Videla, il golpe, l’Albiceleste

Un estratto dal libro "Maledetti sudamericani", di Giorgio Burreddu e Alessandra Giardini, edito da Ultra: quaranta anni fa Videla prendeva il potere in Argentina e sul calcio argentino.

Diego Maradona Argentina

Qualche sparo si era sentito nella notte, ma lontano, in direzione dell’aeroporto. Poi più niente, soltanto un silenzio allarmato, malato. Era il 24 marzo del ’76, e in quelle ore dell’alba le strade di Buenos Aires erano vuote e male illuminate. La televisione di Stato aveva interrotto i programmi alle 3.21 della notte, e da quel momento aveva trasmesso soltanto uno scarno comunicato firmato da Jorge Rafael Videla, il generale. Poche parole, sempre quelle, il minimo indispensabile per raccomandare a tutti la stretta osservanza delle disposizioni e delle direttive, evitando iniziative individuali o di gruppo. Poche parole, sempre le stesse, una filastrocca sorda che ricordava agli argentini che da lì in avanti comandava la giunta militare, perché in quel clima di crisi morale e di dissoluzione sociale era inammissibile continuare nell’avventura di un governo che avrebbe portato il Paese al disastro, dissero proprio così. Il golpe non sorprese quasi nessuno, era nell’aria da mesi, addirittura da anni. Nelle immagini in bianco e nero di quel principio di giorno, i soldati tengono a terra uno studente puntandogli addosso le mitragliette, perquisiscono contro il muro una ragazza in minigonna, fumano affacciati ai loro carrarmati parcheggiati ai lati delle piazze.

Alle 13.45 la musica classica sfumò, ma per la prima volta sugli schermi non apparvero generali in alta uniforme, e non c’era nessun comunicato da ascoltare. Dalla lontana Chorzow, in Polonia, arrivò una voce che tutti gli argentini conoscevano, quella di José Maria Muñoz, meglio conosciuto come el gordo, il telecronista di fútbol. Era il segnale che almeno uno dei programmi aveva attraversato il muro della censura: signore e signori, dallo stadio Slaski di Chorzow, ecco a voi la telecronaca diretta della partita amichevole fra la Nazionale della Polonia e la Selección Argentina. Rilassatevi, divertitevi, sfogate la vostra passione nel calcio, ché a mantenere l’ordine ci pensiamo noi. Tempo qualche mese, un anno, due al massimo, faremo vedere a tutti la vera faccia dell’Argentina. Basta crisi, basta violenze, basta disordini, quando il mondo verrà qui a giocare a pallone scoprirà un Paese nel futuro: sarà giovane, moderno, sicuro, addirittura ricco. Intanto ascoltate la voce del señor Muñoz, e ammirate come gioca la nostra Selección, e come vince.

La Nazionale argentina prima di Argentina-Francia ai Mondiali 1978. Staff/AFP/Getty Images
La Nazionale argentina prima di Argentina-Francia ai Mondiali 1978 (Staff/Afp/Getty Images)

A tredicimila chilometri di distanza, nell’albergo polacco che ospitava i calciatori argentini, l’eco del colpo di stato era arrivata a strappi, poco alla volta. Quattro ore prima della partita, nella hall, Mario Kempes aveva parlato ai suoi compagni di quello che stava succedendo a casa. Piangeva. Non era il solo. Avevano discusso, avevano preso in considerazione l’idea di non scendere in campo, ma ormai era tutto organizzato, e far saltare il programma sembrava impensabile. A un certo punto Luis César Menotti, l’allenatore, li aveva tranquillizzati e li aveva convinti ad andare allo stadio. El tolo Gallego non ne voleva sapere, aveva paura che fosse capitato qualcosa di brutto alla sua famiglia, ma alla fine anche lui si era dovuto arrendere. Nessuno era riuscito a telefonare a casa, si erano dovuti accontentare di frammenti di verità, quasi tutti riportati proprio dal telecronista di stato, el gordo Muñoz, non esattamente un pioniere della libertà di stampa. Il momento più difficile fu il tragitto dallo spogliatoio al campo, quando devi concentrarti e invece il pensiero va a posarsi precisamente dove non dovrebbe. Héctor Scotta, l’autore del primo gol, raccontò che tutti avevano paura, ma era arrivato un ordine di Videla, diceva che bisognava giocare, e si giocò. René Houseman, che segnò il secondo gol, non riuscì mai a togliersi di dosso la tristezza di quella giornata, neanche molti anni più tardi, quando si ridusse ad abitare sotto un ponte perché l’alcol e la miseria lo tenevano in ostaggio. La fortissima Polonia di Deyna e di Lato perse in casa 2-1. Uno dei protagonisti di quella vittoria senza gioia per la Selección fu Jorge Omar Carrascosa, che non per niente era il capitano. Appena l’arbitro fischiò la fine, i giocatori argentini corsero sotto la tribuna stampa a chiedere ai giornalisti le ultime novità, a farsi prestare un telefono per chiamare casa. L’unica preoccupazione era tornare in patria al più presto, e vedere con i propri occhi che cosa fosse cambiato. Il giorno dopo, sulla prima pagina del «Clarín», c’erano soltanto due titoli, enormi. Il primo sul colpo di Stato. L’altro, a fondo pagina, sulla partita. Nella prima riunione della giunta militare al potere, per quanto possa sembrare assurdo, si parlò di calcio: l’ammiraglio Emilio Massera spiegò a Videla che bisognava a tutti i costi confermare l’organizzazione dei Mondiali di due anni dopo. Ci vorranno soltanto settanta milioni di dollari, gli disse. Non c’è problema, rispose l’altro. L’operazione di distrazione collettiva era cominciata, e insieme il periodo più atroce della storia argentina.

