di chi fortunatamente mi conosce bene e sa che certe cose via messaggio vanno affrontate con accurata cautela. La prende alla lontana: «Hai visto qualcosa di Thunder-Warriors?». Rispondo immediatamente: «Non dirmi nulla. La vedo ora». Ma capisco che dev’essere successo qualcosa. Qualcosa di grande. E così schiaccio play.

Gli highlights della sua partita contro i Thunder: 46 punti (e due record Nba)

Quando non è trascorso neppure un minuto e mezzo dall’inizio del secondo tempo, temo di aver capito cosa. Curry cerca un assist in salto per Harrison Barnes, ma quando atterra la sua caviglia sinistra rimane sotto il piede destro di Russell Westbrook, girandosi in maniera violenta. Resta a terra un po’. Poi esce dal campo e, zoppicando, se ne va in spogliatoio. Seguono minuti di terrore, in attesa che la bordocampista della tv Usa Lisa Salters liberi me – e credo ogni tifoso di pallacanestro – dall’incubo che siano nuovamente le caviglie (come accadeva all’inizio della sua carriera) la kryptonite di questo Superman dai tratti così umani. Mi rimbalza in testa quell’sms. E purtroppo, lo ammetto, penso al peggio. A un infortunio serio; al dramma di una stagione finita – e finita così anche la rincorsa al secondo anello consecutivo per Golden State, al miglior record di sempre (72-10) detenuto dai Chicago Bulls di Jordan, ai primati personali, etc. Invece no: con 5:09 da giocare nel terzo quarto, Steph Curry torna in campo. Zoppica ancora un po’ a dire il vero, non sembra proprio saldo su quelle caviglie, ma se torna nella mischia significa che rischi veri non ce ne sono. Ma quel messaggio, allora?

 

Bang!

La prima stima, che subito appare cauta, colloca il tiro della vittoria di Steph Curry a una distanza di 32 piedi dal canestro, quasi 10 metri, ma arriva presto l’overrule, come a Wimbledon: facciamo 37 piedi, ben oltre gli 11. «Bang! Bang! Oh, what a shot by Curry!». È la 12esima tripla di serata (record Nba su singola gara eguagliato), è la 288esima stagionale (record Nba, ovviamente suo, distrutto – perché ci sono ancora 25 gare da disputare), sono i punti 44, 45 e 46 di un’altra prestazione da ricordare, metà dei quali segnati con una caviglia malconcia. «Bang!», quasi a svegliarmi, a farmi finalmente realizzare il senso di quell’sms. Faccio rewind per rivederlo un’altra volta. Poi un’altra ancora. È lì davanti ai miei occhi, il tutto non dura più di una quindicina di secondi. Immagini che finiranno in blocco negli highlights della stagione. In tutti i promo Nba dei prossimi anni. Nell’immaginario collettivo di tantissimi tifosi, in ogni parte del mondo. Come Michael che galleggia sopra Craig Ehlo, Chicago-Cleveland, 1989 – «The inbound pass comes in to Jordan… here’s Michael at the foul line… the shots on Ehlo… Goooooood! Bulls win!» – e quel pugno sferrato all’aria di MJ, ricordi che restano per sempre.

Incredulità. In tutto il mondo

Steph Curry per me sta costruendo la Storia così: con le immagini di oggi che diventeranno i ricordi di domani, (prima ancora che con i numeri e le statistiche). E allora eccola un’immagine che aiuta a raccontare Steph Curry oggi. È quella del suo allenatore che lo guarda – divertito e incredulo – dopo l’ultimo canestro impossibile. Perché il suo allenatore è Steve Kerr e Steve Kerr ha giocato – vincendo tutto – proprio con Michael Jordan ai Bulls, ricevendo dal 23 un cazzotto in allenamento e un assist per un tiro che valeva un campionato (regolarmente mandato a canestro, finali Nba 1997, gara-6 vs. Utah). All’epoca Kerr professava sicurezza e fiducia in sé («Sarò pronto», rispondeva a Jordan che nel time-out gli anticipava il passaggio decisivo), oggi invece non ci prova neppure a mascherare incredulità e sorpresa. Se non lo sa lui come fa Curry a compiere imprese del genere, come potrei riuscire a spiegarlo io?

Vado dentro, torno fuori, tiro. Contro i Clippers.

 

Divertimento

Siccome però mi viene chiesto di tentarci, provo a farlo partendo da una parola: fun, divertimento. Steph Curry e questi Golden State Warriors giocano e vincono come mai accaduto prima perché interpretano la pallacanestro per quello che è (e dovrebbe essere): un gioco. E lo scopo di un gioco qual è (prima ancora di vincere)? Divertirsi. È questa la mia teoria, semplice e banale, non certo scientifica (neppure vuole esserlo). Come ogni teoria, però, anche questa ha bisogno di tesi e argomentazioni a suo sostegno. La prima: nessun’altra superstar gioca a basket sorridendo, Steph Curry sì. Un sorriso di gioia, che poi è il sorriso di Draymond Green tra i suoi compagni, di Steve Kerr in panchina, e di tutti quelli che si divertono vedendolo giocare. Io, voi, i fan degli Warriors, i tifosi di tutto il mondo. E i suoi “colleghi”: a scrivere su Twitter «@StephenCurry30 deve smetterla! È assurdo quello che sta facendo! Mai visto nessuno come lui nella storia della pallacanestro» non è uno qualsiasi, ma LeBron James; ad affermare «Curry è IRREALE» è Dwyane Wade; a restare senza parole («No way») è Dirk Nowitzki; a prevedere che «@StephenCurry30 potrebbe diventare il più forte giocatore che si sia mai visto se riesce a mantenersi su questi livelli per altri 3-4 anni» è uno che a quel titolo potrebbe tranquillamente ambire in prima persona, Magic Johnson. Tutti conquistati, da quel gioco e da quel sorriso. Steph Curry e i Golden State Warriors oggi sono must-see television, come dicono negli Stati Uniti: se passano sui vostri schermi, il consiglio è di non farseli scappare. Non si resta mai delusi. Mai.

