Lo scultore

José Pekerman, in Colombia per coronare una carriera da formatore del fútbol. Una storia che attraversa vent'anni di talento sudamericano.

Nel 1978 i taxi di Buenos Aires erano gialli e neri. Nello stesso anno, il 29enne José Pekerman era uno di quei calciatori argentini che promettono tanto e poi si perdono e non riescono a mantenere nulla. Il tempo sarà galantuomo, e crudele. Perché José ne incontrerà tanti che finiranno esattamente com’è finito lui, almeno a livello calcistico. Forse, chissà, proprio i ragazzi con una storia così simile alla sua sono quelli che gli sono rimasti nel cuore, pure più dei grandi campioni lanciati. È bello immaginare che possa essere davvero così.

Tutto questo, però, José Pekerman non può saperlo ancora. È il 1978, e un infortunio al ginocchio gli ha appena cancellato la carriera nel fútbol. Insieme alla carriera, è scomparsa anche ogni prospettiva di guadagno. Però c’è suo fratello Luis che è disposto a imprestargli un’automobile, una Renault 12. José Pekerman decide di ridipingerla, da solo. I colori che sceglie per il suo taxi, e per il suo nuovo lavoro, sono obbligati: giallo e nero.

Jose Pekerman abbraccia James Rodriguez dopo la sconfitta contro il Brasile agli scorsi Mondiali. (Vanderlei Almeida/AFP/Getty Images)
Jose Pekerman abbraccia James Rodriguez dopo la sconfitta contro il Brasile agli scorsi Mondiali. (Vanderlei Almeida/AFP/Getty Images)

Al termine di Brasile-Colombia 2-1, giocata a Fortaleza il 4 luglio del 2014, la regia della rete nazionale cilena alterna le immagini della felicità dei vincitori a quelle delle lacrime degli sconfitti. Tra questi, il più inquadrato è James Rodriguez. È possibile vedere queste sequenze su Youtube, dove c’è un video dell’intera partita. James ha una maglia del Brasile intorno al collo, ha iniziato a piangere al fischio finale e dopo cinque minuti non ha ancora smesso. C’è anche la famosa immagine di David Luiz che lo indica e gli “chiama” l’applauso dello stadio. Il telecronista ripete più volte che il ragazzino che sta per diventare il diez del Real Madrid è il miglior calciatore del Mondiale brasiliano. A un certo punto, James viene abbracciato e rincuorato dal suo allenatore. È un abbraccio breve, non più di tre o quattro secondi. Di quelli paterni, che valgono tanto perché sono una rarità. Valgono tanto anche se durano pochissimo.

Il telecronista, dopo aver incensato Rodriguez, dice che la Colombia esce a testa alta dai quarti di finale di un Mondiale. La Colombia non era mai arrivata ai quarti di finale di un Mondiale. L’allenatore che abbraccia James Rodriguez e che ha portato la Colombia al punto più alto della sua storia calcistica è un argentino. Una leggenda del calcio sudamericano, soprattutto giovanile: José Pekerman.

La Colombia ai Mondiali 2014. Niente male, davvero.

José Pekerman ha avuto tre cani a cui ha dato dei nomi abbastanza strani, e ha iniziato a lavorare con la federazione argentina nel 1994. Juan Pablo Sorín, capitano della Under 20 a quel tempo, ha raccontato così la svolta non solo tecnica imposta da Pekerman al momento dell’insediamento come nuovo responsabile delle selezioni giovanili: «Il nuovo staff cercò di sbandierare subito una nuova filosofia, che consisteva nel dare una nuova e migliore immagine del calcio argentino. C’era una nuova disciplina da rispettare, anche nei dettagli: calzettoni alti, camicia dentro i pantaloni, niente proteste e scandali». Gustavo Lombardi, calciatore capace di vincere 7 titoli in carriera nonostante non abbia superato le 120 partite ufficiali disputate, ha descritto così la politica di reclutamento di Pekerman: «Per Pekerman e Hugo Tocalli (uno dei collaboratori più stretti dell’allenatore, ndr) era molto più importante creare un gruppo piuttosto che scegliere i giocatori da convocare. Hanno voluto creare delle relazioni tra noi giovani, e forse hanno scelto calciatori meno bravi ma più adattabili a questo tipo di dinamica».

