La nuova Roma di Spalletti

Adattabilità all'avversario, cambio di passo dei giocatori chiave, l'arrivo di El Shaarawy e Perotti: così il tecnico toscano ha cambiato la stagione dei giallorossi.

“Empty your mind. Be formless, shapeless, like water. When you pour water in a cup, it becomes the cup. When you pour water in a bottle, it becomes the bottle. When you pour water in a teapot, it becomes the teapot. Now water can flow, or drip, or crash. Be water, my friend” (Bruce Lee)

Man mano che il gioco del calcio cambia, e i suoi ruoli cambiano con lui, le caratteristiche principali dei suoi interpreti diventano fondamentali nel definire la loro posizione all’interno di una determinata tattica: ci sono gli architetti, i finalizzatori e gli addetti alla fase difensiva, e poi ci sono i portatori sani di gioco, quelli che non solo sanno interpretare più ruoli, ma che come somma delle loro caratteristiche hanno il dono di produrre gioco a prescindere dalla posizione ricoperta, e infine ci sono i portatori d’acqua. Con questo termine nel pallone si è sempre fatto riferimento a un ruolo di corsa misto a un atteggiamento di umiltà, talvolta persino appesantito dal pregiudizio di terzi, che sanciscono l’inferiorità delle sue qualità tecniche rispetto a quelle degli altri interpreti.

Quindi, se il portatore d’acqua è una pedina che si sacrifica per far abbeverare la collettività, ne consegue che l’acqua viene vista come un utile item, un bene di consumo soggetto alla manipolazione dell’uomo, che sia il contenimento della stessa in un secchio o il suo trasporto coatto. Questo pensiero deriva dall’abitudine di categorizzare gran parte di ciò che intorno a noi è natura come elemento subordinato alla volontà umana, perciò, per rompere con questa consuetudine, vi proponiamo in questa sede una riscrittura del ruolo, un nuovo battesimo del termine portatore d’acqua.

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La strategia liquida

Come brillantemente sintetizzato dall’aforisma di Bruce Lee, la caratteristica principale dell’acqua è la sua capacità di adattarsi alle situazioni, la sua strategia liquida che gli permette di cambiare in base ai fattori esterni e, se questi lo consentono, di imporsi sull’ambiente circostante con il suo scorrimento perpetuo. Condizione che in fondo è ascrivibile anche alla nuova Roma di Spalletti, che prova a essere come l’acqua dall’inizio del girone di ritorno. Non ha moduli prestabiliti, non conosce un solo modo di stare in campo, né tantomeno una sola fase difensiva: si adatta alla squadra che ha di fronte senza conoscere passività, ma piuttosto imponendo la propria duttilità molecolare, costringendo gli avversari a un contenimento che a giudicare dal numeri in campionato, si è fatto difficile. Se il portatore d’acqua classico è infatti un cursore la cui unica qualità è quella di permettere l’abbeveraggio della squadra, si può dire allora che Spalletti abbia rivoluzionato questo concetto perché ne ha invertito la direzione del movimento, portando la Roma all’acqua, intesa come libera interpretazione del suo stato liquido.

Con il tecnico toscano di nuovo in sella dopo la deprimente conclusione dell’era Garcia, i giallorossi hanno collezionato 9 vittorie, una sconfitta in campionato contro la Juventus, due in Champions League contro il Real Madrid, e due pareggi. In ognuna di queste occasioni, anche in caso di risultato negativo, i giallorossi hanno dimostrato di avere piena coscienza di ciò che Spalletti gli ha chiesto, garantendo atteggiamenti positivi anche quando le prestazioni non lo erano del tutto. Contro le merengues, ad esempio, pur dovendosi arrendere alla superiorità dei loro singoli, la Roma è riuscita a giocare alla pari in diverse fasi della partita, e a tenere duro mentalmente anche davanti allo svantaggio, evitando le imbarcate che nella gestione di Garcia erano diventate quasi proverbiali.

La gara di ritorno in Champions contro il Real Madrid.

