Ormai mi sento abbastanza grande per poter sciorinare i classici adagi calcistici che ti fanno assumere quell’aria, anche un po’ spocchiosa, da vecchio osservatore di pallone, che non si stupisce più di nulla, anzi, rievoca, esalta e rimpiange momenti storici passati. Questo mi succede soprattutto quando parlo di portieri: “…quest’invasione di stranieri, ma i vivai italiani?” “…certo che i portieri di oggi…”oppure il più classico “…eh ma negli anni ’90 c’era tutta un’altra qualità”. Con queste sensazioni nasce l’idea di intervistare una colonna dei portieri italiani. Fortuna vuole che “da grande” abbia deciso di intraprendere la carriera giornalistica e sia diventato negli anni una delle seconde voci più importanti del panorama televisivo italiano. Chi meglio di lui, che ha vissuto da attore protagonista il calcio della mia adolescenza e ora lo analizza davanti ad un microfono, può raccontarmi e spiegarmi tutto quello che c’è da sapere sul ruolo del portiere? Nessuno, mi sono detto. E con l’illusoria sicurezza di saperne di calcio, mi sono avventurato in questa lunga chiacchierata con Luca Marchegiani.
Impossibile non partire da Buffon e dal record di imbattibilità appena conquistato. 973’ senza subire gol. È il portiere più forte della storia?
«È sicuramente il portiere più forte dell’epoca del calcio che io ricordi. È difficile per me fare paragoni con Zoff, che è l’altro monumento del ruolo, perché obiettivamente me lo ricordo poco, di lui ho vissuto solamente la parte finale della carriera. Chiaramente questo record non è dipendente solamente dal portiere, conta molto la forza difensiva della squadra. Come per il Milan di Sacchi, in questo momento stiamo assistendo a qualcosa di straordinario. Credo sia giusto che questa Juventus rimanga nella storia con dei record importanti e allo stesso modo che un giocatore come Buffon, per quello che rappresenta in questo momento e per quello che ha rappresentato nella storia del ruolo e del calcio italiano, detenga il record di imbattibilità».
Gianluigi Buffon esulta durante Juventus-Torino del 31 ottobre 2015. Valerio Pennicino/Getty Images
Secondo lei è anche il momento storico che stiamo vivendo in Italia che si presta all’abbattimento di molti record?
«Ci sono stati anni in cui determinati record erano difficili da superare. È abbastanza singolare il fatto che il record di vittorie consecutive negli ultimi anni sia stato migliorato già tre volte. Non è che questa Juve o l’Inter di Mancini sono in assoluto squadre più forti rispetto, ad esempio, alla mia Lazio o al Parma di fine anni ‘90. Oggi si gioca sicuramente un calcio diverso, ma ultimamente il campionato italiano è diventato meno equilibrato e non tutte le partite sono difficili come lo erano un tempo. Prima ad esempio era molto più complicato vincere fuori casa, adesso è cambiata un po’ la mentalità. Per una squadra forte è più semplice avere un filotto di vittorie. Assomigliamo sempre più ad alcuni campionati europei dove la differenza tra le prime della classe e le medio-piccole è molto ampia».
Epoche diverse con due tipi di calcio diverso. Buffon può essere definito l’anello di raccordo tra le due?
«Non molto, perché il calcio di vent’anni fa richiedeva un altro modo di interpretare il ruolo. C’erano regole diverse che poi ad inizio anni ’90 sono state modificate, cambiando radicalmente alcune situazioni di gioco. Quando Buffon ha cominciato era appena stata introdotta la regola del retropassaggio. Quello è stato un momento importante per il ruolo. Ha costretto il portiere a cambiare completamente modo di giocare, acquisendo competenze che prima non erano richieste. Perciò forse la sua fortuna è stata quella di essere uno dei primi a cominciare con il nuovo regolamento. Per noi della “vecchia scuola” invece è stato più difficile adattarci, avendo fatto tutto il percorso di formazione con dei principi poi modificati».
Le migliori parate di Gigi Buffon
Però il Buffon di oggi è un portiere totalmente diverso dal ragazzo di Parma.
«Credo che oggi Buffon sia un portiere completo. All’inizio della sua carriera mi colpiva la sua esuberanza, quel filo di pazzia che adesso ha fatto quasi dimenticare. Il Buffon di oggi trasmette sicurezza, affidabilità e solidità in tutti i fondamentali: è sicuramente il portiere più completo che io ricordi. Certo non è straordinario nel gioco con i piedi ma lo fa con grande sicurezza e forse non si distingue nemmeno nelle uscite alte. Non domina ogni pallone che arriva in area. Però quando c’è da uscire, esce e tecnicamente è perfetto».
