I viaggi di D’Alessandro in vari paesi lontani del mondo

A 35 anni, Andrés D'Alessandro è riuscito a tornare a casa, per terminare finalmente una carriera tormentata tra Europa e Sud America.

Andrés D'Alessandro

Non è questione di prestiti onerosi, né dei simbolici trecentomila euro che sono serviti a rivestirlo da millionario a partire da febbraio: il rientro di Andrés D’Alessandro alla casa-base, senz’altro da ricondurre entro il canonico schema delle “scelte di vita” alla soglia dei sette lustri (il ben noto “giro di boa nel giro di boa”), è coinciso con il soddisfacimento di una delle attese più spasmodiche della storia recente della Primera División. È che al River sono sempre stati esigenti, in fatto di estro, e dopo la retrocessione dei centodieci anni di marca Almeyda si sono sentiti in diritto, se possibile, di pretenderne ancora di più.

La magia dei gol di D’Alessandro con la maglia dei millionarios

D’Alessandro è ancora tutto un guizzo, ma rispetto a come l’abbiamo visto nascere – e in gran parte crescere – è finalmente molto più leggero, fatta eccezione per il cabezón. Saltati a piè pari, per troppa manifesta diversità, paragoni tanto ingenerosi quanto privi di senso (e fermi – per quel che risulta – al piede sinistro e al ruolo in campo, oltre a una certa mitologia associata al quartiere di La Paternal), sembra essersi messo nella condizione di concludere come si deve una carriera “a palindromo” per rendimento (alti / bassi / alti) e “a cornice” nelle sue peregrinazioni (p.es. nella sequenza Argentina / altrove / Argentina o Sudamerica / Europa / Sudamerica). Al River lo aspettavano a braccia aperte da almeno tre anni: lui, alla fine, si è deciso. Doveva, e dovrà per sempre, tonnellate di riconoscenza all’Internacional di Porto Alegre, ma forse era giunto il momento di tornare da dove si era partiti tra mille aspettative.

Le lacrime di dolore per l’addio all’ Internacional, le lacrime di gioia per il ritorno al River

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D’Alessandro è un prospetto, nei primi Duemila. è davvero forte, dicono: gioca sul velluto, ti trova anche di spalle e ha una finta che ti ubriaca. Da fermo, poi, non c’è storia, specie se lo sfidi ai sette metri. Don Balón non perde l’occasione di farne il nome e sfidarne la sorte, includendolo nell’ennesima lista di dominatori del futuro calcistico. La sua fama arriva anche in Italia, dove per la verità lo stanno seguendo in tanti già da un po’. Dopo i rumors sulla Juventus, tentacolare e moggiana come non mai, l’imberbe italo-argentino opta per una scelta impopolare, almeno per i tempi: va in Sassonia, a vestirsi di verde e Volkswagen. Sarà una transizione in attesa di migliori vetrine, nel solco del West Ham dei Mascherano e Tévez.

La rosa del Wolfsburg di allora è un po’ diversa da quella con cui Magath, appena quattro anni dopo, sbarcherà prima in Uefa e poi in Champions, complice uno scudetto insperato e gestito da Džeko e Grafite, sotto la supervisione di Misimović e la guardia della coppia Barzagli-Zaccardo. Sembra un’accozzaglia bella e buona di tedeschi mai arrivati, sudamericani capitati lì per caso e di una rappresentanza mista del classico contingente slavo. D’Alessandro si vede assegnare un triste 4, manco fosse stato un mediano di spinta; la 10, proibita, è a corredo delle spalle di Marko Topić, risultato dell’immancabile propensione filo-bosniaca della dirigenza tedesca.

