Kobe, epilogo

Stanotte Kobe Bryant giocherà la sua ultima partita in Nba: la sua ultima settimana da giocatore, tra ricordi, vecchi nemici ed emozioni che sgorgano via.

L’ultima settimana da giocatore di basket di Kobe Bryant si apre con quella che dall’altra parte dell’oceano chiamano home&home series, ovvero si gioca in giorni consecutivi contro la stessa squadra, una volta in casa e l’altra in trasferta. In questo caso sempre a Los Angeles però, perché vanno in scena due sfide tra Lakers e Clippers (da questa parte dell’oceano si chiamerebbe anche derby). Sono due partite speciali, innanzitutto perché si disputano nella città che Bryant chiama casa da 20 anni (dove i tifosi Lakers che non riescono a comprare i biglietti per le gare interne dei gialloviola, spesso hanno più fortuna nel trovarli a quelle dei Clippers) e poi perché ai Clippers Kobe ha rischiato davvero di finirci, scontento e capriccioso nell’estate del 2004, quando da L.A. se n’erano andati Shaq (beh, lo aveva accompagnato per mano fuori dai dazi cittadini…) e soprattutto coach Phil Jackson.

Martedì 5 aprile – La prima delle due partite è la più interessante, perché sono i Clips i padroni di casa. Al momento della presentazione del quintetto ospite, appena prima di annunciare questa guardia di 1.98 da Lower Merion High School, parte un video di 30 secondi sul jumbotron. Si vedono Bryant e Chris Paul, avversari ma anche compagni, pochi minuti in qualche All-Star Game. Le cose però potevano andare ben diversamente, se a fine 2011 l’allora commissioner Nba David Stern non avesse posto un veto al trasferimento di Paul da New Orleans (al tempo senza proprietà, e quindi commissariata dalla lega) a Los Angeles – sponda Lakers, però. Sembrava tutto fatto, tanto che un colpo di telefono a Bryant Paul lo fece, 20/30 minuti di chiacchierata per iniziare a immaginare anni di trionfi. Kobe, nel post-partita, torna a quei giorni: «Mi conoscete – dice – se parlo di vittorie non intendo partite, ma titoli. Chris ha lo stesso atteggiamento, assieme saremmo stati una grande coppia ma purtroppo non andò in porto». Wow, fu la reazione di Paul all’epoca, affidata a Twitter. Wow quella ancora attuale oggi di ogni tifoso gialloviola, nel pensare a cosa sarebbe potuto essere.

Los Angeles Clippers v Los Angeles Lakers

Come Paul, un altro Clipper di oggi che ha sognato a lungo, almeno da bambino, di poter indossare il purple-and-gold è Paul Pierce, nato a Inglewood, a un tiro da tre punti dal Forum, quella che all’epoca era la casa di Magic Johnson, Kareem Abdul-Jabbar e dei Lakers dello Showtime. Anche da lui – una carriera poi agli odiati rivali dei Celtics – arriva dal maxischermo il giusto messaggio di rispetto per il Black Mamba, co-protagonista di battaglie leggendarie in due finali Nba, nel 2008 e poi ancora nel 2010. Pierce, ieri come oggi, era allenato da Doc Rivers, al solito spumeggiante davanti ai microfoni. «Triste per il suo ritiro? Neppure un po’, anzi, felicissimo. Mi ha inflitto già troppo dolore. Non crederete mica a tutti quelli che stanno ripetendo di volerlo ancora vedere in campo? Stanno mentendo, ve lo dico io». Scherza, ovviamente, e se lo può permettere. «Sono stanco di vederlo giocare: ha giocato fin troppo, e fin troppo bene». Nel 2008 riuscì a batterlo, nel 2010 no. E per entrambi gli anni ha una storia da raccontare. Di come nella decisiva gara-6 del 2008 i suoi Big Three – Pierce, Kevin Garnett, Ray Allen – accettò di toglierli dal campo solo a 4 minuti dalla fine, nonostante Boston fosse sopra di 35 e certa di aver vinto partita e titolo «ma Kobe era ancora in campo, per cui non mi sentivo tranquillo. Volevo che Phil Jackson togliesse Kobe, poi io avrei tolto i miei». Oppure di come ancora oggi pensa che con Kendrick Perkins in campo in gara-7 anche il titolo del 2010 avrebbe preso la strada di Boston. Basta questa dichiarazione perché, tra i mille sorrisi di circostanza, Kobe torni il killer di sempre: «Non mi importa di quello che pensa: i miei anelli splendono allo stesso modo».

