La trasformazione dimenticata

Dieci anni fa Frank Rijkaard vinceva la Champions con il Barcellona, inaugurandone il ciclo di successi. La sua storia da tecnico, terminata in fretta.

Frank Rijkaard

«Con gente come Frank Rijkaard non si vincerà mai niente». Così parlò Aad de Mos all’indomani della clamorosa eliminazione dell’Ajax al secondo turno di Coppa Uefa, per mano dei praghesi del Bohemians, il 7 novembre 1984. L’allora tecnico ajacide non intendeva tanto mettere in discussione le qualità tecniche dell’allora 22enne centrocampista, quanto la sua attitudine mentale, ritenuta troppo fragile per poter sfondare ai livelli più alti. Un doppio abbaglio, come dimostrato dai 28 trofei messi in bacheca da Rijkaard nelle sue carriere di giocatore e allenatore tra Ajax, Milan, Barcellona e Olanda. Questione di atteggiamento, non di carattere. A differenza del collega-amico-compagno d’infanzia Ruud Gullit (i due si conoscono fin dalla giovane età, quando trascorrevano lunghi pomeriggi a giocare a calcio sui campetti di asfalto del Balboaplein, Amsterdam ovest), Rijkaard ha sempre amato agire per sottrazione. Meno appariscente in campo, meno protagonista davanti ai microfoni, nessun alone iconico da guru della panchina. Un anti-personaggio dimenticato troppo presto, nonostante da tecnico abbia lasciato nel calcio un’impronta che nessuno dei suoi colleghi della generazione ‘88 (quella dell’Europeo oranje) può vantare. Né Ronald Koeman, tuttora sulla cresta dell’onda e ottimo artigiano di realtà minori, né Marco van Basten, tantomeno il già citato Gullit, teorico di quel sexy football che già a partire dal nome denotava il vuoto pneumatico alla base di tale – presunta – filosofia.

intervento di Rijkaard su Puyol
Un curioso intervento di Rijkaard su Puyol durante un allenamento a Old Trafford (Andrew Yates/AFP/Getty Images)

L’etichetta corretta per il Rijkaard-allenatore è quella di seminale. Come i Pixies per il grunge o i Cocteau Twins per lo shoegaze, lui è stato il precursore di quel salto quantico – ovvero quell’osmosi tra pressing e possesso palla mai vista prima a livelli simili – compiuto dal Barcellona di Guardiola, e mirabilmente raccontato da Sandro Modeo nel suo libro “Il Barça”. Nella catena Michels-Cruijff-Van Gaal-Rijkaard-Guardiola-Luis Enrique che ha trasformato la società Barcellona nel brand Barcellona – con tutto ciò che ne consegue dal punto di vista sportivo, filosofico, gestionale, politico e culturale – Frank appare l’anello più debole. Invece rappresenta il livello base di un’infrastruttura che agisce da collegamento tra passato e contemporaneità, l’elemento capace di ripristinare quel legame simbiotico tra club, giocatori e tifosi che costituisce l’humus capace di rendere il Barcellona davvero més que un club rispetto a rivali altrettanto blasonati. A volte per ricostruire non servono i visionari, bastano persone dotate di buona volontà, idee chiare e coraggio. Una dote, quest’ultima, di cui non erano sprovvisti Joan Laporta e la nuova dirigenza blaugrana quando, nel 2003, si trattò di scegliere l’allenatore per inaugurare un nuovo corso che avrebbe dovuto interrompere il digiuno di successi del club – a secco nella Liga da 4 anni e in Champions dal 1992, anno della punizione a 188 km/h di Ronald Koeman contro la Samp – e decisero di ascoltare Cruijff optando per un disoccupato reduce da una rovinosa retrocessione in Olanda alla guida di un club storico, e fino a quel momento sempre presente in Eredivisie, quale lo Sparta Rotterdam.

