Pastorale viola

La stagione della Fiorentina raccontata in tre capitoli: dal sogno di una notte di mezza estate al senso di un'ineludibile catastrofe.

Uno dei termini di paragone più istantanei e più efficaci per raccontare una stagione calcistica è il romanzo. Le partite sono i capitoli, i giocatori sono i personaggi, l’imprevedibile traiettoria del Gioco è la penna dello scrittore. Le stagioni, inoltre, hanno sempre una proiezione verso il futuro, uno slancio sul domani, frammenti di saghe lunghissime alla cui fine è sempre possibile individuare una chiave morale adatta per la comprensione del tutto. Abbiamo appena finito di leggere il romanzo del Leicester, il miglior fantasy dai tempi di Tolkien, mentre la Juventus ha vinto il suo quinto scudetto consecutivo dopo una tragica partenza, come in quei romanzi scontatissimi in cui lo scrittore per dare vivacità alla trama seppellisce il protagonista sotto tonnellate di problemi apparentemente irrisolvibili che poi, magicamente, svaniscono uno dopo l’altro. Quale miglior modo per descrivere il finale della Liga di un giallo in cui il colpo di scena è in realtà l’assenza di un colpo di scena, dopo che lo scrittore ha disseminato pagine e pagine di indizi.

Andando avanti, e limitando l’arco temporale a questo 2015/2016, troviamo il crudo realismo di un Milan verghiano, l’insolito Bildungsroman di Zidane, un altro tomo del manifesto politico del cholismo, una declinazione agrodolce, sfumata e postmoderna della consueta narrativa di fantascienza guardioliana. C’è una squadra, però, che ha un corrispettivo letterario più calzante di altri. 2666 è l’ultimo romanzo di Roberto Bolaño, considerato unanimemente il capolavoro dello scrittore cileno e salutato a gran voce come una delle migliori opere di questo inizio secolo. Ma non è il successo a offrirci lo spunto, quanto la sua struttura. Pubblicato postumo, contiene cinque diverse parti riunite dagli eredi di Bolaño benché fosse intenzione di quest’ultimo una divisione del manoscritto in cinque diversi volumi. La differenza, spesso abissale, che c’è tra una parte e l’altra, e a volte anche all’interno della stessa parte, fa sì che 2666 sia tanti romanzi in un solo romanzo, se non tutti i romanzi in un solo romanzo.

La curva Fiesole prima della gara contro la Juventus (Gabriele Maltinti/Getty Images)
La curva Fiesole prima della gara contro la Juventus (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Non c’è continuità spaziale né temporale né stilistica, la sporadica ricorrenza dei personaggi sembra più una casualità che la conseguenza di una volontà unificatrice dell’autore, l’ordine di lettura delle parti potrebbe essere invertito a piacimento, senza influenzare in alcun modo il risultato finale. Il compito di tenere insieme più di mille pagine spetta a un’atmosfera decadente che pervade tutto il romanzo, che senza essere mai essere chiaramente descritta si rivela essere la vera protagonista. Volgendo lo sguardo indietro verso il campionato appena concluso, salta agli occhi una squadra che sembra aver fatto tante stagioni in un’unica stagione, se non tutte le stagioni in un’unica stagione. Una stagione divisa in una prima parte, un drammone asfissiante ambientato in interni pieni di persone che piangono, una seconda parte, un mito cosmogonico che diventa testo sacro di una nuova religione, e una terza, e ultima, parte, opera di un realismo feroce sulla natura intrinsecamente violenta della mediocrità. La stagione della Fiorentina, schizofrenica, illogica, ambigua, è, parimenti a 2666, intrisa della sensazione di una catastrofe imminente.

La parte dei casi

Rispettando una tradizione narrativa millenaria, imposta come modello da quella che è con ogni probabilità la più importante opera letteraria della storia dell’umanità, l’Iliade, anche il 2015/2016 della Fiorentina inizia in medias res. Così come l’Iliade, il 2015/2016 della Fiorentina inizia con un protagonista molto permaloso che a causa di incomprensioni con il suo diretto superiore decide di ritirarsi dal campo di battaglia e scomparire. È il 6 giugno quando Vincenzo Montella comunica alla società, che lo sta incalzando da giorni sia privatamente sia pubblicamente attraverso comunicati stampa, di non aver ancora preso una decisione sul suo futuro; contestualmente si dichiara irreperibile fino al 5 luglio, partendo in vacanza per il Madagascar e lasciando l’agente Lucci come unico interlocutore. La sua Briseide è una clausola rescissoria pari a cinque milioni posta su un contratto in essere in scadenza nel 2017, che gli sbarra la strada, altrimenti spianata, verso la panchina del Milan.