Al Wolfsburg, D’Alessandro si vede assegnare un triste 4, manco fosse stato un mediano di spinta

Tanto più che dopo un anno, “quello forte” sembra essere però un altro argentino: si tratta del semi-polacco Diego (!) Klimowicz, riuscito nell’impresa di infilarne quindici nella Bundesliga di Ailton, Berbatov e Makaay. Del resto, la stella della squadra è il solo Martin Petrov, che si trova a dover dialogare con il sopra citato Klimowicz e il buon Fernando Baiano. D’Alessandro, dalla sua, colleziona tre marcature e fa intravedere alcune mandrakate niente male, senza che il giudizio su di lui, ancora alle prese con un ambientamento per nulla scontato, si evolva dalle incertezze di partenza. Non basta, nell’estate 2004, la vittoria dell’Olimpiade di Atene.

Nella stagione successiva la rosa è pressappoco la stessa, fatti salvi innesti come “Quiroga dal Napoli” e il tedesco-croato Thomas Brdarić, che ne mette dodici e si guadagna una pagnotta che serve ad arrivare appena al nono posto. Accanto a lui, gli exploit dei soliti Petrov e Klimowicz, senza che D’Alessandro riesca a superare la quota dei tre golletti stagionali, numeri condizionati da alcuni malanni e appena 19 gettoni. Nessuno si sogna di metterne in discussione il genio o la classe, ma sembra, a ventiquattro anni, un ex-giovane un po’ troppo maturo per un’affermazione a livelli al di sopra di quelli su cui si è stabilizzato in Germania.

andres D'Alessandro inghilterra
Capelli da Justin Timberlake, esultanza poco convinta, al Portsmouth (Jamie McDonald/Getty Images)

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A metà del suo terzo anno lontano da casa, D’Alessandro ha già perso le staffe e la Nazionale. L’assenza di possibilità di consacrazione lo porta a cercare il rilancio: le speranze di prendere parte al Mondiale 2006 sono, se non nulle, davvero minime. Resta in Europa, ma si rimette in discussione scegliendo di calcare i campi della Premier: passa al Portsmouth, dove è appena arrivato il volubile Harry Redknapp. Ancora con il 4 sulla schiena, il possessore dei diritti della boba va a rimpolpare un organico tutt’altro che di richiamo. Basti ricordare che uomo dell’anno, per i tifosi, è eletto Gary O’Neill, e che il bomber, a fine campionato, sarà LuaLua. Ora, non ce ne voglia l’autore della voce inglese di Wikipedia, ma non sembra di poter concordare con un’affermazione come «his main objective with his new club was to blend in with new team-mates and help his club to avoid relegationì». Semplicemente, questo è stato quello che è successo, ma le basi di partenza erano differenti. D’Alessandro, benché non ci siano troppe possibilità di ambire a qualcosa a livello di squadra, si comporta benino. Lascia giusto una perla (contro il Charlton), che per poco non si aggiudica la palma di gol dell’anno e che va vista e rivista a ripetizione:

Una parabola astrale per la rete contro il Charlton

Detto questo, e messe a tacere le mire di Redknapp, il passo successivo è la Spagna, delle cui difese larghe il giocatore potrebbe, sulla carta, giovarsi, per riguadagnarsi un rendimento all’altezza degli esordi. Così, perlomeno, si può dire di Pablo Aimar, che al Saragozza si è saputo reinventare (e che con D’Alessandro coesisterà più o meno pacificamente); lo stesso si può dire di altri due argentini, i fratelli Milito, che da lì partiranno per le rispettive consacrazioni in campo internazionale. Ancora, per quanto non si possa parlare di “fallimento”, el cabezón non brilla. Nonostante una prima stagione discreta, con un sesto posto che vale la Uefa, la parabola di D’Alessandro sembra essersi arrestata alla mediocrità: nulla di aureo, in questo caso; è piuttosto una “media” in senso di deteriore.

Ha tutti i tratti di una fuga, quella che avviene nel febbraio 2008. Il Saragozza è allo sbando (retrocederà, finendo diciottesimo), D’Alessandro torna in patria, al San Lorenzo: è un trasferimento che sa di resa, di totale ridimensionamento. Non fosse altro per il fatto che l’atleta, anche in quei pochi mesi argentini, sembra essersi ormai assestato sulla media di cui sopra. In sostanza, nulla di eccezionale.