Lakers contro Celtics, 2010. Quella gara 7

La palla a due interrompe la magia dei ricordi e riporta a una realtà più prosaica. I Lakers perdono di 22, Bryant – reduce da 34 punti due sere prima proprio a Boston – segna solo 2 dei 12 tiri che si prende, per 6 miseri punti.

Mercoledì 6 aprile – Fa (un po’) meglio 24 ore dopo: con 17 punti è il miglior marcatore della partita, ma segna solo 6 canestri su 19 tentativi e ha il peggior plus/minus (-15) di tutti i giocatori in campo. I Lakers perdono ancora, stavolta di dieci (81-91): non sarebbe neppure una notizia se non si trattasse dell’undicesimo k.o. in fila contro i cugini (non si vince contro i Clippers dal 4 aprile 2012) e soprattutto della 62esima sconfitta stagionale, record negativo nella storia della franchigia.

Venerdì 8 aprile – A sentire lui, le sue due figlie Natalia (13 anni) e Gianna (10) – vedendolo lasciar casa per l’ennesima volta – hanno espresso il desiderio che papà restasse con loro un po’ di più, che non andasse via. «Gli ho promesso che questo era il mio ultimo viaggio», romanza come solo lui sa fare Bryant davanti alla stampa di New Orleans. Lo stesso viaggio da L.A. fino alla città conosciuta come The Big Easy lo fa anche Synjin Hipolito, un tifoso che aveva solo 6 anni all’ingresso di Kobe nella lega e che – dopo non aver mai smesso di seguirlo – ora vuole accompagnarlo verso il tunnel dell’uscita finale. Sono in sette – Johnny Mata e altri sei membri della sua famiglia, neppure tutti – ad arrivare da Corpus Christi, dove il Texas è quasi Messico. Per Michael Arvites invece, un tifoso locale dei Pelicans, non si tratta della prima volta al cospetto di Bryant, «ma la prima in cui mi ritrovo a tifare per lui, dopo aver passato una vita a detestarlo». Non è l’unico. Lo Smoothie King Center di Nola è tutto per il n°24, che ci impiega 28 secondi per mettere a segno la prima tripla e mandare in estasi la gran parte dei 18.607 spettatori che hanno riempito il palazzo. Qualcuno forse c’era anche la sera del 23 marzo 2007 quando, segnando 50 punti (con 16/29 al tiro), divenne il primo giocatore dai tempi di Wilt Chamberlain a far registrare 50 o più punti in quattro gare consecutive (28.6 in 21 partite la media punti in carriera di Kobe a New Orleans).

BKN-CLIPPERS-LAKERS-KOBE

Nove anni dopo si ferma a 14, di cui 11 però in uno scoppiettante primo quarto, quando assiste anche al video tributo pensato per lui dai Pelicans e affidato alle parole di Anthony Davis, compagno di squadra con la maglia di Team USA alle Olimpiadi del 2012, Ryan Anderson e di quel Kendrick Perkins tirato in ballo da coach Rivers solo un paio di giorni prima. Nel quarto periodo, a gara sostanzialmente già decisa, il coro assordante dei tifosi – “Kobe, Kobe, Kobe” – convince l’allenatore dei Lakers Byron Scott a rimetterlo in campo solo per assecondare la volontà del pubblico. «La prima volta che mi succede da quando ho annunciato il mio ritiro», dice Bryant. Non fa altro che aggiungere due tiri sbagliati e una palla persa alla prestazione di serata, ma poco conta. Anche dopo la sirena finale (e la sconfitta dei Lakers, 102-110) giornalisti e tifosi sono tutti per lui. I primi vengono dirottati dagli spogliatoi – dove di solito i giocatori ospiti gestiscono le interviste del post-partita – alla sala stampa dei Pelicans, eccezionalmente messa a disposizione di un avversario per ospitare il massiccio contingente stampa alla caccia delle ultime parole del Black Mamba. I secondi dimostrano tutta la loro venerazione restando a lungo all’imbocco della rampa che conduce al parcheggio atleti all’interno del palazzetto, dove staziona il bus dei Lakers. Sono le 22.33 quando appare Bryant, il coro non è cambiato: “Kobe, Kobe, Kobe”. Lui saluta, regala qualche high-five e sale a bordo del bus, con destinazione aeroporto: next stop Houston.