Indiana Pacers v Golden State Warriors

Argomentazione n°2: se è un gioco – nulla più – e noi lo affrontiamo divertendoci, non sentiamo la pressione (quale pressione?). Avete presente la capolista schiacciasassi del nostro campionato di pallone che riceve in casa il fanalino di coda senza speranze eppure annuncia per tutta la settimana catastrofiche previsioni in vista del match da affrontare? Avete presente quella parola – scudetto – vietatissima da pronunciare anche con centoventi punti di vantaggio sulla seconda? Ecco, niente di più lontano dal pianeta Warriors. Giunti alla decima vittoria in fila per iniziare la stagione, le domande sono arrivate puntuali: Steph, puntate al miglior avvio di sempre? Risposta: sì (o ancora meglio: perché no?). A quota 16 il precedente primato – 17 per superarlo – Curry e compagni si sono fermati solo dopo 24 successi. Per poi riprendere subito la corsa, 55 vittorie nelle prime 60 gare disputate. Arrivano altre domande, ulteriore pressione: Steph, volete chiudere la stagione imbattuti in casa (26-0 al momento, nel mirino il record dei Celtics di Bird, 40-1)? Risposta: sì, perché no? Intanto hanno vinto 45 partite di fila in casa, polverizzando il record dei Bulls ’96. Steph, volete superare le 72 vittorie dei Bulls di Jordan & Co.? Risposta: sì, perché no? Steph, vuoi infrangere il record di triple segnate in una stagione? Sì, perché no? [già fatto, è il primo di sempre a realizzarne 300]. Vuoi aggiudicarti il secondo titolo di Mvp consecutivo? Risposta: sì, perché no? [consideratelo fatto]. Vuoi vincere il secondo titolo Nba in fila? Sì, perché no? Pensiamoci: perché no? Qual è lo sportivo che non scende in campo per vincere? Qual è lo sportivo che non insegue successi, trionfi e, nel caso, primati? Perché negarlo? È un gioco, in fondo, e come un gioco Steph Curry e gli Warriors affrontano il tutto. Divertendosi. Ecco che così, di colpo, la pressione scompare.

«Do you believe in miracles?»

Argomentazione n°3: mi viene in soccorso una recente cover story di Sports Illustrated (gli Warriors del giornalismo sportivo, per quel che mi riguarda). Cito vari passaggi: «Ho dovuto aspettare 4 anni per avere un record vincente in questa lega, per cui non c’è verso che ora non voglia divertirmi. Non smetterò mai di godermela» [Steph Curry]. Oppure: Warriors al controllo passaporti di ritorno dalla trasferta a Toronto: un’occhiata rapida e via tutti, uno dopo l’altro. Tranne Steph. L’agente non riesce a trattenersi: «Grazie per aver reso la pallacanestro di nuovo così divertente». Ancora: Jerry West, l’ex leggenda dei Lakers oggi consulente a livello dirigenziale a Golden State, mente occulta tutt’altro che estranea a questo successo: «Qui vanno tutti d’accordo, amano stare assieme, in compagnia: mai visto niente di simile». Chiude Steve Kerr, chiamato a vergare un ultimo messaggio sulla lavagna dello spogliatoio prima di gara-1 delle scorse finali Nba: «Let it fly… have fun».

San Antonio Spurs v Golden State Warriors

Rivoluzione

Vinceranno tutto? Non si sa. Batteranno ogni record? Non è detto. Cambia poco, se vogliamo. Perché Steph Curry, in campo e fuori, ha già rivoluzionato il gioco. Facendolo tornare appunto tale – un gioco. Divertente. Oggi nessuno sembra poterlo fermare, oggi nessuno vede la fine di questo miracolo (ricordiamolo, se serve: dieci anni fa non veniva reclutato da nessun college Usa di prestigio). Dove vuole arrivare? Vuole diventare meglio di Michael Jordan, arrivano a chiedergli nell’intervista già sopra citata? «Beh, l’obiettivo è quello. Voglio essere il migliore. Lo voglio. Ho un rispetto enorme per lui, ma non credo significhi mancargli di rispetto affermare che voglio diventare il miglior giocatore di tutti i tempi». Aveva detto le stesse identiche parole, anni fa, un certo Allen Iverson. Tatuaggi, treccine e reputazione da bad boy, era stato immediatamente bollato come arrogante, presuntuoso, sfrontato. Invece è la stessa, legittima ambizione. I modi da duro di The Answer lo hanno condannato. Vediamo se con il dolce sorriso di Steph Curry le cose andranno diversamente.

 

Nelle immagini in evidenza, Stephen Curry con i suoi Golden State Warriors durante un match di regular season contro i Phoenix Suns, alla Talking Stick Resort Arena di Phoenix, Arizona (Christian Petersen/Getty Images). Nell’immagine in testata, Curry in panchina contro i Lakers (Kevork Djansezian/Getty Images).