Prepararsi alle finali di Conference

Nella notte partono gli atti conclusivi di Est e Ovest: cosa c'è da sapere sulla sfida tra Warriors e Thunder e su quella tra Cavaliers e Raptors.

In netta controtendenza rispetto allo small-ball imperante, l’estate scorsa San Antonio rimpolpò la propria front-line con Aldridge e David West in un’operazione così azzeccata che la Finale di Conference tra Spurs e Warriors era parsa l’ineludibile epilogo di stagione. Avevamo però fatto i conti senza gli Oklahoma City Thunder, che, per ironia del destino, hanno battuto gli Spurs usando le loro stesse armi: difesa, centimetri, e doppio lungo in campo, regalandosi così una Finale di Conference pronosticata da pochi.

La rotazione sotto canestro di OKC (Steven Adams, il candidato sesto uomo dell’anno Enes Kanter e il preziosissimo Serge Ibaka) ha tenuto botta con i pari ruolo nero-argento e ha tolto ossigeno agli esterni texani, negando linee di penetrazione e di passaggio, esponendo così i limiti delle guardie di Gregg Popovich, costrette spesso a cercare avventure mal consigliate, per età (Ginobili e Parker) o per talento (Mills e Green). Questi Spurs (67-15) si aggiungono al novero delle squadre con più vittorie a non aver raggiunto la Finale, assieme ai Boston Celtics del 1973 (68-14) e ai Dallas Mavs del 2007 (67-15 per poi squagliarsi al primo turno in uno psicodramma che ha segnato a lungo la carriera di Dirk Nowitzki). Si sono arresi a una formazione che è sembrata averne nettamente di più, e così ora saranno i Thunder a giocarsi le proprie carte in una Finale di Conference (la quarta in sei anni) assai intrigante e nient’affatto scontata.

Valga gara 5 contro gli Spurs: l’importanza sotto canestro di Adams e Kanter

Sarà un confronto tra la “trendissima” California e l’Oklahoma (un po’ meno trendy, per quanto le mises di Westbrook contribuiscano a riequilibrare il confronto), tra il pubblico caldissimo della Oracle Arena e quello ancor più rumoroso della Chesapeake Energy Arena, con tante sfide nella sfida: le sceneggiate di Green contro quelle di Westbrook, lo stile di tiro di Durant contro quello di Thompson, e chi più ne ha più ne metta, in una lotta stellare che non ci lascerà certo senza argomenti.

I Warriors hanno avuto quattro giorni pieni per recuperare gli infortunati (Curry, Green e Bogut) ma rischiano l’effetto ruggine (quando restano fermi per 4 giorni, le loro percentuali passano dal 48.7% dal campo al 44.7%, e dal 41.6% da tre al 34%). Hanno però il vantaggio di giocare le prime due partite a Oakland, ma questa sarà con tutta probabilità una serie lunga, che metterà alla prova la tenuta atletica delle due squadre, e di conseguenza G-State, in grado di ruotare più uomini, potrebbe ricavarne un vantaggio prezioso.

I Thunder di questi Playoffs sono una squadra per certi versi inedita, molto più corale rispetto al gruppo incerto che i Warriors hanno battuto 3-0 in regular season. Billy Donovan ha portato magistralmente a termine una rivoluzione silenziosa che ha lentamente trasformato l’eterna incompiuta di Scott Brooks in una formazione compatta, giunta all’appuntamento più importante dell’anno con tanta inerzia favorevole da aggiungere alla dominanza offensiva garantita della ditta Durant & Westbrook, le due stelle che vogliono a tutti i costi vendicare la sconfitta in Finale del 2012, e forse oggi, per la prima volta, hanno davvero la squadra giusta per farlo.