Frank Rijkaard  e Henry
Con Henry nel 2008, stadio Riazor (Denis Doyle/Getty Images)

Coraggio però è una parola che non è mai rimasta aliena nemmeno dal vocabolario di Rijkaard, che per esordire da allenatore aveva scelto la panchina più bollente in circolazione: quella dell’Olanda alla vigilia degli Europei casalinghi. Ciò significava far coincidere il proprio reale battesimo da allenatore con il debutto dei tulipani nella manifestazione, dopo un’estenuante serie di amichevoli – saranno diciassette in totale, tra cui un 5-5 contro il Belgio che provocò il caustico commento di Leo Beenhakker «l’Olanda di Rijkaard pratica beach soccer sull’erba» – dal valore sempre molto relativo. Impatto tosto per un ex campione che poteva vantare solo un paio di esperienze come vice-allenatore, la prima come stagista per due mesi nell’Utrecht, la seconda da assistente di Guus Hiddink a Francia 98. L’epilogo di Euro 2000 è storia di dominio pubblico: l’Italia in semifinale da sfavorita contro un’Olanda in netta crescita (i tulipani arrivavano da un 6-1 rifilato nei quarti alla Jugoslavia), l’espulsione di Zambrotta dopo mezz’ora di gioco, le grandi parate di Toldo, il calcio di rigore che diventa la psicosi collettiva di un’intera nazione, quella olandese, che assiste i suoi beniamini sbagliarne cinque su sei. La sera della finale, Rijkaard se ne era già andato: «Quando un allenatore non è capace di insegnare ai propri uomini come calciare i rigori», sono le sue parole di commiato, «è meglio che si faccia da parte». Ha perso senza perdere, e fa ancora più male. Tra i c.t. olandesi post-Michels (quindi dal 1994 in avanti), Frank vanta la più bassa percentuale di sconfitte complessive (9.09%), quella più alta di vittorie in campionati Europei/Mondiali (80%), nonché la media-reti più elevata (2,60 a partita, sempre considerando esclusivamente i grandi tornei). Ma l’ombra lunga undici metri di Francesco Toldo è destinato a coprire per sempre qualsiasi numero.

La resa di Rijkaard a Euro 2000 passa dai guanti di Toldo

Riprendendo il libro di Modeo, si legge che Rijkaard in Catalogna ha eliminato le scorie di una filosofia “isterica, narcisistica e vittimistica”. L’isterismo lo aveva conosciuto bene a Rotterdam, sponda Sparta, in una squadra impantanata sin dalle prime battute nelle sabbie mobili della zona retrocessione, finanziariamente allo stremo e progressivamente intimidita da un tifo che non faceva sconti. A Rijkaard consigliarono di togliere il disturbo recapitandogli a casa una busta anonima contenente un proiettile. Lo farà a fine campionato, dove aver utilizzato 31 giocatori (tra cui un Aron Winter in età da pensione) in 34 partite ed aver piazzato lo Sparta davanti al solo, derelitto Fortuna Sittard, ma addirittura superandolo per numero di reti (75) incassate. Non il miglior biglietto da visita da esibire il giorno della sua presentazione al Camp Nou. Rijkaard in realtà era la terza scelta di Laporta dopo Hiddink e Koeman, ma a volte le storie migliori nascono da un rifiuto o da un mancato incrocio. L’ex nazionale oranje inizia male, in linea con la sua esperienza in Eredivisie, con i blaugrana rapidamente scivolati nelle retrovie a 17 punti dalla capolista Real Madrid, e i tifosi in subbuglio che invocano il cambio della guida tecnica. Rijkaard, lontano dalla vis polemica di Van Gaal che generava epiche conferenze stampa, inverte la rotta della stagione con due mosse: passaggio dal 4-2-3-1 al 4-3-3 e acquisto, nel mercato di gennaio, di Edgar Davids. Il risultato è una clamorosa remuntada che porta i blaugrana a vincere 17 delle ultime 20 partite, sufficienti però solo per un onorevole secondo posto a 5 lunghezze dal Valencia campione.

