I giorni dell’abbandono

Guerra, fascismo e oligarchi: le ambizioni dello Shakhtar Donetsk sono crollate con la guerra del Donbas. Come va la ricostruzione della squadra ucraina?

Forte del 3-1 ottenuto in casa contro i belgi dell’Anderlecht, lo Shakhtar Donetsk può guardare con fiducia alla gara di ritorno e ambire a giocarsi i quarti di finale di Europa League. La speranza, perché no, è quella di giungere a Basilea e bissare la vittoria di Istanbul del 2009. L’ultima edizione della Coppa Uefa rimane, ad oggi, l’unica affermazione internazionale per i “minatori”.

Potrebbe essere un nuovo punto di partenza per gli ucraini, poiché questa sembra essere la giusta dimensione degli uomini attualmente guidati dall’eterno Mircea Lucescu. I quarti di finale di Champions League raggiunti nel 2011 sembrano obiettivamente fuori portata per una rosa profondamente mutata che ha dovuto fare i conti negli ultimi due anni con molte questioni extra calcistiche. I brasiliani scovati nelle serie minori e cresciuti in questa periferia d’Europa si sono tutti trasferiti nei maggiori campionati continentali. Chi ha preso il loro posto non è ancora pronto a guidare la squadra a certi livelli. Le vicende politiche che hanno investito l’Ucraina dal gennaio 2014 hanno pesantemente condizionato il progetto di sviluppo dello Shakhtar e profondamente ridimensionato le sue ambizioni. La guerra del Donbas verrà ricordata come l’inizio della fine della grande utopia sportiva dello Shakhtar? Difficile dirlo, ovviamente. Ma forse lo Shakhtar Donetsk, seduto al tavolo da poker della Storia (rigorosamente con la S maiuscola), ha ancora una mano buona da giocarsi. Se si salverà dal baratro del ritorno alla mediocrità che ne ha caratterizzato la storia fino alla fine del secolo scorso lo dovrà, ancora una volta, alle scelte – lungimiranti e a volte spregiudicate – del suo presidente, dell’uomo che l’ha plasmato dal nulla: Rinat Leonidovič Achmetov.


La finale di Coppa Uefa del 2009 vinta contro il Werder Brema

Figura controversa, come tutte quelle degli oligarchi emersi in seguito all’implosione dell’Unione Sovietica, Rinat Achmetov è – letteralmente – lo Shakhtar. A un occhio disattento la sua biografia appare come la favola a lieto fine di un self made man, ma basta grattare appena la superficie per vedere come questa sia, in realtà, attraversata da molte ombre. Il primo appuntamento cruciale della sua storia personale è un sabato pomeriggio del mese di ottobre del 1995 e Achmetov, al tempo, era il ventinovenne vicepresidente del club e braccio destro in affari dell’allora presidente Achat Bragin. Quest’ultimo – soprannominato Alik il Greco – era uno degli uomini più in vista della mafia tatara che, insieme a quella georgiana e russa, si contendeva in una faida furibonda le spoglie statali di un impero ormai disfatto. Già miracolosamente sopravvissuto a un attentato l’anno prima, niente e nessuno ha potuto salvarlo dalla bomba nascosta nella zona Vip dell’allora fatiscente stadio di Donetsk. La carica d’esplosivo, sufficiente a far saltare in aria un carro armato, ha cancellato in un attimo l’establishment criminale della città. Di Bragin e di altri cinque affiliati all’organizzazione, quel pomeriggio di pioggia e vento già invernale, non rimasero che brandelli.