Martin Bernetti/AFP/Getty Images
Martin Bernetti/AFP/Getty Images

L’undici titolare che il 28 aprile 1995 vince il titolo mondiale giovanile a Doha, in Qatar, conferma le parole di Lombardi. C’e lui e c’è Juan Pablo Sorín, il capitano; insieme a loro, un gruppo di calciatori che non avranno molta fortuna. Per far capire cosa intendiamo, basta dire che il diéz di quell’Argentina giovanile è Ariel Ibagaza, il calciatore nettamente più famoso tra tutti i suoi compagni di quella spedizione, soprattutto grazie alla vasta esperienza spagnola con Atlético Madrid, Villarreal, Mallorca. E basta dire che il numero 14, che resta in panchina durante la finale, è Cristian Díaz. Ovvero l’attuale allenatore dell’Olimpo, che vanta pure una stagione neanche tanto male in Italia, con l’Udinese 2000/2001. Nella finale contro il Brasile, finita 2-1 per la Selección, segnano Leonardo Biagini e Francisco Guerrero.

Due anni dopo, appuntamento in Malesia. Lombardi, questa volta, viene smentito. La lista dei 22 è un vero e proprio catalogo di futuri fuoriclasse, o almeno di calciatori famosi: Leo Franco, Leandro Cufré, Walter Samuel, Diego Placente, Lionel Scaloni. A centrocampo gioca un biondino cresciuto nell’Argentinos Juniors. Uno bravino, indossa la maglia numero 5, quella che in Sudamerica identifica il regista della squadra. Si chiama Esteban Cambiasso. Il numero 8 è il capitano, ed è un ragazzino del Boca di cui si dice un gran bene: Juan Román Riquelme. Il diéz siede in panchina, entrerà nel secondo tempo della finale contro i cugini uruguayani: è Pablo Aimar, 17enne del River Plate. Prima di lasciare il posto a questo Aimar, Diego Quintana ha fatto in tempo a completare la rimonta dopo l’iniziale vantaggio degli uruguagi e il pareggio di Cambiasso da corner. È senza dubbio la miglior selezione giovanile dell’era Pekerman. In un articolo pubblicato su Kienyke c’è un aneddoto che spiega molto della filosofia del tecnico: dopo quella finale, lui e il fido Tocalli resteranno un giorno e mezzo in Malesia per pianificare la strategia per la Nazionale Under 17, che di lì a qualche mese sarà impegnata nella Coppa del Mondo di categoria.

Con Ariel Ibagaza, nel 2004 (Cesar Rangel/AFP/Getty Images)
Con Ariel Ibagaza, nel 2004 (Cesar Rangel/AFP/Getty Images)

Nel 1999 l’Under 20 Argentina vince il Sudamericano giovanile ma poi esce al primo turno del Mondiale in Nigeria. La rivincita arriverà nel modo più dolce. Nel 2001, nel Mondiale casalingo. Nella prima partita, i ragazzi di Pekerman battono per 7-1 l’Egitto. Nella seconda, va meno bene: solo 5-1 alla Giamaica. Non sono partite reali, ma amichevoli di esibizione, fiere campionarie del talento. Una roba alla stregua del Dream Team a Barcellona 1992, con l’aggiunta che qui si gioca a casa loro e gli stadi sono dei veri e propri inferni. La finale contro il Ghana finisce 3-0. È il trionfo di una squadra ricca di piedi buoni e scarsa di centimetri e peso, con Javier Saviola in attacco e Andrés D’Alessandro e Leandro Romagnoli a supporto. Segnano Colotto, proprio Saviola, Rodriguez. Nessuno degli undici titolari di quel giorno riuscirà ad avere una carriera all’altezza delle aspettative. Il giorno dopo l’ultimo atto, giocato nello stadio del Velez Sarsfield, Javier Saviola rilascia un’intervista al quotidiano Olé. Dice una frase che è un manifesto: «Ganamos tan fácil que casi no nos damos cuenta», abbiamo vinto talmente facile che quasi non ce ne siamo resi conto.