Una parata di Manuel Neuer in allenamento. Karim Jafaar/AFP/Getty Images
Ultimamente sembra che i portieri vengano scelti più per le loro capacità con i piedi piuttosto che per la bravura tra i pali.
«È vero, ed è una cosa che a me dispiace da amante della figura del portiere per come sono cresciuto io. Secondo la mia visione il portiere deve essere tecnicamente perfetto nelle parate. Però allo stesso tempo capisco questa scelta, perché avere un portiere in grado di sbrigare con sicurezza quelle situazioni che noi chiamavamo “l’ordinaria amministrazione” è diventata una discriminante molto importante nella scelta di un giocatore rispetto ad un altro. La gestione di queste situazioni, da sempre, rappresenta il 99% della partita di un portiere, con la differenza che, prima poteva essere risolta con semplicità prendendo il pallone con le mani, adesso necessariamente richiede la capacità di utilizzare i piedi. Per questo motivo un allenatore si accontenta di un portiere che faccia meglio di un altro questo tipo di lavoro, che è tanto in quantità, preferendolo magari ad un altro capace con il talento di sbrogliare la “situazione scabrosa”, che capita molto più raramente nel corso dei 90’».
Bravo con i piedi ma anche straniero. Questa moda esterofila ormai domina la scena italiana da diversi anni. Da Dida a Szczesny, passando per Julio Cesar, Tatarusanu, Handanovic e Reina. Nei top club italiani il portiere nostrano sembra avere la strada sbarrata.
«Io credo che il livello dei portieri italiani sia stato un po’ frenato dalla figura di Buffon, che è stato un grande esempio per tutti, ma anche un freno per i giovani. In qualche maniera non ha permesso ad altri ragazzi di crescere con le esperienze che avrebbero potuto fare se avessero avuto la possibilità di ambire alla Nazionale. Ma la colpa principale è dei club italiani. Se da una parte cercano portieri di esperienza, di personalità e con un certo “vissuto” alle spalle, dall’altra non danno la possibilità ai nostri giovani di poter accumulare queste qualità, che invece vengono trovate nei portieri stranieri. All’estero infatti c’è più coraggio nel lanciare un giovane, gli viene data più facilmente la possibilità di giocare e di crescere, caratterialmente e tecnicamente. Per questo vengono preferiti ai nostri ragazzi, perché in queste qualità sono avanti rispetto ad un nostro giovane. Quindi ci dovremmo decidere a dar fiducia ai giovani facendoli giocare, anche nei campionati inferiori. Senza paura».
Stranieri che a volte risultano dei flop.
«Pensiamo alla scelta dello scorso anno del Napoli di affidare la porta a Rafael. Il brasiliano è oggettivamente un portiere modesto, meno bravo di alcuni italiani, però gli è stata affidata la porta di una delle grandi squadre italiane. Questo perché? Perché aveva vinto la Coppa Libertadores con il Santos ed era arrivato in Italia a 23 anni già con 200 partite di livello sulle spalle. Al contrario Andrea Consigli, secondo me un ottimo portiere che potrebbe tranquillamente giocare nelle prime cinque squadre in Serie A, prima non aveva l’esperienza giusta per il grande passo, adesso invece non viene più preso in considerazione dalle “grandi” perché non è più un portiere in rampa di lancio. Abbiamo sprecato una generazione di buoni portieri, come Mirante, Marchetti e lo stesso Consigli, ai quali non è stata data la possibilità di emergere ad altissimi livelli e per questo motivo hanno fatto una carriera minore di quello che avrebbero potuto».
Come giudica quindi la scelta della Roma di affidare i pali a Szczesny?
«Szczesny è un buon portiere e non sta facendo male alla Roma. Secondo me le vere domande sono: Consigli, ad esempio, avrebbe fatto peggio? Se ci fosse stato Consigli la Roma avrebbe avuto meno punti in classifica? Questo si dovrebbe chiedere chi ha interesse a veder crescere i nostri portieri. Secondo me la Roma non avrebbe meno punti, anzi. È chiaro che l’abitudine ai grandi palcoscenici Consigli non ce l’ha, ma perché non gli è mai stata data, non perché non abbia le qualità».
