L’ora dei Thunder

Eterni incompiuti o finalmente vincenti? Oklahoma City è arrivata a un bivio, e questa potrebbe essere l'ultima stagione utile per passare alla storia.

Oklahoma City è la quintessenza della provincia americana, una città di colletti blu e pozzi petroliferi persa nell’immensità delle grandi piane occidentali. Non è quel che si definisce una metropoli vibrante, o una meta turistica gettonata (a meno di essere grandi appassionati di fiere del bestiame, o di tornado), ma in compenso è la casa di Kevin Durant e Russell Westbrook, e basta questo per farne una capitale del basket mondiale. I Thunder giocano un ruolo centrale nell’identità di uno Stato e di una città relegati ai margini dei grandi eventi (gli abitanti dicono che se vuoi divertiti ad Oklahoma City, basta prendere la macchina e… guidare per tre ore fino a Dallas!), ma che, grazie a Durant e compagni, ha scoperto orgoglio e senso d’appartenenza.

Kevin Wayne Durant, da Texas University, è un distillato di talento e tecnica in 210 centimetri, provvisto di qualità balistiche tali, da porre ogni difensore dinanzi ad un dilemma insolubile: se lo marchi da vicino, ti batte col palleggio, ma se fai un passo indietro, puoi già scrivere “due” sul tabellone segnapunti. Pick your poison, come dicono da quelle parti; “scegli il tuo veleno”. E poi c’è tutto il resto: KD è costantemente tra i migliori rimbalzisti “per opportunità reali” di tutta la lega, è un eccellente passatore e palleggiatore, difende e vive in palestra da mane a sera.

Russell Westbrook è un californiano sbucato dal nulla, e la protervia con la quale carica a testa bassa si spiega ripercorrendo la storia personale di un ragazzo che, a ogni livello (high school, college e pro), è sempre partito dal gradino più basso della scala gerarchica. Ottenne una borsa di studio a UCLA con il classico ruolo da giocatore locale (che fa simpatia e si alza dalla panchina solo per festeggiare i canestri altrui), ma nel giro di due stagioni si trasformò in un difensore implacabile, tanto da guadagnarsi l’NBA, dov’è migliorato esponenzialmente, fino a divenire una delle guardie più forti al mondo.

Oklahoma City Thunder v Golden State Warriors

Difficile immaginare due persone dai caratteri più diversi: Durant è introverso e algido (ma quando parla fa pochi prigionieri), mentre Westbrook è ciarliero e focoso. Entrambi però, provano una passione maniacale per il Gioco, e su questo terreno d’incontro hanno forgiato un’intesa che ne ha fatto i beniamini locali.

La simbiosi tra Thunder e OKC non sarebbe mai esistita senza Clay Bennett, l’uomo d’affari che nel 2006 acquistò i Seattle Sonics da Howard Shultz (il proprietario della catena di caffetterie Starbucks), e di lì a due stagioni li trasferì nel natio Oklahoma (non senza strascichi, anche giudiziari), consapevole di poter contare su una buona base di appassionati e di scarsissima concorrenza. Bennett e il suo General Manager Sam Presti scelsero come modello i San Antonio Spurs, che, al pari di OKC, fanno base in una piccola città, ma che, in barba a questo limite, si sono imposti come la franchigia più vincente degli ultimi vent’anni -non solo in NBA, ma in tutte le principali leghe americane, dall’MLB all’NHL.

Presti ha inanellato una splendida serie di scelte al draft, con quattro All Star (Kevin Durant, James Harden, Russell Westbrook, e Serge Ibaka), oltre ad una miriade di giocatori di ruolo, e così, due anni dopo aver conquistato per la prima volta i Playoffs (nel 2010) OKC approdò alle NBA Finals. I Miami Heat di LeBron James li spazzarono via (4-1) festeggiando sul campo di casa, ma considerata l’età media del gruppo e la facilità con la quale OKC era giunta al traguardo, tutti diedero per scontato che i Thunder avrebbero avuto mille altre occasioni per rifarsi. Pur trovandosi a Miami, la città di Dan Marino, nessuno ripensò alla parabola del leggendario quarterback dei Dolphins tra gli anni ottanta e novanta, la cui carriera ruota proprio attorno ad un’occasione sprecata in gioventù. Nel 1985 Marino raggiunse il Super Bowl, lo perse, e non riuscì mai più a disputarne uno, fino al ritiro, nel 1999. Le Finals 2012 restano le uniche nella storia dei Thunder, che da quel momento hanno interrotto la propria irresistibile ascesa, anche a causa di alcuni gravi errori commessi dal front-office; su tutti, caricarsi l’inutile contrattone di Kendrick Perkins, e poi ritrovarsi a dover sacrificare James Harden per motivi salariali.