I tre cani di José Pekerman si chiamavano Argentina, Malesia e Qatar. I luoghi dei suoi tre titoli mondiali.

Argentina-Uruguay 2-1, finale della Coppa del Mondo Under 20 del 1997.
Il fatto che si giochi con le seconde maglie rende tutto ancora più bello.

Dall’agosto del 2003, José Pekerman è il direttore sportivo del Leganés, club spagnolo di seconda divisione. In un’intervista rilasciata ad Abc, spiega che il suo interesse era «venire in Europa, in una squadra anche piccola ma che abbia un progetto, un’idea». L’esperienza sarà breve, terminerà nel febbraio del 2004, poco dopo l’addio di Daniel Grinbank, proprietario argentino della squadra.

Durante il suo periodo in Spagna, Pekerman viene a sapere di un ragazzino interessante, argentino di Rosario, cresciuto nelle giovanili del Barcellona. Insieme alla segnalazione, ecco anche l’invito a fare presto: il giovane è infatti finito nel mirino della federcalcio spagnola, che sta facendo il possibile per convocarlo nelle selezioni giovanili. Pekerman, a quel punto, decide di seguire dal vivo un match tra l’Alcorcón e il Barcellona B, in modo da poter verificare di persona quanto questo presunto fenomeno potesse fare al caso di Hugo Tocalli, il suo assistente storico che nel frattempo aveva ereditato la panchina dell’Under 20. Al termine della partita, Pekerman fa una telefonata a Tocalli.

FBL-WC-2018-CHI-COL

José Pekerman: «Hugo, abbiamo poco tempo. Ti voglio solo dire che sono davvero sorpreso da questo ragazzino. Parla con Julio (Grondona), fai in modo che organizzi un’amichevole. Se poi non possiamo convocarlo per il Sudamericano non importa, ma deve organizzare questa partita. Questo ragazzino è diverso».

Il 29 giugno del 2004 c’è un’amichevole tra l’Argentina Under 20 e i pari età del Paraguay. Al termine del primo tempo, il risultato dice 2-0 in favore della Selección. All’inizio della ripresa, entra il giovanotto che Pekerman ha raccomandato dalla Spagna. Il risultato finale è di 8-0 per l’Argentina. Il 17 agosto del 2005, a Budapest, Pekerman siede sulla panchina dell’Argentina senior in un’amichevole contro i padroni di casa dell’Ungheria. È stato nominato ct da un anno, ha esordito battendo l’Uruguay per 4-2 al Monumental. Al 64esimo, lo stesso ragazzino segnalato a Tocalli fa il suo esordio nella Nazionale maggiore. Indossa la maglia numero 18, e al 65esimo viene espulso per fallo di reazione. Qualcuno, prima della partita, aveva azzardato un prematuro parallelo con Diego Maradona. Pure il Pibe aveva esordito con la Selección, nel 1977, proprio contro i magiari. Il rosso fece immediatamente considerare blasfemi e irresponsabili questi confronti, che però dopo qualche tempo torneranno d’attualità. Lionel Messi, con il tempo, ha imparato ad accettare i paragoni con Diego Maradona. Li ha pure onorati, a suon di vittorie, di record, di gol.

Il negativo esordio di Messi in Nazionale maggiore.
Il capitano, come dieci anni prima ai Mondiali Under 20, è ancora Juan Pablo Sorin.

Il 17 giugno del 2006, l’edizione online del Clarín titola così sull’Argentina vittoriosa per 6-0 contro la Serbia Montenegro nella seconda partita del Mondiale: «Simplemente, la perfección». La squadra è piena di elementi lanciati da Pekerman nella sua Under 20: Riquelme, Aimar, Coloccini, Burdisso, Maxi Rodríguez, Gabi Milito, Leo Franco, Scaloni, Cambiasso, Saviola, Cufré. Poi c’è Messi, noblesse oblige. La corsa si ferma ai quarti, ai rigori, contro la Germania padrona di casa. Decisivi, durante la lotteria, gli errori di Ayala e Cambiasso.