Dopo il 73-9 compilato in Regular Season, l’approdo di Golden State alle WCF era dato quasi per scontato, ma i ragazzi di Kerr hanno dovuto faticare più di quanto dica l’esito delle serie contro Blazers e Rockets (chiuse ambedue sul punteggio di 4-1), complice l’assenza di Stephen Curry (infortunatosi a ginocchio e caviglia, ha saltato 6 partite a cavallo tra la serie contro Houston e quella con Portland). La guardia di Akron è rientrata in gara 4 contro i Blazers, mettendo a referto una prestazione memorabile. A impressionare non sono tanto i 40 punti, 8 assist e 9 rimbalzi (con 17 punti in overtime!), quanto il modo in cui sono arrivati: dopo un inizio balbettante, Curry è salito di colpi cercando canestri in verniciato, e poi piazzando le ultime pugnalate da dietro l’arco, in un crescendo wagneriano che ha zittito il Moda Center e lasciato di stucco gli avversari, legittimando ancor di più il secondo MVP consecutivo. Steph può far innamorare per le triple, ma l’altra faccia della medaglia è la capacità di seminare il panico nelle difese avversarie grazie ad un’abilità dal palleggio unica. Non basta? Può giocare anche lontano dalla palla facendo catch-and-shoot, oppure aiutarsi con un blocco di Draymond Green o Bogut. Insomma, ce n’è abbastanza da far venire un bel mal di testa a Donovan, che dovrà provare a inventarsi l’alchimia giusta per limitarlo, una ricetta che da due anni tutti cercano e nessuno riesce a trovare. I Warriors però non sono solo Curry però; senza Steph, il resto del gruppo è salito di colpi, da Shaun Livingston (chiamato a sostituirlo nello starting five di Steve Kerr) al sorprendente Ian Clark, confermando così che la forza di questa squadra non risiede solo nell’individualità o nel tiro da tre, quanto nell’ecclettismo e nella resilienza dell’intero, profondissimo roster.

I 40 punti di Curry in gara 4 contro Portland

Sarà una sfida tra grandi attacchi (G-State vanta la miglior Offensive Efficiency, e OKC è seconda) che metteranno alla prova gli eccellenti impianti difensivi e la sagacia tattica dei coaching staff, chiamati a disinnescare tanti solisti di livello assoluto (basti dire che saranno contemporaneamente in campo i tre migliori realizzatori delle ultime tre stagioni). Dal tiro senza peso di Kevin Durant alle penetrazioni furibonde di Westbrook, dalle triple impossibili di Steph Curry a quelle di Klay Thompson, si apparecchia una serie di qualità sopraffina, giocata con grande intensità e allenata da due eccellenti head-coach. Da una parte, Billy Donovan e la sua quasi ventennale esperienza sulla panchina di Florida University (due titoli NCAA, nel 2006 e 2007), che con buonsenso e acume, ha reinventato i Thunder senza sconvolgerli, e dall’altra, Steve Kerr, fresco Coach of the Year e campione NBA da rookie (2015).

Sul parquet invece, il proscenio se lo prenderanno Russell Westbrook e Steph Curry. Sono i due giocatori NBA ad aver segnato più punti per possesso in entrata, point-guard atipiche e diversissime: Curry gioca di fioretto e tecnica, Westbrook è una forza della natura lanciata a canestro. Entrambi però, sono accomunati dalla centralità nel gioco offensivo delle rispettive formazioni. In regular season Russ ha faticato contro la difesa disegnata da Ron Adams, perfidamente abile nel ritorcergli contro la tendenza a essere sempre e comunque un giocatore nord-sud. Marcato da Curry o da Klay Thompson ha segnato con il 32% dal campo (9-28); certo, Westbrook continua ad assistere un irreale 49% dei canestri di squadra e “usa” il 34.6% dei possessi di OKC, ma contro G-State servirà più varietà, e in questo senso, lo storicamente ondivago Dion Waiters dovrà confermare quanto di buono mostrato nella serie con San Antonio. La guardia ex-Cavs sta viaggiando con il 45.6% dal campo e il 41.2% da tre in 24.7 minuti d’impiego. Waiters è una pedina preziosa sullo scacchiere tattico di coach Donovan, perché, alle spalle di Durant e Westbrook, è l’unico giocatore del roster capace di costruirsi dei canestri direttamente dal palleggio (i Warriors, al contrario, hanno solo l’imbarazzo della scelta) e, se riuscirà a rimanere coinvolto e aggressivo, il suo contributo dalla panchina potrebbe far pendere l’ago della bilancia dalla parte di OKC. Avevamo avuto gioco facile nell’anticipare che una post-season all’altezza sarebbe necessariamente passata per le mani dei comprimari, e la vittoria contro i San Antonio Spurs reca in calce i nomi di Dion Waiters, Steven Adams, Enes Kanter e Andre Roberson, giocatori di ruolo che sono saliti di colpi quando contava, arrivando sempre primi su ogni fifty-fifty-ball, mettendo canestri importanti e dimostrando una maturità cestistica sorprendente, se letta alla luce di una stagione regolare che aveva dato indicazioni di segno opposto.