Purtroppo per Menotti e i suoi giocatori il programma prevedeva altre tre amichevoli, e non ci fu verso di accorciare l’agonia: prima di imbarcarsi per Buenos Aires, la Selección dovette giocare (e perdere) 2-0 a Budapest con gli ungheresi e 2-1 contro l’Hertha a Berlino, poi chiuse con un pareggio senza gol in Spagna, a Siviglia. Ma era già il 10 aprile, erano ormai passate due settimane dal golpe.

Meno di un anno più tardi, la sera di mercoledì 2 febbraio, si giocava un’altra amichevole. Il campo era quello di Tres Arroyos, una bella città coloniale del sud del Paese. Di fronte i padroni di casa dell’Huracán e l’Estación Quequén, la squadra di una località di mare che aveva appena vinto il campionato provinciale. Era un caldo boia, ma la partita fu lo stesso divertente, e finì con tre gol degli ospiti contro i due dell’Huracán. In campo, fra gli sconfitti, fece la solita buona impressione l’ala destra, maglia numero 7, un ragazzo che l’anno prima era stato segnalato dagli osservatori come uno dei più notevoli di tutto il campionato. Si chiamava Carlos Alberto Rivada, e quella fu l’ultima partita della sua vita.

Carlos veniva da Bahía Blanca, la capitale del Sud, con il suo porto da cui prendono il largo le navi per la Terra del Fuoco. Nella città del basket aveva studiato, si era laureato in ingegneria elettronica e soprattutto aveva incontrato María Beatriz Loperena, una bella insegnante di lettere che un giorno sarebbe diventata la madre dei suoi figli. Carlos e Beatriz si erano frequentati, innamorati, e si erano costruiti un sogno di futuro. Negli anni dell’università avevano avuto una breve esperienza nel movimento politico studentesco. Ma Carlos pensava più che altro allo sport: non volendo scegliere, diventò professionista nel basket e contemporaneamente nel calcio. Chi lo ha visto giocare ricorda che era molto veloce, una specie di Lavezzi. Per mantenere la famiglia, fece diversi mestieri: installava condizionatori, aveva messo in piedi un’attività di impianti elettrici assieme ad Alberto Ferrari, che aveva sposato sua sorella Silvia. E d’estate lavorava in piscina, per arrotondare. Il dolore non era mancato, nella vita dei giovani Rivada. Erano sposati da poco più di un anno quando venne alla luce il loro primo figlio, Ignacio, che visse soltanto un giorno. Poi arrivò Diego a riportare il sorriso, e la famiglia si trasferì a Tres Arroyos, vicino ai nonni. Presero un appartamento in pieno centro, in calle 9 luglio 30, proprio sopra il negozio di articoli sportivi di don Héctor, il papà di Carlos. Abitavano lì da poco più di un anno quando nacque Josephina, che era bellissima come la sua mamma.