La Fiorentina dei Della Valle a quel punto si è già fatta negli anni una reputazione, certamente non positiva, per la mole di quelli che i santoni del calciomercato amano chiamare casi. Situazioni di conflitto con propri tesserati che vengono risolte con prese di posizione a volte esagerate, spesso superflue, sempre gestite in modo non ottimale dal punto di vista comunicativo. Quello che succede nei 50 giorni successivi al caso Montella, però, è un susseguirsi senza precedenti di paranoie, scontri a mezzo stampa e evidenti limiti gestionali. Con l’Aeroplanino la situazione viene risolta con una mail al diretto interessato e un comunicato stampa, un altro, carico di emotività posticcia (vi si legge «è venuto meno il rapporto fiduciario necessario», ma anche «per il bene della società»), mentre soltanto mesi dopo Montella ribatterà pubblicamente accusando la dirigenza viola di aver ordito un complotto nei suoi confronti degno di Frank Underwood: «Alla società avevo palesato la volontà di non continuare a quelle condizioni, loro invece, forse per togliere competitor agli avversari, hanno fatto accasare tutti gli allenatori e poi mi hanno mandato via».

Successione (Gabriele Maltinti/Getty Images)
Successione (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Quando le altre squadre di Serie A stanno già iniziando a progettare la stagione a venire, a Firenze lo psicodramma è soltanto alle prime pagine. Per liberare Paulo Sousa dal contratto col Basilea, attraverso una pratica molto simile a quella per la quale era stato accusato Montella, ci vogliono quindici giorni, nel corso dei quali il mercato resta conseguentemente immobile. Arrivato il portoghese, mal presentato a una piazza ipersensibile che lo saluta nel peggiore dei modi con una contestazione alle intenzioni per il suo passato bianconero, è l’ora del caso Salah. Mohamed Salah, accolto a Firenze sul finire di gennaio con una gamma di sentimenti compresi tra l’indifferenza e l’insofferenza per la perdita di Cuadrado, è di fatto il salvatore della stagione appena conclusa, nella quale ha segnato 9 gol in 26 presenze, spesso decisivi. Per mesi la società ha ribadito che la sua permanenza non sarebbe stata in discussione, ma la firma continua a slittare, e, nonostante dagli ambienti dirigenziali continui a «filtrare ottimismo», prende sempre più corpo quella che a maggio era soltanto una brutta sensazione, un timore paranoico.

Il 30 giugno, giorno in cui il giocatore avrebbe dovuto comunicare il suo assenso al riscatto del suo cartellino della Fiorentina dal Chelsea, si chiude senza la firma dell’egiziano. Nei giorni immediatamente successivi si alza un polverone densissimo e velenoso fatto di accuse e frustrazioni, sulle quali spiccano quelle del membro del Consiglio d’Amministrazione del club viola Panerai, che augura all’Inter, società ritenuta responsabile dell’azione di disturbo che ha portato Salah a rifiutare la sua permanenza a Firenze, una retrocessione a tavolino in Serie B. La squadra fa in tempo a partire e a tornare dal ritiro di Moena senza che sul mercato si sia mosso niente, con l’eccezione del portiere di riserva Sepe – che mesi dopo diventerà un altro caso – arrivato in prestito senza diritto di riscatto dal Napoli.

Salah, da avversario, in Roma-Fiorentina (Paolo Bruno/Getty Images)
Salah, da avversario, in Roma-Fiorentina (Paolo Bruno/Getty Images)

Sul finire di luglio la Fiorentina non ha ancora fatto mercato, ha perso il suo giocatore più forte senza ricavarne un euro e ha un allenatore che non ha mai allenato in Italia. Il finale di luglio e di questa prima parte, se possibile, è ancora peggiore. Dopo essersi incuneata in una trattativa lunga mesi tra la Lazio e il neo-campione del Mondo under 20 Sergej Milinkovic-Savic, la società decide di portare il giovane serbo in sede per firmare il contratto, ostentando la trattativa a mezzo stampa. Milinkovic-Savic, in uno dei momenti più assurdamente drammatici della stagione appena conclusa, però, decide tra le lacrime di rifiutare la Fiorentina con un «scusate ma non posso» che secondo alcuni cela la volontà della fidanzata di trasferirsi a Roma e secondo altri un patto siglato dall’agente Kezman e il DS biancoceleste Tare. Con il caso Milinkovic-Savic la catastrofe smette di essere una sensazione, sempre più pungente con il passare dei giorni, e di fatto sembra essere iniziata. Ma non arriverà. Almeno per adesso.