L’ultima vittoria contro Toronto

Gli infortuni hanno complicato le cose (i Playoffs 2013 naufragarono per la rottura del menisco laterale di Russell Westbrook, e l’anno scorso Kevin Durant ha saltato 55 partite a causa di una frattura al piede, tanto che i Thunder non si sono neppure qualificati ai Playoffs), ma gran parte dei critici incolpava l’attacco asfittico di Scott Brooks, intrappolato in una rigida bipartizione tra stelle e comprimari, con cattive spaziature e una pessima gestione delle rotazioni.

Il mancato accesso alla Postseason 2015 è diventato così un ottimo pretesto per mettere alla porta coach Brooks (fantastico sul piano umano, meno dal punto di vista tattico) e ripartire da Billy Donovan, ex allenatore delle Nazionali giovanili e dell’università di Florida, al quale è stato affidato il delicato compito di portare a compimento una rivoluzione qualitativa. Con il rientro di Kevin Durant, la definitiva consacrazione di Russell Westbrook, e un nuovo sistema di gioco improntato su ritmo e spaziature, i Thunder erano attesi al salto di qualità che separa le grandi squadre dalle franchigie vincenti, che riconoscono l’obiettivo, e hanno chiaro in testa come arrivarci. A poco tempo dall’inizio dei Playoffs, però, sembra che questo cambio di passo non ci sia stato. L’ottimo Donovan ha lavorato di cesello sulle rotazioni (in modo da avere sempre in campo almeno una delle due stelle), gli schemi sulle rimesse sono migliori, ma il totale continua a essere inferiore alla somma dei fattori.

Golden State Warriors v Oklahoma City Thunder

Da sempre leader emotivo del gruppo, Russell Westbrook è ormai anche il leader tecnico della squadra, che vive del suo debordante atletismo. Dal canto suo, Durant è fermamente convinto che i Thunder siano più pericolosi quando Russell è aggressivo, e non ne fa una questione di tocchi o di copertine dei giornali, ma solo ed esclusivamente di vittorie. Qualche anno fa, rispondendo alle critiche di Skip Bayless, KD disse: «Siamo una squadra peggiore quando prendo più tiri. Quel tizio non sa niente, e non credo che ci guardi giocare, ma che si fidi solo delle statistiche, e, tradizionalmente, una point guard non dovrebbe tirare più di chiunque altro in campo, ma quando Russell è aggressivo noi siamo migliori, e io sono migliore quando mi occupo di facilitare i compagni, difendere, andare a rimbalzo ed essere efficiente prendendo poche conclusioni». È un ragionamento con un preciso senso tattico, perché le penetrazioni al ferro di Westbrook spostano le difese e generano opportunità per i compagni, ma è un modo di attaccare improvvisato (tante palle perse nascono dai deragliamenti di Russ) e monodimensionale che ai Playoffs presenterà il conto.

L’accento non va posto su quante conclusioni un giocatore prende, ma quali, e soprattutto, in che contesto; lo Usage Rate (la percentuali di possessi che terminano con un assist o un tiro) di Kevin Durant è 30.1%, quello di Russell Westbrook invece è 31.4%.  Steph Curry “usa” ancora più possessi (31.9%), ma i suoi sono tiri e i passaggi devastanti, perché frutto di letture e gioco di squadra; nel caso di KD e Russ, certe cifre sono il prodotto dell’assoluta dipendenza dei Thunder dalle loro invenzioni.

Contro le tre grandi corazzate NBA (San Antonio, Cleveland e Golden State) i Thunder hanno collezionato 6 sconfitte  a fronte di due sole vittorie ambedue ai danni degli Spurs. Warriors e San Antonio sono squadre di enorme talento, capaci però di leggere da uno spartito; tutti sanno quali movimenti eseguire e perché, e quando in campo ci sono le riserve, si continua a giocare secondo i medesimi princìpi. Il sistema di OKC invece coincide con le stelle, e quando i due leader incappano in una serata storta, gli altri si guardano spauriti, non sanno che fare. Come ha detto Durant dopo la débâcle contro i Clippers: «Se pensiamo di diventare una grande squadra giocando in questo modo, ci stiamo prendendo in giro da soli».

Le top giocate di Kevin Durant

I difetti del roster sono innegabili; non c’è una vera e propria terza opzione offensiva capace di costruire tiri per sé e per i compagni (la grande speranza di Presti era Ibaka, che però si è rivelato un role-player di lusso), o di fungere da raccordo tra i due fenomeni e “gli altri”, che sono quasi esclusivamente specialisti (c’è chi sa solo tirare, come Kyle Singler, e chi sa solo difendere, come Andre Roberson).

La griglia dei Playoffs NBA è stabilita dai piazzamenti in stagione regolare, e, sic rebus stantibus, i Thunder non possono vantare il favore del pronostico: dopo un primo turno ragionevolmente agevole, i ragazzi di Donovan se la vedranno (salvo sorprese clamorose) con Spurs e Warriors, imbattute sul parquet domestico, con il fattore campo avverso. Per riconquistare le Finals, Durant e Westbrook dovranno disputare tre serie epiche, difendendo la Chesapeake Energy Arena e violando almeno una volta sia l’AT&T che la Oracle Arena. I vari Adams, Kanter, Waiters e Ibaka, saranno chiamati a salire di colpi e divenire in qualche modo protagonisti con difesa, intensità, giocate di sacrificio, e perché no, qualche canestro.