Los Angeles Lakers v Oklahoma City Thunder

Domenica 10 aprile – Ogni città, ogni squadra che accoglie Bryant per l’ultima volta si guarda indietro, scava nel passato e si ritrova a leccarsi un po’ le ferite. Contro i Rockets Kobe ha giocato 76 volte, vincendo 47 di questi incontri e perdendone 29. Per due volte li ha eliminati dai playoff, per due volte ha messo a segno una tripla doppia, per due volte – nella stessa stagione 2006-07! – gli ha rifilato 53 punti (due delle 26 occasioni in cui ha segnato 30 o più punti). E ogni città, ogni squadra che accoglie Kobe per l’ultima volta si guarda dentro – nel roster di ieri e di oggi – e si accorge di non dover certo arrivare a sei nel contare i gradi di separazione dal Black Mamba. A Houston ci sono gli ex compagni, alcuni abbracciati (Trevor Ariza, pedina fondamentale del titolo del 2009) altri ignorati (Dwight Howard, la superstar – sbagliata – su cui i Lakers avevano investito per puntare al titolo anche negli ultimi anni di carriera di Bryant). Ci sono gli ammiratori come James Harden, cresciuto a Los Angeles con il mito di Kobe («Il mio role model, il giocatore a cui mi sono ispirato, per la sua natura competitiva, la sua voglia di vincere e di dare sempre tutto. Perché Kobe è fatto a modo suo, è unico: alcuni lo odiano, molti di più lo amano»). E ci sono le leggende come Hakeem Olajuwon, in prima fila accanto a Steve Francis per godersi l’ultima recita. Il nigeriano, quand’era sui parquet Nba, era famoso per un soprannome (The Dream) e per una mossa inconfondibile (The Dream Shake), un balletto degno del miglior tanguero porteño con cui ubriacava ogni avversario. A lui – appena vinto il suo quarto titolo Nba, il primo senza Shaq al suo fianco – Kobe sceglie di spedire una mail nell’estate del 2009, chiedendogli udienza: si presenta in palestra a Houston come il più umile degli allievi, perché se un centro di 213 centimetri può muovere i piedi in quel modo allora può – anzi deve – riuscirci anche lui. E ci riesce, tanto da diventare – al crepuscolo della sua carriera – uno dei migliori giocatori di post della lega, proprio come aveva fatto MJ prima di lui. I due si abbracciano a lungo a centrocampo prima che Kobe imbocchi il tunnel a fine gara, sconfitto ma autore di 35 incredibili punti.

I 35 punti a Houston

Lunedì 11 aprile – Neppure un giro completo di lancette e Kobe è di nuovo in campo, stavolta a Oklahoma City, 677esima e ultima trasferta della sua carriera (785 contando anche i playoff, di cui 402 vittorie). Sul parquet dei Thunder – al tempo non poteva saperlo e sicuramente non se lo sarebbe aspettato – ha finito per disputare anche la sua ultima gara di playoff, segnando inutilmente 42 punti in una sconfitta 90-106 che vide OKC eliminare i suoi Lakers ai playoff del 2012. Quattro anni dopo, è tornato per dire addio e a fare gli onori di casa ci pensano Kevin Durant e Russell Westbrook, le due superstar dei Thunder. Prima che si alzi la palla a due, incontrano Bryant privatamente – un solo fotografo ammesso all’interno della sala – per consegnargli un regalo speciale, un libro composto dalle più belle foto della sua carriera intervallate da alcuni pensieri scritti appositamente per lui da ciascun membro della squadra.