Mario Olguin e Alberto Tarantini prima di un allenamento, 1978. Duncan Raban/Allsport/Getty Images
Mario Olguin e Alberto Tarantini prima di un allenamento, 1978 (Duncan Raban/Allsport/Getty Images)

Dopo la partita faceva molto caldo, e Carlos uscì con i suoi compagni di squadra. La società aveva organizzato un barbecue, e mangiarono tutti lì, rimanendo a chiacchierare e a bere qualcosa di fresco. Gli ultimi due ad andarsene furono proprio Rivada e il suo compagno di attacco, Ramón Palacio, che tutti chiamavano el gallego perché era nato in Spagna. Quando era piccolo, i suoi genitori erano scappati dalla Cantabria, in Argentina, per sfuggire alla guerra civile. Carlos e Ramón erano molto amici, da quando avevano studiato assieme all’istituto tecnico di Tres Arroyos, e quella sera sembrava proprio che non si volessero alzare da tavola. Rivada era molto contento perché si era appena comprato una macchina nuova, una Fiat familiare. Era tardi quando si salutarono, Carlos raggiunse Beatriz e i bambini nell’appartamento di calle 9 luglio. Li svegliarono le voci e i colpi: si trovarono in casa degli uomini incappucciati, che li portarono via caricandoli proprio sulla loro macchina nuova.

Era ancora buio quando María Rosalía Fernández, che stava per attaccare il suo turno di infermiera, si accorse di una cesta posata sul marciapiede davanti all’ingresso dell’ospedale Pirovano. Dentro c’erano due bambini, la più piccola doveva avere soltanto pochi mesi. Non piangevano, non facevano rumore. L’infermiera Fernández guardò in tutte le direzioni, sperando di vedere qualcuno. Ma la notte era tranquilla, fin troppo. Portò dentro la cesta, un dottore visitò i bambini e concluse che stavano bene. Cauti, stando attenti a non spaventarlo, cominciarono a fare domande al più grande, che a occhio e croce doveva avere tre anni. Finalmente gli uscì una parola debole, sussurrata, qualcosa come «Rivada». Era un nome conosciuto in città, qualcuno si ricordò di don Héctor Rivada, il commerciante di articoli sportivi. Il figlio di don Héctor, il calciatore, aveva proprio due bambini piccoli, magari potevano essere loro. Non era semplice andare da qualcuno nel cuore della notte con una notizia del genere, però bisognava muoversi. Si decise di mandare l’autista dell’ambulanza sotto casa dei Rivada. Don Héctor fu svegliato dalla luce intermittente, si vestì in fretta e seguì l’uomo all’ospedale: quando vide il nonno, Diego fece il primo sorriso di quella notte.

L’incubo di don Héctor e di sua moglie María Rosa era appena cominciato. Andarono a suonare al campanello di Carlos, ma non ebbero risposta. Salirono dal negozio, che comunicava internamente con l’appartamento dei ragazzi, e quello che videro li raggelò: in casa era tutto per aria, ma non mancava niente, gli oggetti di valore c’erano ancora. Eppure né Carlos né María Beatriz erano lì. Don Héctor il giorno dopo andò alla polizia a denunciare la scomparsa. Cinque giorni più tardi, la camera di commercio sollecitò notizie della coppia Rivada al comandante dell’esercito Aizpitarte, a Bahía Blanca. Una settimana dopo anche i dirigenti dell’Huracán inviarono una petizione. Il 1° aprile don Héctor scrisse addirittura al generale Videla. Lo ricevevano, gli promettevano che si sarebbero occupati del suo caso, e lo congedavano. Don Héctor si rivolse anche alla Chiesa cattolica, il cardinale Primatesta chiuse la sua risposta formale con una frase poco rassicurante, «che il Signore vi dia forza». Gli altri quattro fratelli Rivada ricordano che il padre mosse il cielo e la terra, come dicono in Argentina, ma nessuno parlava, tutti avevano paura. Carlos aveva ventisette anni quando gli rubarono il futuro, María Beatriz venticinque. Un anno e mezzo più tardi, don Héctor si decise a scrivere anche all’ammiraglio Massera, perché dalle sue indagini era venuto fuori che poteva essere coinvolta la Marina. Parlò con uno dei più crudeli assassini della storia come avrebbe fatto con un tranquillo padre di famiglia, uno come lui: gli scrisse che non avere più notizie era la cosa peggiore, che avrebbe preferito sapere come erano morti suo figlio e sua nuora, dov’erano i loro corpi. Accetto qualunque cosa, scongiurò, purché sia la verità. Ma non gliela dissero. Nessuno vide più Carlos e María Beatriz, nessuno ne seppe mai niente. I sequestratori ebbero almeno un gesto di umanità. Salvati in quella piccola arca lasciata sulla soglia dell’ospedale, Diego e Josephina sono cresciuti con i nonni, con le zie e gli zii. A loro è stato risparmiato il destino cattivo di tanti bambini argentini, quello di crescere come figli degli uomini che avevano cancellato la vita dei loro genitori. Diego oggi vive a Madrid, dirige un club sportivo, e ha due bambini: uno l’ha chiamato Ignacio, come il fratello che non ha mai conosciuto, l’altra Victoria, perché alla fine ha vinto la vita, comunque. L’amico di Carlos, Ramón Palacio, ebbe un bambino all’iniziò del 1982, e lo chiamò Rodrigo. Da grande ha fatto anche lui il calciatore, è andato a giocare in Europa. Don Héctor Rivada morì pochi mesi più tardi, mentre in Spagna si giocavano i Mondiali di calcio. Aveva sessantatré anni quando il suo cuore senza consolazione di colpo si fermò.

