Ha sangue finlandese e tedesco. Ha vissuto un’adolescenza nel tempio dei motori, e possiede il dna di un campione. Nico Rosberg è decisamente cosmopolitan: è cittadino di due Paesi che insieme fanno 14 Mondiali di Formula 1 negli ultimi 22 anni, parla cinque lingue (tedesco, inglese, francese, spagnolo e un italiano decisamente fluido, a differenza del finlandese che, nonostante le sue origini paterne, è appena abbozzato), ha ricevuto un’educazione in una scuola internazionale del principato di Monaco. E a Monaco, Nico, ha deciso di restare. Non come fanno gli altri piloti di Formula 1, che ci hanno preso casa un po’ perché è cool e molto perché si pagano tante tasse di meno: Rosberg è monegasco per davvero, e poco importa se gareggia sotto la bandiera della Germania, dove è nato, e porta il cognome finlandese del padre.
È cresciuto tra le curve del circuito del Gp più affascinante al mondo, infilandosi nei tunnel ogni mattina per andare a scuola, anche se a guidare, all’epoca, era la madre Sina. Durante le lezioni, di tanto in tanto, si affacciava alla finestra sopra il paddock, per osservare i movimenti dei piloti, affascinato in particolare dalle McLaren di David Coulthard e Mika Hakkinen. Era come guardare il suo futuro, un destino che per lui era già segnato, un’eredità che si sarebbe tramandata da una generazione all’altra. Suo padre Keke era stato campione del mondo di Formula 1 nel 1982, e lui aveva deciso di seguirne le orme. Messo davanti al primo bivio importante della sua vita, tra i motori e il tennis, non ha avuto dubbi.
Nel 1996, a 11 anni, è salito per la prima volta su un kart. Fanno 20 anni di carriera, 20 anni e due titoli, quello di Formula Bmw conquistato nel 2002, che gli è valso i primi test premio con la Williams, e quello in Gp2 del 2005, con la Art Grand Prix, prima del grande salto. In Formula 1, da subito, la sensazione di essere velocissimo: un giro veloce alla gara d’esordio con una Williams piccola piccola, poi 15 Gp vinti, 42 podi, 22 pole, zero titoli. A detta di tutti Nico è più forte del padre, ma è Keke l’unico campione di casa.
Non è semplice vincere da figlio d’arte. Damon Hill e Jaques Villeneuve ce l’hanno fatta onorando la memoria dei padri morti. Rosberg deve sconfiggerne uno vivo, e quanto senta questa sfida lo si può capire guardando un video pubblicato sul suo canale YouTube in cui sorride di gioia sincera dopo aver battuto il papà in un rally sul ghiaccio finlandese. Keke ha corso in Formula 1 per otto anni, Nico lo fa da 10; ha preso il via in 114 Gran premi, il figlio in 186; ne ha vinti 5 contro 15. Ma ha finito una stagione davanti a tutti, mentre Nico, finora, non ha mai potuto portare il numero 1 sul musetto. Costretto, prima, a spremere ogni centesimo possibile da vetture non all’altezza, poi schiacciato dalla personalità di un compagno di squadra ingombrante come Lewis Hamilton.
Sono coetanei, e si erano già incrociati in passato. Sui kart la differenza non era così netta. In pista se le davano di santa ragione con Robert Kubica, dividevano i box e le stanze d’albergo. La differenza tra i due l’ha riassunta benissimo Dino Chiesa, il loro team principal alla bmb.com: «Uno di loro ha talento, l’altro è veloce, ma è più un pensatore». L’altro, ovviamente, è Nico. Era così a 15 anni e non è cambiato. È il primo ad arrivare ai meeting con gli ingegneri e l’ultimo ad andarsene. E dopo ogni test, ogni prova, ogni gara, passa ore a studiare le telemetrie per capire cosa è andato bene e cosa meno. Lewis è quello col talento, i capelli ossigenati, i tatuaggi e le fidanzate popstar, Rosberg è marito e padre di famiglia, nel 2014 si è sposato con Vivian, una ragazza tedesca che ha conosciuto quando era ancora teenager, l’anno dopo è nata Alaïa, la loro prima figlia.
La vita di Nico è tutta lì, tra l’appartamento dello stesso condominio di Montecarlo in cui vivono i genitori e Mika Hakkinen, e una casa di Ibiza, dove la coppia ha aperto una gelateria. Nico li vende, ma non li mangia quasi mai. Ne va matto, ma la sua vita da atleta gli impone di seguire una dieta che si sposa molto meglio con le verdure biologiche dell’orto di famiglia.