Il match contro i tedeschi segna la fine dell’esperienza di Pekerman alla guida della Selección, a testa alta ma con parecchi rimpianti e pure qualche critica negativa. Se il Clarín scrive che «la sconfitta non ha oscurato un’ottima prestazione contro la grande Germania» e Ole sottolinea come «l’Argentina sia stata per larghi tratti superiore ai padroni di casa», La Nacion non la tocca piano e racconta di come «i tedeschi abbiano mostrato maggiore coraggio e non si siano mai fatti travolgere da un avversario forse più forte, nonostante gli errori fatti». Marca, invece, discute dei «Cinco pecados capitales de Pekerman». Uno, ovviamente, fu quello di lasciare fuori Lionel Messi nella partita contro Klose e compagni, a vantaggio prima di Hernan Crespo e poi del Jardinero Cruz. Di quell’avventura, però, quel che resta di più negli occhi è il gol-capolavoro contro la Serbia. Segna Cambiasso, dopo un’azione da 25 passaggi consecutivi, rasoterra, veloci e avvolgenti. Semplicemente la perfezione.

Crespo serve l’assist finale di tacco.

Il Mondiale del 2006 è lo spartiacque della carriera di Pekerman, che da maestro e insegnante di calcio si trasforma in allenatore vero e proprio. Sceglie di ripartire da un club, e lo fa in un modo e in un luogo tutt’altro che convenzionale: Toluca, una splendida città messicana a 2200 metri sul livello del mare. In un’intervista rilasciata a La Jornada durante il suo periodo da tecnico del Deportivo Toluca, Pekerman chiarisce in qualche modo il perché di questa sua decisione di trasferirsi in Messico: «Il calcio qui è ancora uno spettacolo, si preferisce fare un’analisi di quello che avviene in campo piuttosto che piegarsi alla filosofia della dittatura del risultato».

Una filosofia cui però lo stesso Pekerman non riesce a votarsi, né con i Diablos Rojos di Toluca, né tantomeno con il secondo club della sua esperienza messicana, il Tigres UANL di San Nicolás de los Garza, zona Metropolitana di Monterrey. I quarti di finale sono il suo momento nero: lo sono stati ai Mondiali tedeschi, lo sono con il Deportivo Toluca nell’Apertura 2007 e nel Clausura 2008. Lo saranno, l’abbiamo già visto, pure nella successiva, bellissima esperienza come ct della nazionale colombiana. Un’avventura che comincia nel gennaio del 2013, e che in qualche modo rinsalda un legame forte con il paese che l’ha accolto da calciatore. Prima di infortunarsi gravemente e di lasciare il calcio, Pekerman ha infatti giocato per otto stagioni nel Deportivo Independiente Medellín. A Medellín è nata pure sua figlia Vanessa, che all’aeroporto di Buenos Aires, il giorno della nuova partenza per la Colombia, chiede a papà José di «portare la Nazionale ai prossimi Mondiali». Desiderio esaudito con un turno d’anticipo rispetto alla chiusura del girone di qualificazione per Brasile 2014: la Colombia pareggia a Barranquilla con il Cile per 3-3 dopo una partita meravigliosa (rimonta da 0-3 a partire dal 68esimo per i Cafeteros) giocata in uno stadio stupendo, interamente colorato di giallo. Questo risultato vale il pass per il quinto Mondiale della storia colombiana, sedici anni dopo il crepuscolo della “Generazione d’Oro” – quella di Valderrama, Rincon, Asprilla – a France 98.

Luis Acosta/AFP/Getty Images
Luis Acosta/AFP/Getty Images

Luis Bedoya, presidente della federcalcio colombiana, ha raccontato così il colloquio avvenuto prima dell’assunzione: «Avevo dei dubbi prima di incontrarlo, ma quando ho avuto modo di parlare con lui, mi sono ricreduto subito. José ha presentato un programma molto preciso sulla gestione della squadra, conosceva perfettamente i giocatori colombiani. Evidentemente, ha fatto delle ricerche approfondite sul passato, sul presente e sul futuro della nostra nazionale. Poi vedevo in lui un attaccamento a questa nazione che andava al di là del contratto di cui stavamo discutendo. Spero possa rimanere a lungo alla guida della Colombia, perché un popolo intero vuole che lui resti il ct della nazionale».