Tifosi dell'Argentina durante la finale dei Mondiali 1978. Staff/AFP/Getty Images
Tifosi dell’Argentina durante la finale dei Mondiali 1978 (Staff/Afp/Getty Images)

I «giovedì delle madri» cominciarono un sabato. Era il 30 aprile del ’77, era passato poco più di un anno dal golpe, e meno di tre mesi da quando Carlos e Beatrìz Rivada erano spariti al mondo. Si erano date appuntamento in quattordici, davanti a una chiesa, aspettavano notizie dal prete. Volevano sapere dei loro figli, perché niente è peggio del silenzio. Ma niente era tutto quello che ricevevano, ogni volta. Avevano bussato a tutte le porte, ma trovavano sempre chiuso. A un certo punto Azucena ebbe l’idea. Perché non andiamo davanti all’uscio di quel porco di Videla? Vedrete che prima o dopo si deciderà a venire fuori. Fecero così, arrivarono in quattordici fino a Plaza de Mayo, e si piazzarono di fronte alla Casa Rosada, le potevi vedere anche dalla Cattedrale. Rimasero lì fino a buio, senza parlare, con occhi grandi e scuri che dicevano tutto, poi si diedero appuntamento il giovedì dopo, alle tre e mezza del pomeriggio. La seconda volta erano più di quattordici, e arrivarono anche i soldati. Spiegarono che la legge, una delle tante, vietava di stare fermi in più di tre in un luogo pubblico. E allora le madri si mossero, cominciarono a camminare in cerchio, tutto attorno alla piazza, con le loro domande mute scritte negli occhi tondi. Mezzora ogni giovedì, ed erano sempre di più, a mano a mano che i figli sparivano. Diventarono duecento, poi trecento, quattrocento. Per farle smettere, a un certo punto i militari pensarono di chiedere aiuto ai tifosi più violenti delle curve, quelli delle barras bravas. Ma le madri non avevano paura di niente, nessuno avrebbe potuto fare loro più male di così, non conoscevano la sorte dei loro figli, avrebbero potuto andare avanti a camminare in tondo per sempre. Lo hanno fatto per anni, e poi hanno cominciato anche le nonne. Le riconoscevi perché in testa avevano fazzoletti bianchi, li avevano fatti con le fasce, quelle che avevano messo ai loro bambini quando erano venuti al mondo. Alle madri e alle nonne si aggiunsero i padri, i fratelli, le spose, i figli, i nipoti.

La parola desaparecidos non compariva sui giornali. C’era la censura, e più ancora la paura. Negli anni della dittatura più di cento giornalisti furono assassinati, o semplicemente sparirono. Come almeno trentamila argentini, quasi tutti giovani fra i ventuno e i trent’anni. Li sequestravano, li portavano in uno dei trecentosessantotto campi di concentramento distribuiti nel Paese, li tenevano per tutto il tempo incappucciati in celle strettissime che chiamavano tubos, li torturavano, li stupravano, li drogavano e infine li facevano salire sugli aerei militari e quando erano lassù li buttavano ancora vivi nel Rio de la Plata. Dal momento in cui venivano fatti sparire, quegli uomini e quelle donne diventavano soltanto un numero di codice, non potevano più usare il nome che avevano nel mondo dei vivi. A Carlos Alberto Rivada avevano dato il numero 4345, fu l’unica cosa che don Héctor riuscì a sapere con certezza prima di morire.

