A connessione stabilita, la finestra di FaceTime si allarga a tutto schermo e una luce calda, tipica delle dieci del mattino californiane, inonda il mio monitor. Mi appare del tutto indistinguibile dalla luce delle sette di sera mediterranee che sta contemporaneamente inondando la mia stanza, e non resisto alla tentazione di farlo notare al mio interlocutore: «Francesco, oggi è uno di quei giorni che la California sembra la Puglia». «Sì, ma il punto è che la California è così tutto l’anno».
Francesco Alfier, padovano di 27 anni, vive a Los Angeles da gennaio. Qui studia (alla Long Beach State University), lavora (è sotto contratto con i LA Clippers) e fa il volontario (nella squadra NCAA del college). Non ha moltissimo tempo libero oltre questa mezz’ora alle dieci del mattino. «Sabato prossimo ho un esame importante, uno che tutti i miei colleghi americani hanno già fatto durante il bachelor, ma io ovviamente no. È la Writing Proficiency Examination, significa scrivere un saggio in 75 minuti, con la complicazione che l’argomento è completamente casuale. E la struttura di un saggio americano è diversissima dalla nostra». Francesco, laurea triennale in Scienze Statistiche a Padova, è iscritto a un corso specialistico in Sport Management. «Ci insegnano gli aspetti tecnici della gestione di squadre, tipo una franchigia NBA, e di strutture sportive, tipo i palazzetti. Certo, definire palazzetto una roba come lo Staples Center è un po’ azzardato…».
Francesco, da qualche settimana, allo Staples Center ci va regolarmente. Per lavoro. Due sere fa, per esempio, era a bordo campo, dietro uno dei canestri, insieme ad altri supervisori del rilevamento dati. Tuttavia quattro anni fa, quando ci incontrammo per la prima volta, l’America era lontana. Eravamo nel bel cortile dell’ex-convento di Santa Caterina, cinque minuti a piedi dalla Basilica di Sant’Antonio, attuale sede del Dipartimento di Statistica di Padova. Io avevo messo da parte il mio lavoro sulla teoria della mano calda e avevo appena cominciato un dottorato in demografia; lui era uno degli ex-studenti ospiti dell’Open Day della facoltà. Neolaureato, aveva cominciato a collaborare con la Reyer Venezia, primo statistico assunto da una società di basket italiana. Alla base di tutto una tesi di laurea in cui, basandosi sul parere tecnico di allenatori e addetti ai lavori, proponeva una nuova misura per la valutazione delle prestazioni dei giocatori di basket. La Reyer, mettendolo sotto contratto, acquisì i diritti della sua tesi. Oggi quello stesso lavoro è protetto da copyright NBA.
Ma poi, precisamente, come ci sei arrivato fin lì?
Questione di networking, innanzitutto. Ho lavorato per cinque anni all’Adidas Eurocamp, e ho conosciuto un po’ di gente. Tra gli altri, Michele Gherardini (figlio di Maurizio, ex vicepresidente dei Toronto Raptors e attuale gm del Fenerbahçe, nda) e Armond Hill, assistant coach ai Clippers. Qualche mese dissi a lui: «Sto pensando di venire a studiare in America, non è che per caso c’è modo di fare un’internship da voi?»
C’era.
Beh, non è stato così immediato. È stato un processo lungo, con una serie infinita di colloqui via Skype. Ma è andata bene, alla fine.
E cos’è che fai di preciso, quindi?
Sto nel dipartimento Analytics. Delle due grandi divisioni che compongono una struttura societaria NBA, quella business e quella basketball, io lavoro nella seconda. Faccio scouting, in pratica. Insomma, se i Clippers sceglieranno per la prossima stagione dei giocatori che non provengono dai college, certamente sarà qualcuno che è dentro il database a cui sto lavorando. A inizio giugno Doc Rivers avrà il mio report.
Poche responsabilità, mi sembra di capire.
Eh, il bello dell’America è questo. È uno dei posti al mondo dove si hanno meno giorni di ferie in assoluto, ma si lavora con tranquillità. Prima di arrivarci credevo mi avrebbero massacrato, e invece prendi l’università, per esempio: i professori odiano essere chiamati per cognome, ti contattano per cenare insieme, o per giocare a golf. Durante i corsi ripetono di continuo: «Guardate che noi siamo qui per farvi prendere A all’esame, mica per mettervi in difficoltà». Capisci la differenza? E poi a lavoro è bandito il multitasking: «Ti abbiamo preso per fare questa cosa, tu devi fare solo quella, ma bene. Devi fare caso al dettaglio. Abbiamo decine di altre persone ben pagate per tutto il resto».