Barcelona Frank Rijkaard

Ma la linea è tracciata e, con la panchina fattasi più salda, l’olandese può completare l’opera di rinnovamento della rosa iniziata l’estate precedente. Particolarmente massiccia è la de-olandesizzazione della squadra che, dopo l’addio a Frank de Boer nel 2003, saluta Cocu, Kluivert, Davids, Overmars e Reiziger. I giocatori in entrata, da Deco a Larsson, da Eto’o a Giuly fino a Edmilson e Belletti, sono tutti pedine fondamentali nel garantire la funzionalità di un sistema a dispetto della presenza di una stella, Ronaldinho, che è tutto fuorché funzionale ad esso. Proprio la cura nell’assemblaggio di un ensemble in grado di supportare (e sopportare) al meglio un fuoriclasse anarchico e dedito alla più pura improvvisazione come il brasiliano, rappresenta il valore aggiunto della semina tattica di Rijkaard. Nel 2004/05 nasce la dorsale Marquez-Xavi-Deco, con la freschezza di Iniesta quale prima risorsa da estrarre dalla panchina, e ai margini del tridente Giuly-Eto’o-Ronaldinho si affaccia Leo Messi, che alla penultima giornata di Liga segna all’Albacete il suo primo gol in maglia blaugrana. In Catalogna si torna a festeggiare la Liga – sono i giorni del noto slogan canoro di Eto’o «Madrid, cabrón, saluda al campeón» – ma è tutto il contesto ad essere mutato. Rijkaard dichiara di percepire, rispetto agli inizi, un’energia completamente diversa, tanto in campo quanto nello spogliatoio. Non c’è più solo una squadra, bensì un gruppo, e infatti il mercato estivo presenta pochissime novità, con gli arrivi di Van Bommel e Santi Ezquerro, il primo in qualità di vice-Xavi, il secondo di vice-Ronaldinho. È la stagione della doppietta campionato-Champions, ma anche di perle quali il 3-0 rifilato al Real Madrid al Santiago Bernabeu, o la vittoria a San Siro 1-0 sul Milan nella semifinale di ritorno di Champions. Al Triplete manca la Copa del Rey, che finisce sempre a Barcellona ma nella bacheca dei cugini dell’Espanyol, vincenti in finale contro il Real Saragozza di Diego Milito che aveva fermato nei quarti la corsa degli uomini di Rijkaard.

Ronaldinho 2006
Ronaldinho esulta dopo la finale di Champions 2006 (Lluis Gene/AFP/Getty Images)

Pur provenendo da una scuola calcistica tradizionalmente votata all’attacco come quella olandese, Rijkaard non ha dimenticato i cinque anni trascorsi in Italia con allenatori quali Arrigo Sacchi e Fabio Capello, i suoi punti di riferimento assieme a Cruijff, Michels e Hiddink. In un’intervista concessa al settimanale Voetbal International dopo il trionfo europeo, Rijkaard rendeva omaggio così ai propri maestri: «Le mie squadre giocano per far divertire la gente, e questa è la grande lezione che ho recepito da Cruijff. Da Sacchi ho invece appreso l’organizzazione della squadra, il pressing collettivo, l’idealismo tattico. Da Capello invece il realismo. Perché certe gare si vincono curando bene anche la fase difensiva». Vedere Eto’o marcare Cafu nella semifinale di San Siro è stata la piena dimostrazione di questa teoria. «Copiare non è comunque sufficiente, devi anche metterci del tuo, perché le decisioni prese da un grande tecnico in passato non significa che funzionino ancora oggigiorno». Nella finale di Parigi, contro l’Arsenal di Arsene Wenger, il capolavoro di Rijkaard è stato quello di non aver ceduto alla tentazione dell’assalto all’arma bianca dopo aver chiuso il primo tempo sotto di un gol nonostante la superiorità numerica. Il Barça ha continuato a sviluppare la propria manovra restando psicologicamente saldo, il tecnico ha azzeccato i tre cambi (Iniesta, Belletti, Larsson) e la Coppa è ritornata in casa blaugrana per la seconda volta nella loro storia, 14 anni dopo il successo del Dream Team di Cruijff.