La parte di Paulo

La seconda parte inizia con un evento mistico, una profezia auto-avverante che, a prescindere dalla veridicità della stessa, condiziona l’ambiente in senso positivo. Il 2 agosto a Firenze la Fiorentina affronta in un’amichevole il Barcellona campione d’Europa e dopo dieci minuti è avanti 2-0. Entrambi i gol sono segnati da Federico Bernardeschi, che quella sera indossa per la prima volta al Franchi la maglia viola numero 10, lascito ereditario di una stirpe comprendente, tra gli altri, Antognoni, Rui Costa e, soprattutto, Roberto Baggio. La partita finisce 2-1, e l’irrazionale svolgimento degli eventi fa sì che ciò che è successo tra giugno e luglio sembri non essere mai esistito. Tre giorni dopo i viola sbancano Stamford Bridge in un’altra amichevole, altri venti e nella partita d’esordio del campionato impressionano in un 2-0 casalingo contro un Milan rafforzatosi sul mercato e ritenuto un competitor credibile per le prime tre posizioni.

L’amichevole vinta dalla Fiorentina contro il Barcellona

Nelle quattro gare successive arrivano altri nove punti, e anche se ancora il gioco di Sousa non appare ancora del tutto convincente le attenzioni sono tutte su di lui. Carismatico, straordinariamente efficace sul piano dell’eloquenza (a distanza di un anno resta indelebile la risposta riguardo all’acquisto del carneade Verdù, arrivato nelle ultime ore di mercato per sostituire Joaquin: «Dobbiamo fare le omelette con le uova che abbiamo»), uno dei fondamentali in cui Montella era più carente, ammalia la piazza con una musicale parlata italo-portoghese che a Firenze fa tornare alla mente il dolce ricordo di Rui Costa. Quando il 27 settembre la Fiorentina schianta per 4-1 a San Siro l’Inter, che fino a quel momento ha vinto cinque partite su cinque accreditandosi come favorita per lo scudetto, Sousa è già in posa per una statua di marmo da inserire nel Loggiato degli Uffizi insieme a quella degli altri illustri toscani. La settimana successiva quando la Fiorentina diventa capolista solitaria per la prima volta dopo diciassette anni, complice il pareggio dell’Inter con la Sampdoria, l’intera città di Firenze viene risucchiata in un buco spazio-temporale in cui non solo non sono mai esistiti Salah, Montella e Milinkovic-Savic, ma neanche gli Uffizi, Dante, Michelangelo e gli altri illustri toscani.

Il successo della Viola per 4-1 a San Siro

Una timeline parallela in cui il mondo è stato creato da Paulo Sousa con il suo arrivo sulle sponde dell’Arno. Alla sedicesima giornata la Fiorentina si appresta ad affrontare la Juventus con un insolito vantaggio di cinque lunghezze. I viola hanno finora raccolto 32 punti, Kalinic ha segnato 9 gol, il 3-4-2-1 mobile di Sousa ha strappato applausi in tutta Italia, Badelj e Vecino si sono imposti come una delle migliori coppie di centrocampisti del campionato, e, come in una parabola evangelica, il tocco di Sousa ha riportato calcisticamente in vita Ilicic, Alonso, Astori e perfino Roncaglia. Il senso opprimente della catastrofe, però, non ha abbandonato Firenze. Le sconfitte in campionato con Roma e Napoli, il rocambolesco pareggio casalingo con l’Empoli e, soprattutto, la travagliata campagna europea nei gironi di Europa League, durante la quale perde in casa sia con il Basilea che con il Lech Poznan, sono tutte cassandre, ignorate per evitare l’infiltrazione dello sconforto. Al 3’ di Juventus-Fiorentina Ilicic si presenta sul dischetto e segna il gol del vantaggio viola. La palla che entra in rete alle spalle di Buffon è il lieto fine di una favola che ha le sue radici proprio dal rigore sbagliato da Ilicic contro il Siviglia, le cui conseguenze avevano accelerato la rottura tra Montella, la società e la piazza. Il lieto fine di una favola lunga quindici giornate di campionato più tre minuti. Ma solo nelle favole esistono stagioni lunghe quindici giornate di campionato più tre minuti.