Il giovane Rinat quel pomeriggio non era allo stadio a seguire la squadra. La stranezza di quella assenza ha sollevato per anni il sospetto che ci fosse anche la sua mano dietro quel capitolo tragico della guerra tra bande che sconvolse il Donbas negli anni Novanta. I sospetti sono stati ufficialmente fugati nel 2006 e, da allora, la sua immagine si è rivestita di un’aura quasi magica. Per la gente del Donbas è paragonabile a una divinità. Il successo e la ricchezza personale (è il trentanovesimo uomo più ricco del pianeta secondo Forbes), la rete delle sue imprese e miniere che dà lavoro a più di 300.000 persone nella regione e ne fa il più grande contribuente dello Stato, la squadra costruita da zero e portata ai vertici europei, l’inaugurazione nel 2009 della Donbas Arena da lui interamente finanziata, la ristrutturazione nel 1999 del Kirša Training Center, centro sportivo per le squadre giovanili all’altezza delle migliori strutture europee che ha dato l’opportunità di crescere e affermarsi a centinaia di ragazzi. Tutto questo ha contribuito in maniera evidente all’immagine che la gente si è fatta di lui. Anche le diplomazie europee lo considerano una sorta di oligarca illuminato.

Shakhtars Facundo Ferreyra celebrates scoring the 0-2 goal with his team-mates during the UEFA Europa League, Round of 32 match football between FC Schalke and Shakhtar Donetsk in Gelsenkirchen, western Germany on February 25, 2016. / AFP / SASCHA SCHUERMANN (Photo credit should read SASCHA SCHUERMANN/AFP/Getty Images) I giocatori dello Shakhtar festeggiano per il successo nei sedicesimi di Europa League contro lo Schalke (Sascha Schuermann/Afp/Getty Images)
I giocatori dello Shakhtar festeggiano per il successo nei sedicesimi di Europa League contro lo Schalke (Sascha Schuermann/Afp/Getty Images)

 

Nuove ombre sulla sua figura, però, si allungano nei giorni più caldi del 2014. Ad aprile, quando scoppia la guerra nell’est del paese, da Kiev lo accusano di finanziare le brigate dei separatisti filorussi attraverso le tasse che le sue industrie sarebbero costrette a pagare all’autoproclamata Repubblica popolare di Donetsk in cambio di protezione. La vicinanza di Achmetov all’ex presidente Viktor Yanukovich – il suo appoggio risultò decisivo nella vittoria alle presidenziale del 2010 e ciò gli consentì di arricchirsi ulteriormente – alimenta i sospetti più ingombranti. In quei giorni il governo si aspetta un aiuto dalla personalità più influente di questa regione, ovvero la possibilità concreta di agire sugli eventi. L’esercito ucraino, invece, ferma a un posto di blocco l’auto di Nikolaj Levčenko, amico molto stretto di Achmetov, sulla strada per Donetsk e piena di banconote. A quali tasche sono destinate? Come detto, a Kiev credono di conoscere la risposta.

Le voci sul suo conto si fanno più insistenti e il rischio di incorrere in sanzioni – anche a livello internazionale per il suo presunto appoggio ai ribelli – fa sì che il 19 maggio 2014 Achmetov appaia in tv rivolgendo un appello ai suoi operai affinché ogni giorno si organizzi la Marcia della Pace. Il messaggio è eloquente: pur auspicando maggiore autonomia per le regioni orientali, «il futuro del Donbas è solo in un’Ucraina unita. Cosa ha fatto la Repubblica popolare di Donetsk per la regione? Quali posti di lavoro ha creato? Si possono difendere i diritti dei residenti della regione di Donetsk girando per i paesi con le pistole nelle mani? È una lotta per la felicità della nostra regione quella fatta saccheggiando le città e facendo ostaggi tra i cittadini? No, non lo è. È una lotta contro i cittadini della nostra regione. È una lotta contro il Donbas». Il presidente dello Shakhtar parla esplicitamente di «genocidio del Donbas» e di disoccupazione e povertà come nemiche della gente comune. Gli eventi, infatti, stanno rapidamente precipitando e l’Ucraina rischia ripercussioni economiche devastanti. Le società di Achmetov (riunite nella holding finanziaria Systems Capital Management) non sono esenti da consistenti perdite e il portavoce dei ribelli ne minaccia la nazionalizzazione. Inoltre, lo Shakhtar rischia di pagare un prezzo altissimo al conflitto a causa della paura e dell’incertezza nel futuro che smette di attrarre quei giovani talenti brasiliani che hanno accompagnato la squadra fino all’affermazione nell’élite calcistica europea. Achmetov si sta muovendo, quindi, solo per un tornaconto personale dettato dall’urgenza di tutelare i propri interessi?  Molti, in effetti, la pensano così. In Ucraina, ma anche in Europa. Tra questi, Stefano Grazioli, che traccia per Linkiesta una mappa del potere in Ucraina, sostenendo che «gli oligarchi ucraini sono una razza potente, mettono lo zampino dappertutto. E continueranno a farlo. Nessuno vuole farsi fagocitare dalla Russia, ma nemmeno rivoluzionare un sistema nel nome di un’Europa che restringerebbe il loro spazio di manovra».