Tripletta: tre vittorie su tre con il Gp cinese
Un tempo, in questa semplice quotidianità, si affacciava di tanto in tanto anche Hamilton. «Un paio d’anni fa, Lewis veniva ancora a casa mia a mangiare hamburger. Ora non capita più», ha raccontato alla Gazzetta dello Sport. I due vivono ancora nello stesso palazzo del Principato, ma Lewis non c’è quasi mai. E forse è meglio così. Sono bastati tre anni di convivenza alla Mercedes per cancellare una simpatia che proseguiva dalla prima adolescenza. «Nico si lamenta sempre», ha spiegato Hamilton in un’intervista alla Bbc, «ma va bene, fa parte di lui, dipende dai contesti diversi in cui siamo cresciuti»; un po’ come dire: «Lui è un figlio di papà, io mi sono fatto da solo venendo dai quartieri bassi di Londra». Nelle corse non c’è spazio per l’amicizia, solo per dualismi. Quello tra Hamilton e Rosberg assomiglia un po’ a quello tra Hunt e Lauda. Solo che a vincere, stavolta, è sempre il playboy inglese, e a prenderle, sempre, il pilota con il sangue da Nibelungo.
C’è un Gran Premio perfetto per capire cosa passa tra l’essere un pilota veloce e un campione del mondo. Tutta la differenza tra Lewis Hamilton e Nico Rosberg è perfettamente riassunta nei 57 giri del Gp del Bahrein del 2014. Rosberg parte in pole position, ma Hamilton lo supera subito. Poi comincia un duello fatto di sorpassi e controsorpassi. Nico è lì, attaccato a Lewis fino alla bandiera a scacchi, potrebbe finire in qualsiasi modo ma è come se tutto fosse già scritto. Perché Hamilton è uno che non perde questo genere di duelli, e Rosberg uno che non li vince. A quella gara il tedesco era arrivato da primo in classifica, dopo il successo all’esordio in Australia e il secondo posto in Malesia con quasi 18 secondi di ritardo da Hamilton. È forse quel Gp, più di altri, a cambiare il destino dei due. Se Rosberg fosse uscito vincitore dal duello del Bahrein, magari, avrebbe potuto scrivere un’altra storia. Ma è soltanto un se.
Hamilton è insuperabile
«Per me battere Lewis è più bello che battere chiunque altro», ha confessato nella stessa intervista alla Gazzetta. Qualcosa di molto simile a un’ossessione, un desiderio realizzato solo poche volte, solo sporadicamente, la gioia di un weekend evaporata nella delusione di due stagioni da vice campione mondiale.
Nel 2014 c’era andato vicino, aveva 22 punti di vantaggio dopo 13 gare ed è stato condannato dalla matematica solo all’ultimo Gran premio, chiudendo a -67 tradito dalla sua auto in due momenti cruciali, nel Gp di Singapore e in quello di Abu Dhabi. Nel 2015 non c’è proprio stata storia, un Mondiale chiuso con tre gare d’anticipo e la beffa della tripletta di vittorie (non gli era mai successo in carriera) proprio quando non serviva più.
Gli anni dei kart: Hamilton ride e Rosberg, biondissimo, pensa
Nico si è incupito, si è chiuso sempre più in se stesso, proprio quando si sarebbe dovuto compiere il suo percorso di maturazione. Nel 2010, quando approdò alla Mercedes con una macchina da ricostruire, sembrava destinato a essere divorato dalla personalità di Michael Schumacher. Non fu così. Rosberg stravinse il duello col connazionale più illustre in quello che sarebbe potuto essere un passaggio di testimone perfetto, almeno in patria, se non si fosse messa in mezzo l’esplosione di Sebastian Vettel. Sei anni dopo, pur essendosi sistemato con un contratto da 55 milioni a stagione fino al 2017, fa ancora il secondo pilota con ambizioni da prima guida. E il ragazzo che faceva festa nel paddock con i vecchi amici della scuola, quello brillante che rideva e scherzava in italiano come se italiano lo fosse, ha lasciato il passo a un giovane uomo casa e lavoro le cui massime trasgressioni sono un gelato o due calci al pallone tra i motorhome. Il rischio è che si stia affezionando un po’ troppo a quell’essere secondo. Dopo il Gp di Shanghai del 13 aprile 2015 accusò Hamilton di aver rallentato in modo eccessivo, dimostrando di preoccuparsi più della difesa della piazza d’onore che della possibilità di attaccare il leader della corsa. Ma forse il vento sta girando. A fine 2015, dopo essergli arrivato dietro per tre gare di fila, è stato Lewis a protestare per un atteggiamento «troppo affettuoso» del team nei confronti di Nico. E alla prima gara del 2016, in Australia, è toccato ancora una volta al britannico accusare il compagno di scuderia di averlo chiuso facendolo andare largo alla prima curva.
È poco, ancora troppo poco per parlare di inversione di tendenza, ma con le pole di questa stagione Rosberg sta finalmente facendo ciò che gli riesce meglio: schiacciare il pedale senza troppe ansie e paure, senza dover per forza trovarsi in mischia con un avversario che, finora, ha dimostrato di avere le spalle più larghe. È il momento di decidere cosa fare da grande: il campione del mondo o la seconda guida. Se toccare il punto più alto della propria parabola o imboccarne definitivamente il ramo discendente. Restando semplicemente il migliore tra i perdenti nella storia della Formula 1.