Dal 1987, anno di istituzione del premio di miglior portiere del mondo, la vittoria è andata 14 volte su 28 ad un italiano o ad un tedesco. Possono essere definite come le due migliori scuole?
«Sì, credo di sì, perché sono anche i due modi di interpretare il ruolo che mi vengono in mente se dovessi fare una distinzione. Però non le definirei scuole, perché non esiste una vera e propria codifica del gesto tecnico, nel calcio italiano o in quello tedesco, universalmente riconosciuta. Diciamo che si può parlare di stile. Tutto è lasciato alla sensibilità e all’idea del singolo preparatore e non esiste una scuola consolidata come per gli allenatori. Ci sono due tre filoni ideologici ai quali tutti si stanno adattando. Anche perché il ruolo del preparatore dei portieri è nato con la mia epoca. Io ho iniziato a giocare che questa figura non esisteva, poi ex portieri hanno cominciato a farlo e solo adesso è riconosciuto da tutti i settori tecnici».
Allora possiamo dire che in Italia abbiano un occhio di riguardo per il ruolo del portiere?
«Diciamo che in Italia siamo abituati a vedere eseguire i gesti tecnici in un certo modo, che noi riteniamo usuali, ma che non lo sono in altri paesi. Da noi c’è un modo di parare molto tecnico e pulito, dove si ricerca anche la bellezza estetica nell’esecuzione, mentre in Germania si punta molto sulla fisicità della parata, che ai nostri occhi risulta essere magari meno bella, ma sicuramente efficace. Perché in alcune metodologie di insegnamento, come l’uscita bassa mutuata dalla pallamano, probabilmente non c’è bellezza ma l’efficacia è indubbia. Diciamo che se fossi un preparatore cercherei di applicare alcune cose che loro insegnano, perché effettivamente funzionano».
Tornando in Italia le faccio tre nomi per il futuro numero 1 italiano: Donnarumma, Sportiello e Perin.
«Donnarumma è il portiere del momento. Vedere a 17 anni un ragazzo giocare a questo livello, con questa personalità, questo carattere e questa sicurezza, in un campionato difficile come quello che sta facendo il Milan, è stupefacente. C’è tanta pressione attorno ai rossoneri, ma ho veramente la sensazione che siamo di fronte a qualcosa di superiore. La stessa che tutti abbiamo avuto quando Buffon si è presentato a Parma. Il paragone ci sta. È chiaro che è giovane e deve crescere».
Sarà il futuro portiere del Milan per i prossimi 20 anni?
«Dipende da lui. Perché io mi ricordo che Buffon, dopo aver esordito e aver stupito tutti, l’anno successivo lo cominciò in panchina. Ci può stare che l’anno prossimo non parta titolare inamovibile, nel caso in cui il Milan allestisca un parco portieri diverso da quest’anno, perché tecnicamente deve migliorare da tutti i punti vista. Però sia fisicamente che caratterialmente potrebbe farlo. A 17 anni fa delle cose straordinarie».
Highlights dalla scorsa stagione di Perin
Perin?
«Perin mi piace molto. Certo non è un gigante, pur essendo quasi un metro e novanta, ma è molto reattivo. Non vedo nel suo modo di giocare dei limiti fisici, anzi, la reattività è la sua dote principale. È più fisico che tecnico come portiere, perciò è uno che potrà far bene. Certo, gli devono far fare quel salto di qualità di cui parlavamo prima. Ci deve essere una società che giochi partite internazionali, che lotti per i massimi livelli, che lo possa portare a giocare partite importanti, con obiettivi importanti. Perché l’esperienza la fai così, se non soprattutto così».
Sportiello?
«Sportiello è quello che mi piace più di tutti in Italia, però obiettivamente ha fatto troppo poco, deve crescere».
Capitolo personale. Un rapporto tribolato quello con la Nazionale. A distanza di 25 anni cosa pensa della prestazione con la Svizzera nel 1992?