Empty pallets are seen outside the Donbass Stadium, home of the Shaktar Donetsk football club on April 14, 2015 in Donetsk, in the self-proclaimed Donetsk People's Republic (DNR). The football club which was knocked out of the Champions League in the round of 16 is distributing food parcels from the now idle stadium. The club's owner Ukrainian oligarch Renat Akhmetov through his foundation have 2,000 volunteers delivering some 20,000 food parcels a day for people in need from 29 distribution centers across the Donetsk region. AFP PHOTO / ODD ANDERSEN (Photo credit should read ODD ANDERSEN/AFP/Getty Images)
Come si presentava la Donbas Arena nell’aprile 2015: all’esterno dell’impianto si ammassavano provviste di cibo da distribuire agli abitanti della regione (Odd Andersen/Afp/Getty Images)

E anche per lo Shakhtar Donetsk, quella del 2014 non può essere un’estate come le altre. Il 24 agosto i colpi di artiglieria che danneggiano una tribuna della Donbas Arena hanno tutto il sapore di una rappresaglia nei confronti di colui che i filorussi considerano il traditore della causa separatista. Lo stadio è un simbolo fin troppo eloquente dell’ascesa dello Shakhtar e dello stesso Achmetov, tant’è che Lucescu non esita a ricordare spesso che quando arrivò a Donetsk – nell’estate del 2004 – si giocava davanti a 5.000 spettatori, mentre dall’inaugurazione del nuovo impianto le presenze sono state costantemente intorno ai 45.000, nonostante molte partite del campionato ucraino non siano esattamente entusiasmanti. «Abbiamo costruito questo club da zero», ricorda, e la Donbas Arena è il luogo in cui lo Shakhtar è diventato grande. Una specie di santuario. Meno di una settimana più tardi ad essere colpito è il centro sportivo di Kirša, il quale viene pesantemente danneggiato soprattutto dall’incendio che ne scaturisce. La squadra, in ogni caso, aveva già lasciato Donetsk il mese precedente. A far propendere la dirigenza per questa soluzione contribuì un’amichevole pre campionato contro il Lione. Al momento di lasciare la Francia e prendere il volo per l’Ucraina, i brasiliani Fred, Ismaily, Douglas Costa, Alex Teixeira, Dentinho e l’argentino Facundo Ferreyra fanno sapere che non hanno nessuna intenzione di seguire i compagni. Temono per la loro incolumità. I brasiliani verranno reintegrati di lì a poco e Ferreyra mandato in prestito al Newcastle, ma Achmetov, per tutelare la squadra e il suo patrimonio, decide di trasferire tutti a Kiev e di giocare a Leopoli, ex città dell’impero asburgico, incastonata nei Carpazi, distante una sessantina di chilometri dal confine con la Polonia e quasi mille da Donetsk.

Shakhtar Donetsk's Romanian head coach Mircea Lucescu attends a training session at the Swedbank Stadion, on October 20, 2015, on the eve of the UEFA Champions League Group A football match between Malmo FF and FC Shakhtar Donetsk. AFP PHOTO/JONATHAN NACKSTRAND (Photo credit should read JONATHAN NACKSTRAND/AFP/Getty Images)
Mircea Lucescu, allenatore dello Shakhtar dal 2004 (Jonathan Nackstrand/Afp/Getty Images)

 