I quarti di finale saranno il capolinea anche nella successiva Copa América, giusto un anno fa. La Colombia, in verità, gioca al contrario fin dall’inizio della manifestazione: perde contro il Venezuela, vince con il Brasile e pareggia col Peru. Passa il turno come miglior terza classificata, esce sconfitta ma imbattuta dalla sfida contro l’Argentina. Ancora rigori fatali per Pekerman, che al termine della partita ricorda ai colombiani cosa vuol dire avere Pekerman sulla panchina della Nazionale: «Non dobbiamo perdere la testa, ora. Non possiamo parlare di fallimento, perché anche se oggi usciamo dalla Copa América siamo una nazionale in crescita. Siamo dispiaciuti per il popolo colombiano, che come noi dello staff era certo di poter battere l’Argentina. Non è andata così, ma dobbiamo ripartire da questa sconfitta. La gente sa che questa squadra ha sempre dato tutto».

I calci di rigore di Argentina-Colombia.

In queste dichiarazioni c’è tutto il pensiero di Pekerman. Che è stato fortunato, senza dubbio: il frenetico calendario sudamericano gli ha dato la possibilità di ripartire praticamente subito (non benissimo, in verità: 3 vittorie, un pareggio e 2 sconfitte) verso un altro Mondiale e di riprovarci di nuovo in Copa América. Anzi, l’edizione speciale del Centenario si apre proprio con un match tra la sua Colombia e gli Stati Uniti padroni di casa. Pekerman ha già sorpreso tutti, scegliendo una lista di convocati giovane e sperimentale. Vuole giocarsi a modo suo, con i suoi nuovi rookie, quella che forse è una delle ultime occasioni (compirà 67 anni il prossimo 3 settembre) per coronare con un grande successo senior una splendida carriera di formatore del futbol. Nell’ultima conferenza stampa successiva alla vittoria in amichevole contro Haiti, Pekerman ha spiegato che la sua è una squadra «giovane e affamata», che però «ha bisogno di equilibrio per fare una buona Copa América». Pekerman è ancora Pekerman: «Siamo fiduciosi, ma l’armonia di gioco è necessaria».

Raul Arboleda/AFP/Getty Images
Raul Arboleda/AFP/Getty Images

Giovani da svezzare, necessità di sviluppare un gioco divertente. Tutte cose belle, bellissime, che sono servite per vincere con i giovani argentini e diventare subito «l’allenatore più importante della storia della Colombia», in grado di portare i Cafeteros fino al terzo posto del Ranking Fifa. Ma che però, finora, non hanno portato a nessun trionfo. Un peccato, data l’incredibile fioritura di talento di questa nuova generazione di calciatori colombiani. Un peccato soprattutto ripensare alla Copa América dell’anno scorso, finita al Cile. Che è squadra sicuramente non superiore a quella di Pekerman. In un articolo profondamente biografico pubblicato su Revista Diners, Luis Fernando Afanador scrive che il motivo per cui Pekerman ha scelto la Colombia è il talento: «Pekerman ha accettato la Colombia perché ha intravisto, nei calciatori di questa Nazionale, la possibilità di raggiungere quelli che sono da sempre i suoi obiettivi, l’essenza del suo calcio: il gioco palla a terra, le piccole imprese, la mentalità offensiva. Quella identità che serve a trasformare in una squadra un gruppo di giocatori: identità e fiducia. Proprio per questo, José Pekerman è l’allenatore che ci aspettavamo».

Il titolo di questo pezzo, scritto durante il Mondiale brasiliano, è emblematico: “Pékerman, el escultor de ilusiones“. Due anni fa, verosimilmente, queste parole furono scelte e pensate con un’accezione positiva, di fiducia. Oggi, due anni dopo, lo stesso titolo potrebbe cambiare significato, con quelle “ilusiones” che rischiano di diventare l’ennesima occasione perduta per vincere anche tra i grandi. Che gran peccato, sarebbe.

 

Nell’immagine in evidenza, Jose Pekerman prima della gara di Copa América contro il Paraguay (Ringo Chiu/AFP/Getty Images)