«Allora voglio premettere una cosa. Lo sport ad alto livello è saper cogliere le occasioni. Il più forte è colui il quale nel momento importante tira fuori la prestazione importante. Al di là del valore oggettivo dell’atleta, la differenza sta nel fare la grande partita quando ti guardano tutti. Io all’epoca feci una prestazione orrenda (sorride e si corregge, ndr), o meglio, feci una prestazione con degli errori nella prima partita in cui mi guardavano tutti. Non posso prendermela con nessuno, se non con la sfortuna. Sinceramente non ho rimpianti. Io ero stato scelto come portiere della Nazionale, mettendo da parte un mito come Zenga, che all’epoca era giustamente un intoccabile. La scelta che fece Sacchi di preferirmi a Pagliuca, mio coetaneo ma con molta più esperienza internazionale alle spalle, mi inorgoglì. Alla fine io giocavo al Torino e avevo fatto un solo anno in Coppa Uefa, Pagliuca aveva fatto la finale di Coppa dei Campioni. C’era una grossa disparità di vissuto tra me e lui. Per questo motivo probabilmente ho sentito troppo la pressione di una scelta che era comunque una scommessa e non ho retto dal punti di vista emotivo. Il rammarico di dire, se avessi fatto diversamente magari la mia carriera avrebbe preso una piega diversa, sinceramente non ce l’ho».
Ancora Nazionale, ancora una delusione. USA ’94. Pagliuca viene espulso con la Norvegia. Lei subentra per due partite giocando benissimo, poi ai quarti di finale, terminata la squalifica, Sacchi la accantona riproponendo Pagliuca. Come la prese la scelta di Sacchi?
«Ci rimasi male, è vero, ma lo sapevo che sarebbe finita così. In realtà prima del Mondiale c’era una gerarchia, non assoluta, ma abbastanza chiara. Sacchi mi disse che dovevo solo esser contento di aver giocato due partite così importanti, di aver convinto tutti e di aver riscattato la prestazione di due anni prima con la Svizzera. Tutto vero, ma quando uno si trova la possibilità di giocare un Campionato del Mondo, che noi percepivamo e sapevamo potesse finire bene, l’essere accantonato, dopo aver dimostrato di poterci stare a certi livelli, un po’ fa male. Sacchi tra l’altro, anni dopo, riconobbe pubblicamente che fu un errore rimettere Pagliuca, disse che avrebbe dovuto farmi continuare. Rimpianti? Alla fine no. Davvero».
Parlando di Nazionale è ovvio il riferimento all’attuale situazione dell’Italia. Un movimento qualitativamente più povero rispetto ad altri anni. Da cosa nasce questo decadimento?
«È un discorso che riguarda tutti. Diventa difficile emergere per un giovane italiano se certi ruoli sono tutti occupati da giocatori stranieri, soprattutto nelle squadre di vertice. Ormai le squadre Primavera sono piene di stranieri, ed è ovvio che certe scelte a livello giovanile, esulano da qualsiasi discorso tecnico. Ci sono altri tipi di interessi, prettamente economici, ai quali viene data maggiore importanza. Ancora mi ricordo quando Cragnotti mi disse: mi costa meno pagare un giocatore di 20 anni che so avere delle buone possibilità di diventare calciatore, piuttosto che lavorare su un intero settore giovanile che ha dei costi molto alti, senza avere la certezza che poi mi possa portare dei risultati. È un punto di vista cinicamente imprenditoriale, che però non mi trova d’accordo. Io dico che una società che lavora bene, impiega strutture e competenze giuste, in un bacino d’utenza come quello italiano, pieno di ragazzi bravi, potrebbe portare davvero a costruire qualcosa di bello. Di conseguenza quindi, tornando alla Nazionale, ormai fare il selezionatore dell’Italia è diventato un compito arduo. Non si ha più la scelta che c’era una volta».
A proposito di CT, Conte a luglio lascerà la Nazionale. Chi crede possa essere il nome giusto per la panchina dell’Italia?
«Penso che non c’è una figura migliore di Capello in questo momento. Io non credo che la Nazionale vada data ad un allenatore troppo ambizioso, come Conte ad esempio. Questo tipo di allenatori hanno bisogno dello stress quotidiano, ma in Nazionale questo non si può fare. Allo stesso modo pretendere di allenare i calciatori azzurri come in un club, è una strada non percorribile. Tavecchio, che ora ha il tempo per scegliere il nuovo CT, dovrebbe uscire da queste dinamiche. Per questo dico Capello. Un grande conoscitore di calcio, con un’esperienza ed una personalità importante e con una prerogativa che ha nel DNA: selezionare al meglio i giocatori per il suo calcio. Anche Donadoni mi piace molto, ma se fossi in lui non so se tornerei ad allenare la Nazionale. Mi sembra in un momento della carriera estremamente in ascesa: al Bologna sta facendo bene, può ambire ad un grande club italiano. Ed è proprio il passo che gli manca».
Chiusura d’obbligo sul futuro n.1 dell’Italia.
«Sarà Perin. Perché di quelli che sono sulla piazza è il migliore».