Giochi senza frontiere

Il Comitato Olimpico Internazionale ha aperto la strada a una Nazionale che accolga atleti rifugiati sotto un'unica bandiera, colmando un vuoto.

Lo scorso marzo Thomas Bach, che dal 2013 ricopre la carica di presidente del Comitato Olimpico Internazionale, ha annunciato che un totale di 43 atleti sono stati identificati come potenzialmente arruolabili per partecipare alle prossime Olimpiadi di Rio in una squadra che riporterà il nome di Roa – Team of Refugee Olympic Athletes. Bach ha sostenuto che la scelta è «dovuta alla volontà di inviare un messaggio di speranza a tutti i rifugiati del mondo, attraverso una rappresentativa che sfilerà sotto la bandiera Olimpica». Una squadra che, sempre nelle parole di Bach, «sarà trattata come qualsiasi altra», con il Comitato Olimpico che si farà carico degli oneri di spesa legati alla logistica degli atleti. La grossa novità risiede nel fatto che sportivi non rappresentanti alcuna Nazione avranno la possibilità di competere nelle gare olimpiche, uniti sotto un’unica bandiera, il prossimo cinque agosto nel grande cuore circolare del Maracanã.

Prima dei Giochi Olimpici Intermedi del 1906 ­– edizione tenutasi tra la III e la IV Olimpiade, organizzata per celebrare il decimo anniversario del ripristino dei Giochi – l’ingresso non era limitato alle squadre nominate dai Comitati Olimpici Nazionali (Noc). Rappresentative a nazionalità mista hanno gareggiato in alcune competizioni di squadra, mentre partecipanti a singoli eventi sono stati poi accreditati retrospettivamente alla nazionalità del tempo. Durante i Giochi del 1992, sia invernali che estivi, atleti della Repubblica Federale jugoslava avevano partecipato come indipendenti. La Jugoslavia era stata esclusa come effetto delle sanzioni votate dall’Onu, e il Comitato Olimpico decise di concedere la possibilità di partecipare individualmente ad alcuni atleti (Sekaric, Binder e Pletikosic) che arrivarono a vincere una medaglia. Discorso simile per quella macedone, con rappresentanti dello stato neonato che parteciparono nonostante il Comitato Olimpico Nazionale non fosse ancora stato formato dopo la separazione dalla stessa Jugoslavia. A Londra 2012 gli sportivi definiti indipendenti furono quattro, come Guor Marial, maratoneta sudsudanese che non poté gareggiare sotto la bandiera del Sud Sudan in quanto stato ancora privo di un Comitato Olimpico Nazionale. L’atleta, essendosi rifiutato di gareggiare per il Sudan, si trovò a competere come Atleta Olimpico Indipendente. Dopo la dissoluzione delle Antille Olandesi e il successivo ritiro del Comitato Olimpico Nazionale del paese, a tre partecipanti fu permesso di presentarsi ai Giochi, autorizzati a competere anche loro in modo indipendente. A dispetto di queste misure, che potremmo definire “straordinarie”, l’attuale scelta di istituire una vera e propria Nazionale unificata sotto lo stendardo Olimpico, è rappresentativa di una volontà programmatica rispetto alla questione rifugiati.

LONDON, ENGLAND - AUGUST 12: (From bottom) Guojian Dong of China, Zicheng Li of China, Guor Marial of Independent Olympic Athletes, Duhaeng Lee of Korea and Aleksey Reunkov of Russia are cheered along by spectators as they compete in the Men's Marathon on Day 16 of the London 2012 Olympic Games on the streets of London on August 12, 2012 in London, England. (Photo by Ezra Shaw/Getty Images)
Guor Marial in azione durante le Olimpiadi di Londra 2012 (Ezra Shaw/Getty Images)

Per quanto riguarda il Team of Refugee Olympic Athletes, il numero finale di rifugiati coinvolti varierà secondo criteri di qualificazione, il che dovrebbe portare a una scrematura finale di 5/10 atleti, secondo quanto dichiarato dallo stesso Bach. Il punto non è tanto quanti parteciperanno, o quanti porteranno a casa una medaglia, ma la possibilità che organi di governo sportivo aprano le porte a una realtà strutturata sotto un’unica bandiera, riconosciuta come una Nazione a sé stante. È un evento a suo modo campale in un momento storico in cui sulla questione rifugiati non è più possibile voltarsi dall’altro lato, fingendo che sia un problema secondario. Riconoscere quella dei rifugiati come una realtà concreta, significa riconoscere, potenzialmente, un bacino di milioni di atleti uniti sotto un’unica bandiera, nonostante distanze geografiche spesso imponenti. Una scelta simbolicamente forte a dispetto di un problema ancora grave. Il Comitato Olimpico si farà carico dei costi relativi a trasporti,  divise, allenatori e, come per tutti gli altri atleti, permetterà ai componenti della rappresentativa di alloggiare all’interno del villaggio Olimpico.