Alla radio, la voce tonda del gordo Muñoz sparava ad altezza uomo, e quell’uomo era el flaco Menotti, il ct. Era la fine di maggio, mancava un anno preciso al Mondiale in casa, e i generali non erano ancora convinti di arrivarci con un comunista seduto sulla loro panchina. Potevano sempre cambiare, si capisce: ma quelli che se ne intendevano gli avevano spiegato che soltanto Menotti avrebbe potuto vincere con quella squadra, e loro non avevano un piano B, l’unica possibile conclusione del Mondiale in casa era che l’Argentina vincesse la Coppa Rimet per la prima volta nella sua storia. Quella sera, il 29 maggio 1977, erano venuti i polacchi a giocare nello stadio del Boca, la Bombonera: Argentina contro Polonia, proprio come nel giorno del golpe, un anno prima. Il vento soffiava dal mare, minacciava pioggia. Quando i polacchi passarono in vantaggio con un gol di Lato, Muñoz quasi esultò e cominciò a vomitare insulti contro Menotti. «Trenta milioni di argentini non vogliono più il suo gioco, dovrebbe trovare il coraggio di lasciare il posto, è una vergogna». Menotti leggeva le nuvole con il suo sguardo dritto, si preoccupava di cercare la bellezza nel gioco, non stava a contare i gol. Non lo aveva fatto neanche quando era un attaccante senza troppo talento, il cui massimo traguardo era stato fare la riserva di Pelé nel Santos. Pareggiò Bertoni, su rigore, prima che finisse il primo tempo. Poi segnò Luque, e ancora Bertoni. Negli ultimi venti minuti, il palleggio della Selección fu accompagnato da un colossale boato: Menotti no se va, Menotti no se va. Quella sera di maggio lo avevano deciso loro, gli argentini, chi li avrebbe guidati al Mundial, e nessuno avrebbe potuto cambiare più le cose. Non il gordo Muñoz, che infatti virò rapidamente dagli insulti ai complimenti. E neanche il trio Videla-Massera-Agosti, neanche loro. L’indomani, i giornali strillavano che Menotti, el flaco, era proprio l’uomo giusto per la Selección.

Un momento di Argentina-Francia, 6 giugno 1978. AFP/Getty Images
Un momento di Argentina-Francia, 6 giugno 1978 (Afp/Getty Images)

Il capitano dell’Argentina quella sera era Jorge Carrascosa, come l’anno prima in Polonia. Anche ai Mondiali avrebbe avuto lui la fascia, Menotti glielo aveva promesso, e poi non c’erano dubbi. I suoi compagni lo chiamavano el lobo, il lupo, e c’era bisogno di tipi come lui per arrivare fino in fondo. Sarebbe stato Carrascosa, se tutto andava come doveva andare, a ricevere la Coppa dalle mani insanguinate di Jorge Rafael Videla, il generale. Ma non tutto andò come doveva andare.

Nel gennaio del ’78, quando el flaco Menotti rese ufficiale la lista degli argentini che avrebbero partecipato ai Mondiali, il nome del capitano non c’era. Lui e Carrascosa ne avevano parlato a lungo, come facevano sempre. Parlavano di fútbol e di Che Guevara, degli amori di tutta la vita, Jorge raccontava al ct dei progetti con Lucy, la sua donna. Menotti tenne il segreto, soltanto lui sapeva esattamente perché il capitano avesse preferito abbandonare la Nazionale, spegnere la sua luce prima che si accendessero i riflettori del mondo. La voce grassa di Muñoz avrebbe dovuto urlare qualche altro nome, non il suo. Carrascosa era il terzino dell’Huracán, portava baffi grossi sopra uno sguardo invecchiato e triste, non aveva ancora trent’anni ma pareva che gliene pesassero molti di più. Quando era nato, nel ’48, il fútbol argentino era chiuso per sciopero, fu quella volta che Di Stefano dovette emigrare in Colombia per giocare. Quando ci fu il golpe del ’55, il piccolo Jorge prendeva a calci palloni di stracci e polvere in mezzo alla strada. Durante quello del ’66, faceva il professionista nel Banfield e per tutti era già il lupo. Era sempre stato un idealista, uno di quelli convinti che siamo venuti al mondo per cambiarlo. Parlò con Menotti, poi mai più. Non raccontò perché decise di rinunciare a quello che doveva essere il suo sogno di bambino: giocare il Mondiale in casa con la maglia della Selección. Pochi mesi dopo, lasciò perdere anche il calcio e si cercò un mestiere.