Poi, una volta tornati tutti sotto i riflettori, il tempo di un breve video-tributo affidato alla voce narrante di Gregg Downer, suo allenatore liceale a Lower Merion High School, e si gioca. Kobe spara tutte le sue cartucce nel primo quarto – 4/10 al tiro con tre canestri da tre per 13 punti – e poi non ne ha più. Rientra solo nel terzo quarto, per sette minuti che non aggiungono neppure un punto al suo tabellino ma un bell’aneddoto alla sua carriera. Su un errore al tiro di Durant e conseguente rimbalzo offensivo di Steven Adams, Bryant intima al neozelandese dei Thunder di ridare il pallone a KD. Ordine eseguito, in modo da permettere al Black Mamba di giocarsi un ultimo uno-contro-uno con la stella di casa. Il n°35 non si fa pregare, due palleggi, un crossover e tiro: solo rete. «Ogni volta che ricevevo palla – racconta poi Durant nel post-partita – vedevo nei suoi occhi un atteggiamento di sfida: “Dai, fammi vedere cosa sai fare”, l’ennesima dimostrazione di quanto Kobe ami la sfida, la competizione. Da parte mia ricordavo benissimo come Bryant non avesse mostrato la minima pietà per un Jordan prossimo al ritiro nelle ultime gare della sua carriera, per cui ho voluto onorarlo allo stesso modo, facendo di tutto per distruggerlo a ogni possesso». Ci è riuscito lui – 34 punti con 6/11 da tre punti – e ci è riuscito anche Russell Westbrook, già capace di firmare una tripla doppia prima della sirena dell’intervallo (in neppure 18 minuti di gioco).

Kobe Bryant contro Kevin Durant (J Pat Carter/Getty Images)
Kobe Bryant contro Kevin Durant (J Pat Carter/Getty Images)

Così la storia, nell’ultima recita esterna del Black Mamba, a farla sono anche i due eroi di casa: Durant supera proprio Bryant (annata 2005-06) mettendo a segno il suo 64esimo ventello consecutivo, la striscia più lunga dal Jordan della stagione 1990-91 («Una striscia che non vedo interrompersi presto, perché non c’è assolutamente niente che non possa fare in attacco», dice il 24). Westbrook invece – che a Los Angeles ci è nato adorando i Lakers di Magic Johnson prima e di Kobe poi – sorpassa proprio il primo portando a quota 18 il conto delle triple doppie stagionali, cifra record negli ultimi 25 anni di Nba: «Per l’energia che porta in campo e per la sua competitività mi rivedo tantissimo in Russ», le parole di Bryant. «Dal punto di vista atletico è probabilmente il giocatore più forte che ho mai affrontato». A freak of nature, un prodigio fisico, quel fisico che invece – dopo 20 anni di battaglie – ha abbandonato il Black Mamba. A pochi minuti dalla sirena arrivano i soliti cori per spingere coach Scott a rimetterlo in campo per un’ultima passerella. Ma stavolta non accade e a spiegare il perché, candidamente, è proprio Kobe: «Non riuscivo neppure a muovermi. Non dico giocare: muovermi».

Mercoledì 13 aprile – A Los Angeles hanno perfino coniato una parola nuova, mentre mancano poche ore alla recita finale, allo Staples Center contro gli Utah Jazz. «Sarà uno zircus», un po’ zoo, un po’ circus. C’è da credergli. Ci saranno, si dice, una trentina di suoi ex compagni a onorarlo (sì, anche Shaquille O’Neal); qualche centinaia le richieste di accredito rifiutate (e comunque circa 600 i giornalisti presenti); Flea, il bassista dei Red Hot Chili Peppers che da sempre sanguina gialloviola, ha promesso la miglior versione dello Star Spangled Banner dai tempi di Jimi Hendrix sul palco di Woodstock; Kendrick Lamar, straight outta Compton, ha già affidato al web (e al gigante Espn) il suo personalissimo omaggio, rime e versi a seguire un titolo evocativo, Fade to Black; cinque diverse crew seguiranno ogni movimento di Bryant, telecamere alla mano, per dare le ultime pennellate al documentario girato lungo l’arco di tutta la stagione (siamo sempre a Hollywood, d’altronde); un biglietto è già arrivato a costare 27.500 dollari – ma ci sarà sicuramente qualcuno disposto a sborsare anche di più, last minute; magari per un cappellino, in pelle nera con un bel 24 in oro 18-carati incastonato sulla visiera: fa parte della “24 Collection” e costa solo 38.024 dollari (un altro berretto, in cachemire con diamante rigorosamente viola, viene via poco sopra i 24.000); a 824 dollari c’è disponibile una t-shirt con tanto di serpente stampato ad arte, come da soprannome. È la leggenda del Black Mamba e siamo tutti disposti a farci mordere per un’ultima, piacevolissima volta. Enjoy the (last) game.

 

Nell’immagine in evidenza, Kobe Bryant prima della gara contro i Clippers del 5 aprile (Photo by Sean M. Haffey/Getty Images)