Portland Trail Blazers v Golden State Warriors - Game Five

Con così tanti grandi attaccanti capaci di segnare canestri a grappoli, quella tra Thunder e Warriors sarà con ogni probabilità una serie di parziali e contro-parziali. OKC ha un vantaggio atletico e fisico rispetto ai rivali, mentre i Dubs hanno dalla loro più qualità pura, una panchina profonda, e grande capacità d’esecuzione; come sempre, G-State proverà a correre e allargare il campo, ma sono i primi a rendersi conto che «puoi fare tutto perfettamente, ma loro sono in grado di segnare lo stesso, come ha rimarcato Steve Kerr: «Traboccano talento, sono tosti, e stanno giocando bene». OKC cercherà di metterla sul piano della fisicità, controllando i tabelloni (oltre ai lunghi c’è anche Russell Westbrook, che ne sta catturando 6.8 ad allacciata, e li usa per lanciarsi in contropiede) e ostruendo le linee di passaggio grazie alle braccia chilometriche di Ibaka, Durant, e soprattutto di Andre Roberson, il miglior difensore puro sugli esterni di tutto il roster, che marcherà (e probabilmente sarà marcato da) Steph Curry. La guardia da Colorado viene dalla miglior prestazione offensiva in carriera (5-8 dal campo per 14 punti) ma in 11 partite di Playoffs ha segnato 3.4 punti ad allacciata, col 38.9% dal campo e un raggelante 21.1% da tre, e non è escluso che Kerr, all’evenienza, decida di riservargli addirittura il “servizio Tony Allen”, consegnandolo a Andrew Bogut, che, di fatto, lo ignorerà.

Trattamento assai diverso sarà invece quello riservato a Kevin Durant, diventato talmente bravo nel suo ruolo da “killer silenzioso” che si rischia di sottostimarne l’impatto. Sarà con tutta probabilità marcato dalla staffetta tra Harrison Barnes e Andre Iguodala, che gli rendono parecchi centimetri, ma possono stare con lui e costringerlo a ricezioni complesse. Per OKC sarà vitale vincere nettamente la sfida in ala piccola, così da costringere la difesa dei Warriors ad aiutare e togliere un po’ di pressione dalle spalle di Westbrook. Questa ha tutta l’aria d’essere la serie che stabilirà definitivamente lo status di Kevin Durant nel firmamento delle stelle NBA. È una superstar del livello di LeBron e Curry, o dovrà accontentarsi di essere ricordato come “lo sfidante” di entrambi?

La chiave tattica della serie per Golden State sarà riuscire a scardinare la difesa interna dei Thunder, e per riuscirci occorrerà essere pericolosi al tiro (in linea col 40.7% da tre tenuto finora), sul pick-and-roll, e battere con continuità l’uomo dal palleggio, costringendo così la difesa a un lavoro di aiuto-e-recupero che non è congeniale alle caratteristiche dei lunghi di Oklahoma City. Il coaching staff dei Warriors è preoccupato soprattutto dai rimbalzi. Nella serie contro San Antonio, lo schieramento con Kanter, Adams e Durant ha catturato la bellezza di 22.8 rimbalzi offensivi su 48 minuti e il 70% abbondante dei rimbalzi difensivi; se ripetute contro Golden State, queste cifre impedirebbero agli Splash Brothers di correre, contribuendo a portare la sfida sui binari dei Thunder. Steve Kerr e il suo vice Luke Walton potrebbero optare per lo schieramento a cinque esterni (Green da centro e Andre Iguodala da “four”) per tentare di costringere Donovan a levare almeno uno dei suoi lunghi, ed è certamente probabile che vedremo prima o poi almeno degli spezzoni di small-ball vera e propria.

Per l’ex allenatore di Florida il problema è speculare, poiché non ha il personale adatto per abbassare più di tanto il quintetto senza snaturarsi, e quindi dovrà trovare il modo per tenere in campo Adams e Kanter (o più probabilmente Ibaka, che è un difensore migliore, per quanto non sia al meglio) anche contro cinque esterni tutti capaci di aggredire la difesa in uno-contro-uno. Il rischio che corre OKC è di veder vanificata la propria supremazia a rimbalzo dall’impossibilità di tenere in campo la propria front-line, sulla quale si basa l’intero edificio difensivo di Donovan; al netto degli accorgimenti tattici, però, questa è una sfida tra due squadre complete e mature, costruite secondo filosofie opposte, che proveranno a prevalere senza stravolgere il proprio gioco.

Forse la partita più bella dell’intera regular season?