17 maggio 2006: il Barcellona batte l’Arsenal 2-1 e riporta la Champions in Catalogna 14 anni dopo

A dieci anni da questo successo, del Frank Rijkaard allenatore non c’è più traccia. Si è ritirato, dopo una rovinosa esperienza da ct dell’Arabia Saudita, ha aperto una società che produce pannenkoeken (o crêpes, che dir si voglia), non si perde un concerto dei Sex Pistols (quando trovano l’accordo per l’ennesima reunion) e si concede qualche comparsata da ospite d’onore. Dice di non aver mai voluto allenare fino a 60 anni. Dopo Barcellona era cambiato. Il modo in cui si era conclusa la sua avventura in Catalogna lo aveva cambiato. Era sempre stato un tecnico di pochi proclami, modi gentili, serietà e rispetto per gli avversari. Raramente usava il bastone con i propri giocatori, e questa attitudine era stata pagata a caro prezzo quando nello spogliatoio catalano un paio di ego avevano assunto una dimensione tale da soffocare e spezzare il sistema simbiotico generatosi nel biennio precedente. La stagione 2006/07, che aveva visto in entrata i transfughi juventini Thuram e Zambrotta, più Gudjohnsen in sostituzione di Larsson (e non sarà un affare), si era chiusa con una dolorosa coabitazione in vetta alla Liga con il Real Madrid, che però aveva festeggiato il titolo grazie alla differenza reti, e una disfatta in semifinale di Copa del Rey contro il Getafe (uno 0-4 che ribaltava il 5-2 dell’andata al Camp Nou).

Juliano Belletti
Juliano Belletti, suo il gol del 2-1 definitivo contro l’Arsenal (Lluis Gene/AFP/Getty Images)

Ancora peggio l’annata successiva, con il quartetto da fantacalcio Ronaldinho, Messi, Eto’o e Henry che non disputerà nemmeno un minuto in campo assieme – una simile ammucchiata di figurine era roba da Real Madrid, non da Barça – e un terzo posto finale che significava dover disputare i preliminari di Champions la stagione successiva. Non era duro abbastanza, dicevano di Rijkaard al momento del suo addio al Barcellona. Sì, era cambiato, e infatti quando accettò una panchina bollente come quella del Galatasaray sembrava un’altra persona. Prese di petto l’ambiente, litigò a più riprese con la stampa (una volta mise le mani addosso a un giornalista), ma più picchiava duro, più lo spogliatoio gli scappava di mano, lacerato al proprio interno tra turchi e stranieri, esacerbato da mesi di stipendi non pagati (nessuno però fiatava e i nodi vennero al pettine solo anni dopo) e da una caotica situazione societaria. Il Gala finì terzo, nonostante la qualità della rosa (Arda Turan, Baros, Kewell, Elano). All’olandese venne mostrato il foglio di via l’ottobre successivo, con la stagione già segnata da un’umiliante uscita dall’Europa contro gli ucraini del Karpaty Lviv. Quello turco non era il suo calcio, quello in Turchia non era il vero Rijkaard. O, molto più semplicemente, non lo era più, e dopo i petrodollari mediorientali ha avuto il buon senso di riconoscerlo. Non tutto il mondo è Barcellona, non tutti terreni sono adatti alla semina.

 

Nell’immagine in testata, Frank Rijkaard nel 2008, prima di una partita del Barcellona contro lo Schalke. Nell’immagine in evidenza, Rijkaard in un match di campionato contro l’Espanyol, sempre nel 2008 (entrambe le foto di Jasper Juinen/Getty Images)