South Sudanese refugees from Kakuma refugee camp train on March 16, 2016 at the Ngong hills outside the capital Nairobi. High up in Kenya's rugged Ngong Hills, refugees sprint around an athletics track in intensive training they hope will see them selected for a unique team for the Rio Olympics. Hand-picked from Kenya's vast refugee camps -- including Dadaab, the biggest in the world -- to join the training camp just outside Nairobi, the athletes here have their eyes set on racing in Rio de Janeiro in August. / AFP / Simon MAINA / TO GO WITH AFP STORY BY AILEEN KIMUTAI (Photo credit should read SIMON MAINA/AFP/Getty Images)
Rifugiati del Sud Sudan mentre si allenano nel centro di Kakuma (Simon Maina/Afp/Getty Images)

Anche se le Nazioni Unite considerano la nazionalità come un diritto umano fondamentale, si stima che ci siamo circa dieci i milioni di persone in tutto il mondo senza nazionalità. La maggior parte di questi uomini proviene da zone di guerra lacerate da conflitti che li estirpano dai propri luoghi d’origine; zone dai confini che si fanno via via più liquidi e aleatori lasciando la gente nell’incertezza più assoluta. Se è vero che siamo potenzialmente di fronte a milioni di apolidi, secondo quanto riportato dall’Unhcr, quanti tra questi potrebbero ritrovare un senso alla propria esistenza sotto la bandiera di una Nazionale Olimpica di Atleti? Fino a ora i Giochi hanno rappresentato soltanto un’ ulteriore estensione del problema, impedendo o non prevedendo per questi ultimi la possibilità di partecipare alle gare. Un problema minore rispetto alla gravità della questione rifugiati, ma per un evento che dovrebbe rappresentare il momento emblematico di un’ assoluta unificazione dei popoli, rappresentava una mancanza che andava in ogni modo rimossa. A seguito dell’approvazione dell’agenda olimpica 2020, il Cio, analizzando attentamente la questione rifugiati, ha stanziato un fondo speciale da 2 milioni di dollari, in collaborazione con i Comitati Olimpici Nazionali.

(FILES) - A file picture taken on August 8, 2011 shows Turkana women and children waiting for supplimentary feeding for infants at a relief and health centre in Kakuma, Turkana District, northwestern Kenya. Tens of thousands of refugees living in urban areas in Kenya must return to remote and overcrowded camps, the government said on December 18, 2012, demanding all aid be cut off outside the camps. AFP PHOTO / SIMON MAINA (Photo credit should read SIMON MAINA/AFP/Getty Images)

Dei quarantatré preselezionati, di età compresa tra i 17 e i 30 anni, più della metà sono stati scelti nel campo d’accoglienza di Kakuma, nel nord ovest del Kenya e a circa novanta chilometri da quel lembo devastato di terra che è il Sud Sudan. Tra tutti, sono quattro quelli che hanno le possibilità maggiori di prendere parte ai prossimi giochi di Rio 2016. La prima è Yusra Mardini, una nuotatrice siriana di soli diciotto anni che la scorsa estate si è salvata da un naufragio nel mar Egeo dopo aver nuotato per oltre 3 miglia. Fuggita da Damasco per Beirut insieme alla sorella Sarah, per transitare da Istanbul a Izmir nel tentativo di raggiungere l’isola greca di Lesbo in gommone, si è ritrovata in acqua con gli altri venti passeggeri dopo la rottura del motore dell’imbarcazione. Yusra, Sarah e un’altra donna sono riuscite a spingere il gommone fino a raggiungere la riva, dopo aver nuotato per oltre tre ore. La ragazza siriana ha poi dichiarato in una conferenza stampa a Berlino – Yusra vive e si allena ora in Germania, ndr – che «sarebbe stata una vergogna se fossi annegata in mare. Insomma, sono pur sempre una nuotatrice». Da allora odia il mare aperto, ma ad agosto avrà la possibilità di dare un ennesimo twist al plot della propria esistenza. Secondo il suo allenatore, Sven Spannekrebs, Yusra è uno di quei role model a cui le generazioni future dovrebbero guardare con passione. Una ragazza con degli obiettivi e una vita organizzata intorno al raggiungimento di questi ultimi. Quando in conferenza stampa le fanno notare che l’applicazione incrollabile con cui approccia il lavoro sembra quasi teutonica, Yusra scuote la testa contestando che «siamo così in Siria!».