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Libertadores 2015, Andrés ha appena segnato contro la U de Chile (Vinicius Costa/Afp/Getty Images)
Libertadores 2015, Andrés ha appena segnato contro la U de Chile (Vinicius Costa/Afp/Getty Images)

Nell’estate dello stesso anno, Andrés D’Alessandro firma per l’Internacional. Si proietta su un’ottima vetrina continentale, con la certezza di prendere parte regolarmente alla Libertadores. Soprattutto, è una squadra finalmente competitiva nel proprio campionato: il contesto in cui D’Alessandro si inserisce vede in Alex e Nilmar – effettivi sostituti di Pato e Sobis – le punte di diamante.

Non molto dopo, è tempo del primo trofeo brasiliano: la compagine di Porto Alegre vince nel 2008 la Copa Sudamericana, permettendo ad Andrés di festeggiare come non gli accadeva dal 2003, dopo l’ultima clausura conquistata con il River (l’Olimpiade 2004 non fa testo perché l’anno è nei fatti agrodolce, reso amaro dalla sconfitta in Finale – contro il Brasile dello stratosferico Adriano – nella Copa America degli adulti). Nel 2009, in concomitanza con il proprio centenario, la squadra si presenta in formissima, pronta a pregustare il filotto che verrà. Se servisse un emblema dello strapotere di quella squadra, si ricordi che la Finale del Campionato Gaucho – sempre nel 2009 – finisce 8-1 contro i malcapitati del Caxias (in gol anche D’Alessandro).

La goleada contro il povero Caxias

Da lì prende avvio la sequela di successi che conduce l’Internacional, e con esso il suo fantasista, all’apice della Libertadores 2010, contro il pur battagliero Chivas. D’Alessandro – miglior sudamericano dell’annata – riesce a tornare, anche se per appena un biennio, nel giro della nazionale maggiore; si attesta, considerando una “coda” che si prolunga fino al 2015, sui livelli più alti mai raggiunti nella propria carriera. Addirittura sfiora l’opportunità di giocarsi l’Intercontinentale, ma oltre a essere l’anno dell’Inter di Benitez, è l’anno del mirabolante Mazembe. Al di là dei riconoscimenti individuali, l’uomo da non più di tre gol all’anno tra Germania, Spagna e Inghilterra conosce, negli anni dispari, un climax che passa per tre apici: undici reti nel 2009; sedici nel 2011; venti nel fantascientifico 2013, senza dubbio il migliore momento – in assoluto – della sua vita sportiva. è diventato grande: è un atleta diverso, più completo. è un uomo.

Andrés D'Alessandro libertadores
Libertadores 2015, in gol contro i Tigres (Jefferson Bernardes/Afp/Getty Images)

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Acclamato e fortemente voluto, Andrés D’Alessandro è tornato a Baires. Senza essere trainato da alcun carro, ma con una dote di sei titoli del Campeonato Gaúcho, tre coppe nazionali del Brasile e una Libertadores. Senza più nulla da dimostrare, ma con un mancino che incanta, ora come allora.

Senza che nessuno si permetta più di etichettarlo, né di fare accostamenti, D’Alessandro è riuscito nell’estenuante fatica di portare a compimento la sua carriera, rendendosi autonomo e facendo storia a sé. Con addosso lo status di “eroe” a cavallo tra due epoche, di trait d’union tra il romanticismo del secolo scorso e la fisicità di quello moderno, non ha, finalmente, più nulla da dimostrare. Per questo ha pianto, lasciando Porto Alegre: el cabezón deve aver capito, una volta per tutte, che ora è libero di sentirsi un po’ più leggero. E non fatichiamo, davvero, a credere che stia meglio ora.