Posso solo immaginare cosa sia stato il tuo mese di marzo, con la Madness NCAA ad aggiungersi a tutto questo…
È stato fantastico, altro che. Se il basket NBA è essenzialmente azienda, quello collegiale è appartenenza. Non ti pagano un dollaro per dare una mano, anzi sei tu che sei grato per la sola possibilità di collaborare. Fa curriculum, in un certo senso. Io ho fatto un po’ di lavoro di analisi, ampiamente ripagato dalla sensazione di essere dentro un evento universitario da 4000 spettatori a partita.
Non c’era nessuno spettatore quando, due anni fa, Francesco mi invitò ad un allenamento della Reyer. Era un giovedì, e lui era presissimo dalla scrittura del report statistico sugli avversari della partita successiva, la Enel Brindisi. Schemi ricorrenti, quintetti migliori, punti deboli e punti di forza. C’erano due versioni del report: una più semplice, per i giocatori, ed una più dettagliata, per lo staff. A me colpì molto la predisposizione di tutto l’ambiente al lavoro con i numeri. Passai una mezz’ora abbondante con uno dei preparatori atletici, chiacchierando di possibili modelli per prevedere picchi di forma e infortuni dei giocatori. A fine sessione, Andrea Mazzon, il capo-allenatore (attuale vice ai Delaware 87ers, NBA D-League, nda), si avvicinò a Francesco per un fitto scambio di opinioni. Mi presentai. «Quindi tu sei un amico di questo stregone? Sei un altro come lui?», chiese scherzando. Francesco ha continuato a collaborare con la Reyer anche sotto la gestione Recalcati («Un grandissimo»), mentre nel tempo libero faceva il dirigente del Petrarca Padova.
Quanto è stata importante, in definitiva, la tua esperienza a Venezia?
Un’esperienza di quattro anni che mi ha insegnato tempistiche, relazioni e gerarchie di un grande club professionistico. Nessuna scuola avrebbe potuto darmi quello che mi ha dato la Reyer.
Domanda retorica ma necessaria: quanto sono distanti Italia e America rispetto all’uso intensivo dei numeri nel basket?
Dieci anni, più o meno. A Venezia ogni cosa era nuova, eravamo pionieri. Qui negli States esiste tutto già da un bel po’.
Mi vengono in mente gli Spurs, che hanno recentemente vinto uno Sloan Award come squadra più data-friendly della lega e hanno pure aggiunto Kirk Goldsberry al loro dream team. Io non so se i Clippers siano a questo livello, ma mi sembra che dopo l’arrivo di Steve Ballmer alcune cose stiano cambiando molto rapidamente.
L’ambiente qui è stimolante, giovane. Difficilmente vedo intorno a me gente con più di 35 anni.
Insomma, ti trovi bene.
Di più, benissimo. Studio in quello che è probabilmente il miglior college pubblico d’America, vivace e multiculturale, faccio il lavoro dei miei sogni in ufficio che sembra la NASA e che invece è la stanza dei bottoni di una squadra di pallacanestro. Mi manca solo una macchina, forse. Per andare a lavoro, e magari anche al mare.
Io sono stato una volta sola a Los Angeles, ma ricordo benissimo la sensazione di smarrimento totale in uno spazio troppo grande per poter essere maneggiato da un essere umano. E i trasporti pubblici sono un mezzo disastro.
Pensa che ora, in autobus, da casa mia ci metto due ore per arrivare a Culver City (dove i Clippers si allenano, nda) e un’ora e mezza per arrivare allo Staples Center… In compenso gli americani sono simpatici, noi italiani gli piacciamo molto.
Sì, noi siamo quelli che veniamo dal posto with all those old buildings, mentre loro tengono a far sapere a tutti se un palazzo è dell’inizio del Novecento, scrivendoci sopra la data a caratteri cubitali.
Quando racconto di aver studiato nell’università dove insegnò Galileo, le reazioni sono fantastiche (ride). Poi amano il nostro accento, dicono metta allegria.
