La lezione di Arrigo Sacchi

Il Profeta di Fusignano oggi compie 70 anni: oltre i risultati, le vittorie e le delusioni, qual è l'eredità dell'allenatore italiano più rivoluzionario.

Arrigo Sacchi

Quel rigore calciato alto alto da Roberto Baggio nel cielo di Los Angeles ha segnato il futuro della sua vita sportiva come nessun altro pallone mai. Arrigo Sacchi ce l’aveva messa tutta a conquistare il Mondiale negli Stati Uniti d’America; sarebbe stato il finale da favola di un viaggio incominciato tre anni prima a fari spenti e arrivato ad un passo dal trionfo stellare: «Pazienza, racconterò ai miei nipotini di aver perso un Mondiale ai rigori», disse in sala stampa l’allora commissario tecnico italiano ancora scosso e teso, poco prima che fosse la tristezza a sedarne lo spirito e far nascere i primi dubbi sul suo futuro da allenatore.

Sacchi era arrivato a guidare la Nazionale dopo Azeglio Vicini che aveva conquistato il terzo posto di Italia ’90, ma aveva miseramente fallito la qualificazioni agli Europei del 1992. Il Profeta di Fusignano era stato scelto dal presidente della Figc, il barese Antonio Matarrese, dopo aver vinto tutto quello che c’era da conquistare con il Milan: era stato un coup de théâtre di Silvio Berlusconi a portare Sacchi a San Siro nel 1987 e c’è da credere a Demetrio Albertini quando dice che il neo allenatore si presentò a Milanello «da signor Nessuno». Aveva guidato giovanili e dilettanti; tra i professionisti solo il Rimini e il Parma che da neopromosso in Serie B aveva eliminato i rossoneri dalla Coppa Italia, il giorno in cui Berlusconi si innamorò di quel mister ancorato ai confini dell’Emilia Romagna.

Mondiali 1994: Arrigo Sacchi guida la Nazionale dalla panchina, nella sfida contro il Messico del 28 giugno (David Cannon/ALLSPORT)
Mondiali 1994: Arrigo Sacchi guida la Nazionale dalla panchina, nella sfida contro il Messico del 28 giugno (David Cannon/ALLSPORT)

Il grande palcoscenico della A non lo conosceva, ma Sacchi rinchiuso nella provincia italiana aveva studiato a lungo riuscendo a mettere nero su bianco la sua idea di calcio che rivoluzionò nel corso degli anni il modo di intendere il pallone: 4-4-2 con marcatura a zona, corsa e pressing. «Chi è? È il tecnico con la paranoia della vittoria», disse di lui Berlusconi che era forse l’unico ad avere più voglia di trionfare di quanta ne avesse Sacchi. Nell’estate del 1987 si ritrovò a gestire una rosa che fino a qualche settimana prima avrebbe potuto sognare e, nonostante un’eliminazione in Coppa Uefa, il primo maggio 1988 poté sorridere come non mai: una doppietta di Pietro Paolo Virdis e un gol di Marco Van Basten neutralizzarono il Napoli di Diego Armando Maradona e Careca al San Paolo. Il Milan vinse 3 a 2 e si proiettò di slancio verso la vittoria dell’undicesimo scudetto: la firma era tutta di Arrigo.

Gli allenamenti «folli» (copyright di Paolo Maldini) contribuirono a costruire il mito del maniacale perfezionista e Sacchi non fece nulla per togliersi di dosso quell’etichetta che in fondo adorava. Facendo della dedizione e dell’impegno un credo personale e di squadra, Sacchi riuscì a vincere la Coppa Campioni e l’Intercontinentale – successi entrambi bissati. Al Milan aveva dato tutto e nel suo libro Calcio totale (edito da Mondadori nel 2015) ha riassunto la vita in rossonero sottolineando l’impatto psicologico di un’esperienza vissuta di corsa e arrivata troppo in fretta: «Alla fine io, il signor Nessuno, ero diventato, sì, il Profeta di Fusignano, avevo bruciato le tappe, avevo vinto tutto; ma l’unico che usciva a pezzi da quel Milan ero solo io».

Primo maggio 1988: Napoli-Milan 2-3. L’ipoteca sull’undicesimo scudetto rossonero.

Il pressing che teorizzava in campo lo applicava nella quotidianità e quando nel 1991 a Milano si incominciava a parlare di rinnovo, Sacchi voltò le spalle a Berlusconi per godersi la possibilità di diventare il commissario tecnico della Nazionale: il sogno dei sogni per un provinciale come lui. Un lavoro meno stressante, da selezionatore: videocassette e tribune; prato e spogliatoi solo poche volte all’anno. Sembrava il mestiere perfetto, ma il debutto fu duro, un pareggio a Genova contro la Norvegia. Nel Paese dei cittì furono tanti i rimproveri, pochi gli elogi: «Siamo in democrazia – disse Sacchi – ognuno può pensare e scrivere quel che gli pare, io rispetto tutti e penso che tutti siano in buonafede», anche se «non mi pare che la Nazionale venga da un periodo di grandi risultati. Non lo dico per polemica, ma perché mi pare giusto».