Se i Thunder dovessero approdare in Finale (o addirittura vincerle), parleremmo di un’impresa di livello assoluto, che si può apprezzare solo in relazione alla forza dell’avversario: Spurs e Warriors sono le ultime due formazioni ad aver vinto il titolo, e sono squadre già consegnate alla leggenda di questo sport. Batterle entrambe quattro volte in una serie al meglio di sette è un’impresa per titani, altro che il serafico “four-four-four” con il quale Moses Malone rispose a chi gli chiedeva cosa servisse per vincere l’anello. È una sfida che KD e Russ non possono vincere da soli, ma d’altronde, la storia del basket insegna che anche i più grandi, come LeBron, Jordan e Kobe, non avrebbero mai vinto senza i vari Mike Miller, John Paxson e Derek Fisher, che non erano eccelsi talenti, ma in compenso avevano mano ferma e la stessa fame di vittorie dei loro più celebrati compagni. Allo stesso modo, Kevin Durant e Russell Westbrook creeranno miss-match e costringeranno le difese a concentrarsi su di loro, ma da soli non andranno lontano, perché il basket è uno sport nel quale la squadra prevale sempre sull’individualità. La palla del successo passerà per le mani di Ibaka, Kanter, Adams e Waiters, e sarà la loro freddezza a marcare la differenza tra il trionfo ed l’ennesima, frustrante sconfitta.

Oklahoma City Thunder v Golden State Warriors

Da più parti si vocifera che KD sia al passo d’addio, e forse l’atmosfera da “ultimo ballo” contribuirà a compattare uno spogliatoio che non si è fin qui distinto per durezza mentale (forse anche a causa di una terribile serie di sciagure che ha colpito la squadra; è passato a miglior vita uno dei proprietari di minoranza, la moglie dello stimatissimo assistente Monty Williams è rimasta uccisa in un incidente stradale, e, ad abundantiam, il fratello di Dion Waiters è stato freddato a colpi di pistola in un conflitto a fuoco tra bande).

OKC detiene il poco commendevole record di 12 sconfitte rimediate iniziando l’ultimo periodo in vantaggio, un dato che non depone a favore della maturità del gruppo. Colpa della scarsa concentrazione che Billy Donovan denuncia da qualche tempo, e che genera una marea di palle perse (15.8 a gara, e solo i derelitti Nets ne perdono di più nel quarto periodo). Può darsi che i Thunder emergano ancor più forti dalle difficoltà, ma se certi passaggi a vuoto dovessero ripetersi anche ai Playoffs, la fedeltà di Kevin Durant sarà messa a dura prova. L’ala da Texas è in scadenza di contratto, e quest’estate sarà il free agent più concupito di tutta la NBA; per KD, 28 anni da compiere a settembre, non sarà una decisione facile; è un tipo leale e ha sempre pensato di trascorrere l’intera carriera con la stessa franchigia, ma gli anni passano e i Thunder sembrano aver raggiunto un plateau di rendimento che, salvo sorprese (leggi: implosione di G-State e San Antonio), non consentirà di ambire al Larry O’Brien Trophy. Per lui le tentazioni non mancheranno: le quotazioni dei Washington Wizards (la squadra della sua città natale) si sono un po’ raffreddate sulla scia della stagione mediocre di John Wall e compagni, ma in compenso i Los Angeles Lakers sognano di tornare “in contention” aggiungendo Durant e Hassan Whiteside al loro nucleo di giovani promettenti, e i Miami Heat possono offrirgli una grande organizzazione e la presenza di due comprovati vincenti come Dwyane Wade e Chris Bosh.

Le top giocate di Russell Westbrook

Infine, l’ipotesi più suggestiva vede Kevin Durant alla corte di Steph Curry. È una prospettiva intrigante, ma ci sembra difficilmente percorribile per due ordini di ragioni. La prima è che per averlo, i Warriors dovrebbero smantellare un nucleo già ora formidabile, e la seconda riguarda il modo in cui si vince: diventare campioni NBA con i Thunder, in un ruolo di leadership assoluta, ha tutto un altro sapore rispetto che con Golden State, da ultimo arrivato in una squadra già titolata. L’ermetico KD non lascia trapelare indizi sul suo futuro, ma alla Chesapeake Energy Arena si respira una certa sfiducia. In realtà, senza pretendere di sapere ciò che passa per la testa del numero 35, ci sembra che la migliore tra le opzioni sul tavolo sia proprio rimanere in Oklahoma. Continuare a giocare con Westbrook, e magari aggiungere il famoso terzo violino durante l’estate, non è affatto una prospettiva peggiore rispetto a quelle che paventeranno Lakers e Heat.

 

Nell’immagine in evidenza, Kevin Durant a Phoenix, lo scorso febbraio. Christian Petersen/Getty Images