Per tutta la durata della nostra chiacchierata, la voce squillante di Francesco disegna un flusso di immagini plastiche e colorate. È felice, e non fa nulla per nasconderlo. A tratti credo di invidiarlo. Penso che, se avessi continuato a studiare la mano calda o qualcun’altra delle decine di forme che la statistica assume quando incontra la palla a spicchi, avrei potuto esserci anch’io, dall’altra parte dell’Atlantico. La verità è che a un certo punto del mio percorso, in una sorta di visione allucinata e apocalittica del futuro, mi sono immaginato responsabile di un mondo in cui le partite di basket sono ridotte a un freddo meccanismo di cui, descritte con precisione le componenti iniziali e intermedie, è possibile prevedere con esattezza l’esito finale. Mi sono figurato le advanced statistics superare il loro ruolo attuale di strumenti per interpretare qualcosa che è già accaduto ed evolversi definitivamente in potentissimi mezzi di inferenza su quello che sta per accadere. Ho visto insomma il principio fondatore di Moneyball, “usare la statistica per vedere valori che nessun altro può vedere”, trasformarsi nel tentativo prometeico di rubare il fuoco agli dei del basket, privando uno dei giochi più belli del mondo della sua naturale, fascinosa componente di imprevedibilità.
Francesco, ora che ci sei dentro per davvero, e ci sei dentro ai più alti livelli, com’è cambiato il tuo modo di vedere una partita di basket? L’assillo di cercare dentro i numeri la spiegazione di quello che accade sul parquet non ha tolto un po’ di magia alla tua passione di ragazzino?
No, assolutamente. Caso mai ne ha aggiunta. Ci sono troppi fattori che determinano l’esito di una partita di basket, non sarà mai possibile considerarli tutti, così come non sarà mai possibile ottenere una misura sintetica universale per giudicare la prestazione di un giocatore. Quello che mi stimola è dare tutto me stesso per ridurre le probabilità di sconfitta della squadra per cui lavoro, confrontandomi con chi fa lo stesso nella squadra avversaria. E poi anche nel mio piccolo, in quello che faccio per lo scouting internazionale, i numeri non hanno l’ultima parola. Accanto alla ricerca analitica c’è una grossa fetta di ricerca più tradizionale, fatta da gente che guarda centinaia di partite dal vivo o sul pc. Le scelte derivano sempre da una combinazione dei due approcci.
Pensi sia un modello estendibile ad altri sport? Pe dire, qualche giorno fa leggevo che qualcuno sta provando a verificare l’esistenza del “piede caldo” nel calcio…
Sì, il calcio ci sta arrivando. La disponibilità di dati sul movimento dei giocatori secondo dopo secondo in ogni zona del campo aprirà scenari impensabili.
Sono quasi le otto. Mentre dalla finestra di FaceTime la luce del mattino californiano giunge più intensa, quasi abbagliante, a me tocca accendere la lampada della scrivania per non perdere di vista gli appunti sulla chiacchierata. Il contrasto luminoso tra Puglia e California adesso è evidente, e mi ricorda che la giornata del mio ex-collega è appena cominciata.
In definitiva, Francesco, tu sei in NBA perché sei un bravo statistico o perché sei un conoscitore di pallacanestro con intuizioni geniali?
Chi arriva fin qui è innanzitutto una persona iper-appassionata di pallacanestro. Poi serve una laurea in un college americano. E bisogna avere basi importanti di analisi statistica, in particolare di analisi cestistica, che è un settore in piena espansione. Mi viene ad esempio in mente il lavoro di Adam Filippi sul miglioramento della tecnica di tiro. Ma potrei elencarti decine di altri testi fondamentali. Poi – ovvio – puoi leggere tutti i libri che vuoi, ma alla fine devi andare in campo e rifare di fronte a ventimila persone le cose che hai studiato e su cui ti sei allenato.
Con la pressione dei playoff addosso, magari. Come la vedi per i Clippers?
Siamo tra le migliori otto squadre dell’NBA, il che significa che siamo tra le migliori otto squadre del mondo. Faremo bene.
Se fossi in voi non sarei felicissimo di aver incrociato i Blazers. Ma su questo sono di parte, lo ammetto.
Portland è un osso durissimo ora come ora. Vedremo.
Cosa farai subito dopo aver chiuso questa videochiamata?
Oggi credo resterò a casa a lavorare sul mio database. Ci sono 70.000 mila giocatori dentro, ho un bel po’ da fare e non posso perdere troppo tempo. Perché sai qual è la cosa più importante che insegna il professionismo americano? L’umiltà. È come ti dicessero di continuo: «Ok, adesso fai parte della NBA. Ma ricordati che non sei ancora nessuno».