Furono gli altri a parlare di lui. Dissero che non aveva voluto stare al gioco e farsi complice del regime, che era diventato un eroe proprio perché aveva rifiutato la battaglia, che il suo silenzio aveva fatto più rumore dello stadio pieno la notte della finale. Anni dopo, ammise che aveva visto troppe cose che non gli piacevano, nel calcio e fuori, e che non c’era bisogno di raccontarle, anche perché non voleva essere costretto ad andare a vivere lontano, e secondo me aveva ragione. Non gli piaceva che quel gioco fosse diventato questione di vita o di morte, «una partita di calcio è semplicemente questo, niente di più. Non è un amico, né un fratello, né la patria, non è la vita. Ci sono cose molto più importanti di una partita, non ci si può confondere». Una volta gli chiesero quali fossero per lui le parole più importanti. Rispose etica, morale, onore, dignità. A pensarci bene, forse lo ha spiegato perché preferì non giocare quel Mondiale.

Fu Alberto Tarantini, che diventò campione del mondo al suo posto, a raccontare la verità, quasi trent’anni più tardi. Ma quella sera del 1978, il 25 giugno, fu un altro capitano, Daniel Passarella, a ricevere la Coppa del Mondo dalle mani lorde di sangue di Videla.

Mario Kempes. Steve Powell/Allsport
Mario Kempes (Steve Powell/Allsport)

I generali avevano capito che il Mondiale di calcio sarebbe stato la vetrina perfetta per la loro Argentina: sullo sfondo delle partite tutti avrebbero visto un Paese senza violenza né miseria, senza problemi né opposizione. Il generale Omar Actis, capo del comitato organizzatore, aveva assoldato una società americana di pubbliche relazioni, la Burton & Martseller, per mostrare al mondo il lato migliore del Paese. I salari erano bloccati, i sindacati aboliti, la stampa censurata, ma tutti avrebbero visto strade nuove, aeroporti fiammanti, ponti avveniristici, stadi di ultima generazione, un popolo in festa. I quartieri malfamati di Buenos Aires furono buttati giù pochi mesi prima del calcio d’inizio, e quelli che abitavano lì furono deportati in Catamarca, al confine col Cile. Nel viale principale di Rosario tirarono su un muro e ci disegnarono sopra case belle, ricche, pulite e ordinate. Dietro il muro, la gente continuava ad abitare in quelle vere: brutte, povere, cadenti. Gli arresti furono intensificati, arrivarono a duecento al giorno, per impedire contatti dei dissidenti con i giornalisti stranieri. Il prezzo dell’intera operazione superò abbondantemente quello preventivato dall’ammiraglio Massera all’epoca della presa di potere: alla fine il Mondiale argentino venne a costare il triplo di quello di quattro anni più tardi, in Spagna. Alla vigilia, qualcuno in Europa aveva provato a giocarsi la carta del boicottaggio, ma aveva vinto la convinzione che lo sport è sport, non c’entra con la politica. Mancava l’Uruguay, ma soltanto perché si era fatto incredibilmente eliminare dalla Bolivia, le altre grandi c’erano tutte. Insomma, andò esattamente come i generali avevano previsto. Soltanto un particolare sfuggì al loro controllo ossessivo: in un mese di Argentina, il mondo si accorse di quelle donne mute, con i fazzoletti bianchi in testa, che tutti i giovedì percorrevano in cerchi silenziosi il perimetro di Plaza de Mayo. Il giorno dell’inaugurazione del Campionato del Mondo di calcio, invece della cerimonia di apertura, la televisione olandese mandò in onda la processione delle madri e delle nonne, con le loro domande silenziose scritte negli occhi scuri. Due giocatori della Svezia lasciarono il ritiro e si unirono al corteo, così sappiamo che non tutti vivevano in un mondo a parte. Si giocò. Quei pochi che sono riusciti a tornare hanno raccontato che durante le partite nei campi di prigionia si sospendevano le torture. Novanta minuti di tregua per poi precipitare di nuovo nell’incubo. Anche i voli della morte si fermavano, ma soltanto quando in campo c’era la Selección.