Portò in azzurro chi sapeva meglio interpretare la sua idea di calcio e non pensò mai di dover accontentare piazze e stampa. Ne sanno qualcosa Gianluca Vialli, celebre escluso dal Mondiale statunitense, e Giuseppe Signori, retrocesso in panchina durante il torneo: «Mi adeguo, ma non capisco. A Sacchi ho detto cose che non posso ripetervi. Non provo rancore, mastico una scelta più strana che brutta», disse l’attaccante della Lazio, all’epoca capocannoniere in carica della Serie A. Sacchi, in realtà, cercava chi fosse in grado di «mettersi al servizio dei compagni», giocatori capaci di sacrificarsi, come Baggio e Franco Baresi, e di vivere il calcio come esperienza collettiva. Albertini è stato tra quelli che più hanno beneficiato delle scelte personali e tattiche di Sacchi: giovanissimo fu portato in prima squadra ai tempi del Milan e 23enne diventò metronomo nella Nazionale vice-campione del Mondo: «È stato maniacale – ha ricordato lo storico numero 4 – ma ci ha portato a traguardi considerati impossibili. Ha cambiato la mentalità del nostro calcio e mi ha insegnato a fare il professionista».

La partita-manifesto di Sacchi: Coppa Campioni 1988/1989, Milan-Real Madrid 5-0.

A settant’anni, Sacchi può guardarsi alle spalle e vedere chilometri di pagine e litri di inchiostro dedicati a lui. La sua vita, da quella partita di Coppa Italia a San Siro in poi, è stata scandita da analisi e commenti perché in molti, a vario titolo e da diverse prospettive, hanno provato a raccontare l’uomo che non fu mai un ottimo calciatore, ma che divenne un allenatore tra i più grandi della storia: del resto, come ha sempre ricordato lui stesso, «per essere un buon fantino non è necessario essere stato un cavallo». Vestito d’azzurro, attirò su di sé gli sguardi di chi provava genuina invidia e sentiva la libertà di giudicare chi ce l’aveva fatta nel calcio grazie a cervello e ragione: le chiacchiere da bar sport, confinate nella Cerchia dei Bastioni ai tempi del Milan, sfociarono in editoriali durante i Mondiali Usa e soprattutto all’indomani della disfatta italiana negli Europei del 1996 in Inghilterra.

«Il culo di Sacchi» fu il leitmotiv nell’estate’94 dei suoi arcinemici che riducevano le prestazioni della Nazionale ai colpi di genio di Baggio e alla presupposta incapacità cronica degli avversari; durante i nefasti Europei, con l’Italia eliminata al primo turno, il chiasso da bar si fece via via più forte. «Sembra un piccolo Napoleone, è il rappresentante della provincia più becera, bravo solo, come nel caso della finale di Usa ’94, a prendersi meriti non suoi», disse Giorgio Bocca, giornalista e scrittore. «Il calcio è una roulette – aggiunse – bastava che Zola segnasse il rigore con i tedeschi e il ct diventava l’uomo della fortuna». Di nuovo.

Insieme a Carlo Ancelotti, suo ex giocatore, nel 2008 (Filippo Monteforte /AFP/Getty Images)
Insieme a Carlo Ancelotti, suo ex giocatore, nel 2008 (Filippo Monteforte /AFP/Getty Images)

A guardare i fatti, invece, Sacchi ha vissuto i suoi 27 anni sul campo dedicandosi solo al calcio, un’esperienza da lui definita «totalizzante», tanto da relegare nella sua vita famiglia e salute al ruolo di comprimari. In un’intervista al Corriere della Sera ha raccontato di aver vissuto la carriera «in apnea», per riprendere fiato solo il giorno dell’addio, nel 2001 a Parma. Lì dove tutto era incominciato, Sacchi ha abbandonato il campo ed ha incominciato a fare il voyeur del football. «Telefonai a mia moglie: smetto, le dissi, non voglio essere il più ricco del cimitero».

Qualcosa si era rotto già a Los Angeles, sette anni prima subito dopo i calci di rigore che fecero dei verde-oro i nuovi campioni del Mondo. Dopo l’errore di Baggio, Sacchi ha fallito all’Europeo ed è ritornato sulla panchina del Milan senza successo. Quella che sembrava essere l’ultima fiche se l’è giocata in Spagna, ma all’Atletico Madrid è durato sette mesi e un giorno: a metà febbraio del 1999 ha annunciato il suo primo addio al calcio: «Me siento agotado, sfinito». Poi la sorpresa di rivederlo in panchina, a Parma in quella che era stata la sua prima casa; ma bastarono tre giornate – una vittoria e due pareggi – per capire che era finita davvero.

La colpa allo stress; a quella testa che non smetteva mai di lavorare e pensare, sempre in pressing sulla realtà alla ricerca di nuove idee; per battere gli avversari in campo e stanare i nemici sui giornali. La sua era pur sempre la mente che aveva partorito il calcio razionale e intelligente, dove la logica valeva più dell’estro anche quando questo era protetto dai piedi divini di Roberto Baggio. Parlando con Walter Veltroni al Corriere dello Sport, il dieci più amato d’Italia ha detto di aver pensato spesso alla sostituzione con Luca Marchegiani dopo l’espulsione di Gianluca Pagliuca in Italia – Norvegia, giocata a New York il 23 giugno 1994: «Sacchi fece quello che era giusto fare, tatticamente – ha ammesso Baggio – D’istinto mi sembrava incredibile; ma siamo stati dotati della ragione, non solo dell’istinto». Proprio come ha insegnato il Profeta di Fusignano.

 

Nell’immagine in evidenza, Arrigo Sacchi ai tempi dell’incarico da direttore sportivo del Real Madrid, nel 2004 (Pedro Armestre/AFP/Getty Images)