BERLIN, GERMANY - MARCH 09: Yusra Mardini of Syria during a training session at the Wasserfreunde Spandau 04 training pool Olympiapark Berlin on March 9, 2016 in Berlin, Germany. (Photo by Alexander Hassenstein/Getty Images for IOC)
La siriana Yusra Mardini durante una sessione d’allenamento all’ Olympiapark di Berlino (Alexander Hassenstein/Getty Images for Ioc)

Raheleh Asemani, in un giorno di tre anni fa diverso dagli altri, è fuggita dalla sua Teheran (dove è nata nel 1989) per raggiungere il Belgio. Raheleh non ha mai rivelato i motivi della fuga dall’Iran, ciò che sappiamo è che ha lasciato alle proprie spalle gran parte della famiglia in cui è cresciuta per trovare un attracco più calmo e sicuro. Ora fa la postina e si allena con la Nazionale belga di taekwondo. Per un profugo quello delle Olimpiadi è un miraggio che può concretizzarsi soltanto grazie al supporto delle federazioni locali. Asemani ha avuto il reale terrore di non poter partecipare ai Giochi. Durante le qualificazioni non ha potuto rappresentare quella che percepisce come la sua Nazione e, inizialmente, sembrava potesse prendervi parte soltanto grazie a una deroga. «Devo tutto al Belgio», ha dichiarato in un’intervista per Associated Press, «mi sono allenata duramente in Belgio. Tutto andava bene per me. Cosa può esserci di più bello che avere un paese da rappresentare alle Olimpiadi? Per la stragrande maggioranza dei concorrenti, la Nazione è un dato di fatto. Ma per i rifugiati, la mancanza di quest’ultima può significare una rapida fine della carriera internazionale». La scelta del Cio ha permesso ad Asemani di assaporare il piacere intenso delle gare olimpiche, partecipando sotto il drappo accogliente di una Nazionale che è pregna di speranze e utopie. Nel frattempo, aiutata da sua zia, è riuscita a rimanere in Europa, si è trasferita ad Anversa, e ha ottenuto la cittadinanza belga. I suoi dati restituiscono la diapositiva di un’atleta dai tratti duri e determinata a vincere: su 38 incontri ne ha vinti 25, e una volta trovata nuova serenità potrebbe addirittura competere per una medaglia.

Asemani mentre si racconta tra un momento sul Tatami e un attimo di svago.

Tra coloro che potrebbero partecipare ancora alla kermesse olimpica ci sono anche Popole Misenga e Yolande Mabika. Entrambi congolesi, hanno chiesto asilo in Brasile durante i campionati di judo del 2013: arrivati senza conoscere una parola di portoghese, o avere alcuna idea delle leggi in materia di asilo, erano consapevoli, però, che quella fosse la loro unica occasione per fuggire da un paese lacerato e da un conflitto che ha causato già più di 5 milioni di morti e per allontanarsi da storie che non potevano più essere tollerate, come di allenatori che ti rinchiudono in una stanza quando perdi senza darti da mangiare per due giorni. «Ho visto troppa guerra, troppa morte», ha detto Misenga a un’intervista al Guardian «voglio soltanto rimanere pulito e poter competere nel mio sport». Entrambi provengono da Bukavu, nella parte orientale della Repubblica Democratica del Congo, l’area più colpita dal conflitto più sanguinoso nella storia africana moderna. «Competere alle Olimpiadi potrebbe cambiare le nostre vite», ha detto Mabika. Se lottare per sopravvivere è un cliché che suona stonato e stanco, Misenga e Mabika hanno davvero una possibilità di emergere dal sostrato limaccioso fatto di povertà e scarpe prese dalla spazzatura.