L’Argentina di Menotti arrivò alla finale, come doveva essere, anche se per riuscirci dovette attraversare il passaggio stretto di una vittoria per sei gol a zero sul Perù, che ancora oggi rimane l’esempio più classico di partita aggiustata. Comprata, se ti piace di più. O venduta, dipende da che parte la guardi. L’indiziato più facile fu Ramón Quiroga, il portiere, che era nato argentino ed era diventato peruviano soltanto l’anno prima, per avere un posto ai Mondiali. E il suo complice sarebbe stato niente meno che el flaco Menotti, soltanto perché era di Rosario come lui. Argentina-Perù si giocò proprio nella loro città. La verità, a riguardare quei novanta minuti, è che non fu soltanto Quiroga a lasciare via libera agli argentini. E che in nessuno degli episodi-chiave la prova del portiere fu scandalosa: estrosa magari, forse originale. Ma Quiroga non era un portiere di quelli timorati di Dio: apparteneva alla razza dei Gatti, dei Chilavert. Degli Higuita. Un matto come loro, non necessariamente un venduto.

Mario Kempes segna il suo secondo gol durante la finale dei Mondiali 1978. Staff/AFP/Getty Images
Mario Kempes segna il suo secondo gol durante la finale dei Mondiali 1978 (Staff/Afp/Getty Images)

Qualche anno dopo i contorni di quella vicenda si fecero più chiari, o magari ancora più ingarbugliati, vedi tu. Un centrocampista del Perù, José Velasquez, raccontò che prima della partita c’era stata un’insolita visita nel loro spogliatoio: erano entrati Videla ed Henry Kissinger, fino a pochi mesi prima segretario di Stato americano. Kissinger era lo stesso che, ai tempi del golpe, aveva assicurato alla giunta militare argentina l’appoggio dell’amministrazione Ford. E sempre lui era intervenuto durante la cerimonia inaugurale per dire in mondovisione che l’Argentina aveva «un grande futuro, a tutti i livelli». Più esplicito era stato soltanto João Havelange, presidente brasiliano della Fifa, che ebbe il coraggio di annunciare che finalmente il mondo avrebbe visto la vera faccia dell’Argentina, promettendo un Mondiale di pace. Dopo l’incontro con Videla e Kissinger nello spogliatoio, il ct peruviano Marcos Calderón aveva deciso di cambiare, di mettere Quiroga fra i titolari. Sarebbe bastato chiedere a lui per capire esattamente che cos’era successo. Ma ormai è troppo tardi: Calderón era sull’aereo che precipitò in mare l’8 dicembre dell’87, con tutta la squadra dell’Alianza Lima. Le prove di quella combine, la famosa marmelada peruana, non ce le abbiamo. Ma ogni tanto qualche testimonianza è uscita dai binari ufficiali. Un giornalista inglese scrisse che poco prima della partita il governo argentino aveva inviato un carico di un milione di tonnellate di grano in Perù. In altri racconti erano cinquanta milioni, ma di dollari. Molti anni più tardi, Fernando Rodríguez Mondragón, figlio di un boss del cartello di Cali, scrisse in un libro di memorie che proprio suo padre e suo zio avevano portato un mucchio di soldi ai peruviani per corromperli. Poi venne fuori che Menotti aveva ricevuto per posta le foto dei suoi figli all’uscita di scuola, secondo lo schema del più classico dei ricatti. Sta di fatto che l’Argentina doveva vincere con almeno quattro gol di scarto per portare via il posto in finale al Brasile. E vinse sei a zero.

Leopoldo Luque in azione durante la finale dei Mondiali 1978. Staff/AFP/Getty Images
Leopoldo Luque in azione durante la finale dei Mondiali 1978 (Staff/Afp/Getty Images)

Leopoldo Luque giocava in attacco. È lui che ha tramandato ai posteri quello che avevano detto ai calciatori della Selección i generali della giunta militare, quando erano andati a trovarli in ritiro alla vigilia del Mondiale. «Comportatevi bene nel girone della morte». Gran bella scelta di parole, niente da dire. A Luque quella frase rimase incisa nel cuore, forse perché a poche ore dalla sfida con l’Italia, suo fratello Fernando, il piccolo di casa, rimase carbonizzato in un incidente d’auto. La morte e il Mondiale, per lui, sono sempre stati lo stesso ricordo. Ma non fu il solo. La notte della finale, il 25 giugno, l’Argentina si fermò. Al Monumental erano riuscite a entrare ottantamila persone. Gli altri correvano accompagnando l’autobus della squadra, pregando per l’Argentina con i rosari in mano. L’uomo seduto in tribuna d’onore accanto a Videla era un italiano, Licio Gelli, il capo della massoneria. Italiano guarda caso era anche l’arbitro, Sergio Gonella. L’ultimo ostacolo fra l’Argentina e il disegno perfetto immaginato dai generali erano gli olandesi, in finale per la seconda volta di fila. Arrivarono allo stadio in un clima di guerra, con soldati armati dappertutto, e il pullman accerchiato da centinaia di argentini che tiravano sassi e manate: ci misero un’ora a percorrere venti chilometri. A trecento metri dallo stadio c’era l’Escuela de Mecanica de la Armada, uno dei centri di tortura del regime, i prigionieri potevano sentire il rumore dell’eccitazione collettiva. Grazie ai supplementari, quella volta la tregua durò addirittura centoventi minuti.