Quattro mesi fa una svolta del genere sembrava impensabile, specie alla luce del fatto che il gioco di Garcia era tutto meno che liquido, almeno negli ultimi tempi. Al contrario, la ripetitività dei suoi schemi votati ai palloni lunghi e alla ricerca disperata di un funambolo a cui far saltare l’uomo si esaurivano da mesi in una staticità mascherata, che a lungo andare aveva inevitabilmente anche cristallizzato i risultati. La Roma non segnava più e aveva perso ogni traccia di brillantezza o di fiducia nei propri mezzi.

Gli interpreti

Eppure il cambio c’è stato ed è stato radicale. La conferma sta nei numeri di giocatori che alla fine del girone di andata erano in appannamento, come Salah e Pjanic, oggi migliori marcatori della squadra con 12 e 11 reti rispettivamente, seguiti a ruota da Edin Dzeko, a quota 10 gol stagionali, che nonostante non abbia ripagato con convinzione le enormi aspettative di agosto e sia rimasto comunque un oggetto misterioso in attacco, ha comunque segnato finora lo stesso numero di reti stagionali di Mario Mandzukic, pedina fondamentale della seconda Juventus di Allegri. Se in tutto il girone di andata era andato a segno solo 3 volte, sono ben 5 le volte in cui questo è avvenuto con Spalletti in panchina. I numeri di Pjanic, poi, sono da leader della squadra: 11 reti e 11 assist in campionato, proporzioni da basket americano, specie se si considera il fatto che si tratta di un giocatore accusato spesso di sparire nelle partite importanti. Con Spalletti il talento bosniaco ha ritrovato una sicurezza che spesso nel resto della stagione era mancata, e un ruolo più definito da metronomo di centrocampo, in grado di fare anche parecchio lavoro oscuro in fase difensiva.

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Oltre ai residenti rigenerati dalla cura spallettiana, c’è da sottolineare quanto di primo piano si sia rivelato il contributo degli acquisti di gennaio. La Roma in campionato ha infatti potuto contare sulla nuova fiducia di El Shaarawy, scommessa vinta, che ha deciso di conquistarsi un posto all’Europeo a suon di gol e prestazioni generose, ma soprattutto di Diego Perotti. Questi è uno dei ritratti più lampanti del portatore sano di gioco di cui parlavamo in apertura. L’impatto che ha avuto sulla sua nuova squadra, poi, portando con sé gol, assist e tanti palloni a cui ha impartito educazione attraverso i suoi piedi, lo ha reso immediatamente anche agli occhi dell’allenatore un ingranaggio fondamentale dell’efficace strategia liquida di cui sopra.

Se Spalletti decide di optare per una linea a tre di jolly offensivi alle spalle di Dzeko, Perotti può partire al centro della trequarti, a dialogare sugli esterni con i veloci e imprevedibili Salah ed El Shaarawy oppure, se si decide di schierare Pjanic come garante delle geometrie di centrocampo, si può optare per Perotti esterno a liberare lo spazio al centro per le incursioni dei compagni, o a servire Dzeko in area. Ancora, se l’allenatore, come nella pirotecnica vittoria contro la Fiorentina, sceglie la soluzione del falso nueve per non dare riferimenti alla difesa avversaria, è ancora una volta Perotti il suo uomo chiave.

Una delle critiche che in passato i suoi detrattori gli hanno mosso è quella di vedere poco la porta. Chiaro che si tratta di una considerazione che difficilmente può essere smentita nei confronti di un giocatore che ha segnato una trentina di reti in dieci anni e quasi 300 partite di carriera, ma di fatto Perotti non è un attaccante tout court. Semmai è il fulcro dell’attacco, un fulcro basso e in costante movimento, che dal centrocampo può spostarsi in ogni direzione intorno al perimetro dell’area avversaria, ma che di base ha il compito di rendere fertile il dialogo con i compagni di reparto.