A Est

La Finale della Eastern Conference sarà invece decisamente meno ricca di pathos; le contendenti sono Cleveland, l’ovvia favorita del pronostico, e i Toronto Raptors, giunti a quest’appuntamento per la prima volta nella loro storia, dopo due gare 7 contro Indiana e Miami. Separate da una sola vittoria in regular season, Raptors e Cavs sono in realtà formazioni di caratura completamente diversa, e se un upset da parte dei canadesi pare un’ipotesi remota, non è detto che questo gruppo, trascinato da un pubblico galvanizzato (dopo Gara 7, qualche sconsiderato si è addirittura messo a cantare “we want Cleveland”!), non possa perlomeno dare del filo da torcere a LeBron James, che fin qui ha passeggiato sia contro Detroit che contro Atlanta, entrambe agevolmente superate per 4-0.

La formazione diretta da Masai Ujiri (aveva raggiunto lo stesso traguardo anche ad Ovest, con i Denver Nuggets del 2009, battuti dai Lakers che sarebbero poi diventati campioni NBA) ha stentato a trovare la via del successo, complici le prestazioni non troppo convincenti degli All Star Kyle Lowry e DeMar DeRozan (stanno tirando con il 35% dal campo), ma in qualche modo sono riusciti ad abbarbicarsi fino alle Finali di Conference, e ora – lo ha detto anche coach Dwane Casey – possono giocarsela senza pesi e responsabilità, perché, da ESPN a Sports Illustrated, nessuno, ma proprio nessuno, gli dà una chance contro LBJ, Irving, Love e compagnia. Cleveland è ferma da nove giorni, che in una logica NBA sono un’eternità, mentre Toronto è esaltata dallo scampato pericolo contro quelli di South Beach: sono fattori da non sottovalutare soprattutto nei primissimi episodi della serie, ma, anche con i migliori Lowry, Carroll, Biyombo e DeRozan, sembrano mancare i presupposti per poter pronosticare una sfida dal risultato finale in discussione.

Toronto ha segnato 97.1 punti contro una Miami falcidiata dagli infortuni (tanto che il centro l’ha fatto Justise Winslow), segnando appena 43 triple in sette gare (col 29%), aiutandosi anche con tre supplementari. Cleveland ha rifilato il cappotto agli Hawks segnando 111.3 punti a serata, mettendo 77 triple (record NBA, con un incredibile 46%), e anche questo aiuta a mettere la Finale di Conference nella giusta prospettiva. Come se non bastasse, mancherà il centro Jonas Valanciunas, infortunatosi alla caviglia e sostituito da Bismack Biyombo, che dinanzi ai nani di Miami è sembrato Dikembe Mutombo, ma avrà vita assai meno facile contro la fisicità di Cleveland. Il centro lituano stava giocando benissimo, e sarebbe tornato assai utile per mettere pressione sulla front-line di Cleveland, che si è assestata su una rotazione a tre con Tristan Thompson, Channing Frye e Kevin Love.

Certo, in stagione regolare Toronto avrà pure battuto due volte i Cavs, ma come ha sottolineato LeBron «Siamo una squadra completamente diversa da quella della regular season». In effetti James, Love e Irving non hanno mai giocato così bene tra loro e con i compagni, e per vincere non dovranno fare nulla di particolare, ma solo continuare a macinare basket come nelle precedenti otto partite, durante le quali James si è potuto permettere di segnare solo 23.5 punti, forte di una squadra talentuosa ed equilibrata, distantissima dalla one-man-band che l’anno scorso lo costrinse agli straordinari. I Raptors proveranno a dar fastidio a LBJ con DeMarre Carroll (che in stagione regolare l’ha tenuto al 37.5%), Lowry cercherà di aggredire il più possibile Kyrie Irving e lo stesso farà DeRozan, chiamato alla serie della vita.

27 punti e 8 triple per Kevin Love in gara 4 contro Atlanta

Sarà interessante seguire Kevin Love, sbertucciato dopo un 2014-15 largamente insufficiente, spesso dato per partente e accusato neppure troppo velatamente d’essere l’anello debole del sistema di David Blatt prima e di Lue poi. In questa post-season sta segnando 19.8 punti conditi da 13.1 rimbalzi, ma con Love il problema non è mai l’attacco, quanto la difesa: dovrà affrontare un giocatore molto più mobile di lui come Patrick Patterson, e uno più alto e potente come Biyombo, e se riuscirà a mascherare i propri limiti (altezza e velocità non irresistibili), le sue incredibili doti offensive faranno il resto, risucchiando il centrone congolese a sette metri dal ferro, oppure affrontando Patterson spalle a canestro.

 

Nell’immagine in evidenza, Stephen Curry fronteggia Kevin Durant alla Chesapeake Energy Arena lo scorso 27 febbraio (J Pat Carter/Getty Images)