La prima partita disputata nella nuova casa è la Supercoppa ucraina, vinta 2-0 contro i rivali della Dynamo Kiev nonostante le assenze. Il risultato, però, è l’unica notizia positiva. A preoccupare tutti è il futuro incerto che si addensa all’orizzonte. Sono molti gli interrogativi che la società si pone in quei giorni. Come verrà accolta la squadra simbolo del Donbas in questo lembo di terra considerato la culla del nazionalismo ucraino? Il Karpaty Lviv ha lasciato il suo stadio per far posto a quelli di Donetsk. Come vivranno questa situazione le tifoserie coinvolte, i temuti hooligan ucraini dell’est e dell’ovest? Migliaia di sostenitori dello Shakhtar che andranno a seguire la propria squadra a Lviv saranno un ulteriore problema di ordine pubblico in un Paese in cui il disordine ha preso da tempo il sopravvento? Come si vede nella scelta dello Shakhtar c’è qualcosa che va oltre lo sport e che cammina su un sottile equilibrio di forze che agitano il presente e il futuro dell’intero Paese. A “tranquillizzare” molti responsabili dell’ordine pubblico ci pensa, contrariamente ai timori diffusi, la frangia più estrema dei tifosi dello Shakhtar che, all’indomani della vittoria in Supercoppa, pubblica un tweet in cui dichiara la volontà di arruolarsi nel battaglione Azov, di aperte simpatie fasciste, a fianco dei nemici storici della Dynamo Kiev che rappresentano – secondo la rivista di geopolitica Limes – «la spina dorsale di Pravyi Sektor», decisiva negli scontri di piazza a Kiev che hanno portato alla cacciata di Yanukovich. «Goodnight Antifascism», recitava un loro striscione esposto allo stadio e accompagnato da una inequivocabile croce celtica. La loro scelta verrà appoggiata da decine di tifoserie organizzate in tutto il Paese.

Darijo Srna, più di 480 partite con lo Shaktar (Christian Hofer/Getty Images)
Darijo Srna, più di 480 partite con lo Shakhtar (Christian Hofer/Getty Images)

 

Vincere il campionato in queste condizioni di precarietà e incertezza è impossibile: infatti lo Shakhtar arriva secondo dopo un quinquennio di dominio ininterrotto. Molti giocatori importanti premono per lasciare la squadra la scorsa estate e si respira un’aria di inevitabile smobilitazione. Douglas Costa va al Bayern Monaco, Luiz Adriano – il cannoniere più prolifico della storia del club – si trasferisce al Milan e Fernando alla Sampdoria. Questa volta non arriveranno giovanissimi brasiliani pescati con maestria, conoscenza e lungimiranza nei campionati statali. Si decide di puntare su giovani ucraini, molti dei quali promossi dal florido settore giovanile anche alla luce dello straordinario risultato ottenuto nella Youth Champions League 2015, ovvero la finale persa con il Chelsea. E alla luce della partenza a gennaio dell’ultimo grande talento della squadra, Alex Teixeira, sono da leggere le parole che Mircea Lucescu ha rilasciato quest’estate in un’intervista a bergamopost.it prima di un’amichevole con l’Atalanta: «Ora dobbiamo ricominciare dai giovani. I brasiliani che sono rimasti sono professionisti, non vogliono andare via. Però, quello che prima facevo coi loro connazionali oggi cerco di farlo con gli ucraini: mi rendo conto che i sudamericani non potranno giocare all’infinito in queste condizioni. Le nostre partite sembrano gare di allenamento, prima giocavamo davanti a 40.000 persone, oggi per alcune partite non vendiamo più di 400 biglietti». Quest’anno i risultati sportivi sono stati deludenti in Champions League, anche se il gruppo con Real Madrid e Paris Saint-Germain forse sarebbe stato proibitivo anche per versioni più talentuose di questa squadra. Per i minatori di Donetsk rimane il palcoscenico dell’Europa League. Se sarà solo in attesa di un nuovo ciclo o un ridimensionamento definitivo lo dirà il futuro. Quello che appare certo è che non dipenderà solamente dallo sport, e Achmetov sarà costretto a giocare su più tavoli se vorrà provare a regalare una nuova promessa di futuro alla sua creatura più amata.

 

Nell’immagine in evidenza, una sessione di allenamento dello Shakhtar Donetsk allo Swedbank Stadion a Malmo (Jonathan Nackstrand/Afp/Getty Images)