Highlights dalla prova di Perotti contro il Sassuolo

Come giocatore offensivo, infatti, el Monito (la scimmietta, soprannome mutuato da quello del padre Hugo, meteora nel Boca dei primi anni ‘80) possiede una natura ibrida, ma può essere ingannevole dire di lui che tendenzialmente giochi da ala, ma con piedi da numero 10: l’argentino non è infatti il classico funambolo che nasconde il pallone, bensì uno che domina lo spazio con il proprio corpo e a questa sicurezza associa un’intelligenza tattica che gli consente di trasformare i suoi passaggi in bonifici bancari per i compagni di squadra, sia che si porti sull’esterno, sia che scelga di cambiare gioco partendo dal centro. L’estrema facilità di cross, unita a un notevole controllo del pallone, completano il ritratto dell’uomo ideale quando si tratta di rifornire di palle gol i compagni schierati nell’area piccola.

Perotti non rischia la giocata audace nelle fasi in cui la squadra è scoperta, mettendo a rischio gli equilibri tanto cari a Spalletti, ma capitalizza il possesso palla con l’obiettivo di farlo sempre fruttare. Anzi, si può dire che gli equilibri siano innati nei tempi di gioco che scandiscono lo stile dell’argentino. Ma non è tutto: il suo modo di attaccare l’area avversaria entrandoci relativamente poco lo rende promotore di una densità di gioco notevole, che va tutta a vantaggio di chi tra i suoi compagni possiede rapidità e doti di inserimento. Il suo stile di gioco garantisce imprevedibilità e produzione industriale di palloni giocabili.

Perfetta la sua intesa con El Shaarawy, che alla velocità nello stretto e alla disponibilità alla corsa e al sacrificio unisce una fame di gol che lo ha portato a siglarne ben 6 in 9 presenze. L’innesto di questi due giocatori in una squadra già ricca di individualità dinamiche, come Salah, Nainggolan e Florenzi, si è rivelata ideale: tanto Perotti dedica i suoi sforzi all’implemento di palloni giocabili, tanto il Faraone di Savona produce una notevole mole di movimento finalizzata alla rete.

Nuova Roma, nuovo El Shaarawy

La comunicazione

Se il segreto della risalita della china, per quanto riguarda il campo, sta nel saper affrontare ogni fase del gioco decostruendola per quello che è, senza schemi prestabiliti, è anche fuori dal campo, in un ambiente bollente come quello romanista, che ogni controversia è stata presa di petto da Spalletti, un passo alla volta. Con piglio sempre più autoritario man mano che il numero delle vittorie aumentava.

Si vedano il caso Totti e quello, recente, che ha coinvolto Sabatini, l’uomo che più di tutti ha avuto l’ultima parola in casa giallorossa negli ultimi cinque anni. Il modo in cui l’allenatore toscano lo ha rimproverato davanti ai microfoni della stampa, dopo l’annuncio anticipato delle sue dimissioni a giugno, dimostra come, forte anche della fiducia del presidente Pallotta, Spalletti abbia rilevato la gestione completa di tutto ciò che riguarda la Roma anche a livello di comunicazione. Ove per comunicazione non intendiamo tanto le dichiarazioni rilasciate a mezzo stampa, quanto la prossemica del tecnico negli spazi da lui sorvegliati, il modo in cui li gestisce. Che sia a bordocampo o in sala stampa, tutto ciò che Spalletti tocca è finalizzato all’obiettivo sportivo ma non si limita ad esso.

Al di là del pur legittime letture sul dittatore illuminato che prende il potere a Roma in un momento di crisi, e quindi al di là dei facili paragoni con i Cincinnato e i Cesare di turno, riportando tutto al pallone si può dire che Spalletti sia in realtà uno dei più meticolosi tecnici di casa nostra, un innamorato del lavoro e un innamorato del gioco a cui è stata concessa una seconda chance in una piazza di cui ha avuto modo di conoscere apogei e buche nell’asfalto.

Non è strano, in un calcio come quello odierno in cui decostruire il campo non basta, estendere la capacità di adattamento liquido anche alle telecamere. Tanto più che il peso dell’acqua e la sua capacità di modellare gli argini intorno a sé aumenta quando a sostenerla ci sono i risultati.

 

Nell’immagine in evidenza, i giocatori della Roma esultano durante il match contro la Fiorentina dello scorso 4 marzo. (Filippo Monteforte/AFP/Getty Images)