Il gol di Mario Kempes nel primo tempo e l’arbitraggio a senso unico convinsero milioni di argentini che il trionfo era lì, bastava afferrarlo e stringerlo forte. Quando mancavano otto minuti al novantesimo, l’olandese Dick Nanninga trovò il varco giusto e pareggiò. Era entrato da poco al posto di Johnny Rep, e quella del Monumental fu la sua unica partita in Nazionale. Il destino fa giri davvero strani. All’ottantanovesimo Rensenbrink tirò a botta sicura, a porta vuota: il pallone andò a sbattere sul palo, assieme alle speranze di tutta l’Olanda. La mezzora supplementare fu soltanto un precipitare verso la festa: Kempes, poi Bertoni, l’urlo del gordo Muñoz arrivò fino ai lembi più lontani della Patagonia. Gli olandesi non parteciparono alla premiazione, non strinsero le mani dei dittatori, e non andarono neanche alla cena ufficiale organizzata allo Sheraton. Kempes, che Menotti aveva preferito a Diego Armando Maradona, lasciato a casa perché era ancora troppo giovane, era diventato il capocannoniere dei Mondiali: dopo la vittoria si limitò a un brindisi veloce con i suoi compagni poi tornò a Rosario dai suoi genitori. C’era poco da festeggiare, mettiamola così.

Anche grazie a quella vittoria, il regime dei generali poté godere di altri cinque anni di silenzio e di impunità. Di quella Coppa del Mondo Menotti e i suoi giocatori hanno dovuto continuare a scusarsi all’infinito. Facevano soltanto il loro mestiere, giocavano a pallone. Ma non potevano non sapere. Tarantini lo confessò per tutti quasi trent’anni più tardi. Raccontò che a una festa organizzata dal «Clarín» per i campioni, si era trovato nella stessa stanza con Videla e gli aveva chiesto che fine avessero fatto tre suoi amici, che erano stati portati via dall’esercito davanti ai suoi occhi mentre bevevano qualcosa assieme in un bar. Il dittatore gli aveva risposto brusco che lui non si occupava di queste cose. Più o meno, la risposta che hanno dato sempre gli sportivi in questi casi. Perché chiedete a noi, facevamo soltanto il nostro mestiere. Pensavamo a giocare, non avevamo capito niente. Nessuno di quei delinquenti entrò in campo: vincemmo noi, soltanto noi. Noi non ammazzavamo, non torturavamo, non sequestravamo. Non è giusto chiamarci complici, abbiamo vinto un Mondiale e ci rimangono soltanto la tristezza, e la vergogna. Dicevano così. Menotti ha continuato a chiedersi per tutta la vita se quella Coppa l’avrebbe vinta lo stesso, anche senza le manovre dei militari al potere. «Ho sempre pensato che nel fútbol si può smettere di correre. L’unica cosa che non si può smettere di fare è pensare». La gente invece non ha mai smesso di chiedersi perché non disse no, perché accettò di guidare l’Argentina dei generali, lui che è ancora un uomo di sinistra. Non gli si perdona di aver vinto un Mondiale, eppure Kissinger ha avuto il Nobel per la pace. L’alibi di Menotti fu quello che chiese ai giocatori nello spogliatoio, prima che cominciasse la finale: non guardare la tribuna, ma la gente felice sugli spalti. «Non vinciamo per quei figli di puttana, vinciamo per alleviare il dolore del nostro popolo». Soltanto per quella notte dal cielo di Buenos Aires non caddero ragazze e ragazzi, ma coriandoli.

 

Nell’immagine in evidenza, i giocatori nell’Argentina nel 1979 festeggiano la vittoria contro l’Urss. Allsport/Getty Images