La parte dei fantasmi

L’inizio della terza e ultima parte è ambientato allo Juventus Stadium, al quarto minuto di gioco di una partita tra Juventus e Fiorentina. Non c’è prologo né introduzione quindi non ci è dato sapere perché siamo lì e cosa sta succedendo, leggiamo soltanto che il tabellone indica che gli ospiti sono in vantaggio per 1-0. Dopo una rapida descrizione della scena, si legge che Evra sfrutta una marcatura a cinque metri di distanza di Bernardeschi per mettere in mezzo un cross, e che Astori e soprattutto Tomovic, imbrigliato da un blocco di Mandzukic, lasciano colpire di testa Cuadrado ritrovatosi da solo in area. La traiettoria arcuata della palla per un secondo sembra poter concludersi sulla traversa, e in un altro tipo di romanzo probabilmente lo farebbe, ma in questa ultima parte, cruda come le descrizioni delle sevizie inflitte alle sue vittime da Patrick Bateman in American Psycho, non c’è spazio per le favole e né per le speranze. La partita, ovviamente, finisce 3-1, e soltanto tre giorni dopo arriva una delusione forse ancora più grande con l’eliminazione dalla Coppa Italia per mano del Carpi, che passa a Firenze dopo una splendida prestazione difensiva con un gol di Di Gaudio nel finale. Quello che in quel momento sembra essere un evento straordinario, un’eccezionale pugnalata del Gioco, è solo il primo assaggio di sei mesi claustrofobici.

La sconfitta per 3-1 allo Juventus Stadium

Quando a gennaio si presenta l’occasione di dare una svolta con il mercato, che avrebbe potuto far chiudere di colpo questo capitolo e renderlo un piccolo intermezzo amaro, utile per apprezzare la successiva dolcezza, la società fa una chiara dichiarazione d’intenti su quale sia il suo genere letterario preferito: il dramma. Dopo un mese intero passato ad inseguire Mammana, come se davvero Milinkovic-Savic non fosse mai esistito, l’operazione salta a causa di un’offerta cambiata all’ultimo secondo, e la fine della trattativa è suggellata dalle parole brucianti dello stesso presidente del River: «Hanno davvero perso la faccia, è stata una cosa ridicola. Una pagliacciata». Al posto di Mammana, classe 1996, già convocato in Nazionale, da anni nel mirino dei migliori club europei, arriva da Leicester, in prestito, e infortunato, Yohan Benalouane, classe 1987, mai una presenza in nazionale tunisina, dopo ben 64 minuti giocati in Premier in stagione, tutti da subentrato.

In cinque mesi a Firenze non scende in campo neanche una volta, e fa poco meglio Panagiotis Konè, altro rinforzo invernale, che gioca ben otto minuti in maglia viola. Fallisce in pieno anche Tino Costa, troppo poco dinamico per un centrocampo che aveva bisogno soprattutto di un ricambio sul piano della corsa, mentre serve appena ad illudere e ad alleviare saltuariamente, e temporaneamente, il dolore la coppia formata da Tello e Zarate. Essendo questa parte completamente slegata dalle precedenti, non possiamo sapere perché la squadra fisicamente e, soprattutto, mentalmente sembra essere completamente assente, ipnotizzata, schiacciata dal peso della realtà. Si può supporre che l’allenatore abbia preparato atleticamente la squadra in modo da fare un’ottima partenza per creare un clima di fiducia altrimenti impossibile da ottenere, e si può anche supporre che la squadra stessa, una volta capita la propria dimensione, abbia rinunciato a lottare per scampare al proprio mediocre destino.

Nikola Kalinic durante la partita di Empoli (Gabriele Maltinti/Getty Images)
Nikola Kalinic durante la partita di Empoli (Gabriele Maltinti/Getty Images)

Resta però il sospetto che una forma fisica in calo e il trauma dovuto a una feroce verità non siano sufficienti per spiegare i 12 punti raccolti nelle ultime 11 gare di campionato, un’eliminazione in Europa League arrivata dopo una gara di ritorno in completa balia del Tottenham, gli 0-0 con Chievo, Palermo e Frosinone e il pareggio casalingo contro il Verona, causato da una marcatura superficiale su un calcio piazzato quando ancora poteva essere possibile il raggiungimento del terzo posto. La catastrofe smette di nuovo di essere soltanto un brutto presentimento, e, di nuovo, è sul punto di iniziare. Il romanzo si conclude così, con una descrizione in bianco e nero di una città bellissima costruita sul bordo di un crepaccio profondo quanto le sue paure. Il prossimo anno uscirà il seguito, come ogni anno, e benché ogni romanzo abbia le sue radici in quello precedente, non possiamo fare altro che aspettare per capire quale sarà lo sviluppo della trama. Sappiamo bene quanto l’autore, il Gioco, ami stravolgere le sue storie romanzo dopo romanzo, lasciando, come unico filo conduttore, un vago sentore di catastrofe imminente.

 

Nell’immagine in evidenza, Sousa si dispera durante la gara contro il Verona (Gabriele Maltinti/Getty Images)