Bari, 1997: Giochi del Mediterraneo
Che questa cosa delle schede telefoniche mi stia sfuggendo di mano, l’hanno ben visto i miei genitori, i quali mi hanno fatto notare – seguendo uno schema pedagogico “illuminato” e incentrato sul dialogo “alla pari” tra genitori e figli – che sostare quotidianamente davanti alle cabine chiedendo ai passanti se per caso si ritrovino, nel portafogli, una qualche scheda senza più credito, equivale di fatto a una forma di accattonaggio.
Hanno ragione, i miei, ma il mio problema sembra al momento difficilmente arginabile. Il tutto perché le pagine plastificate del mio raccoglitore contengono nove tessere l’una e io, appena superata la pagina undici e la quota di cento esemplari, mi sento lanciato alla rincorsa del mio amico Marco, iniziatore di tutta la faccenda, che è perlomeno a centocinquanta. Se aggiungiamo che il prestigio di una collezione è proporzionale alla presenza di esemplari “rari”, la cui tiratura dev’essere almeno sotto il milione e che io sono, anche in questo, piuttosto indietro, potrà risultare chiara la mia fretta a fermare il prossimo in cerca di aiuto.
In tale frenesia generale – è la primavera del 1997 – il Coni decide di esagerare con il merchandising promozionale dei prossimi Giochi del Mediterraneo, che si terranno a Bari. Tra i vari prodotti, un’apposita scheda telefonica: il logo raffigura un bimbo, un semidio riccio e biondo a metà tra Eracle e Mercurio, che si è deciso di chiamare, con fine gioco di parole, nientemeno che «Barione». Al nome del divino rampollo, è fatta seguire la didascalia «grande campione». è così che inizio a interessarmi all’evento che salverà l’estate di un anno dispari, senza che la Confederations Cup abbia ancora preso piede. Perché quando i Giochi iniziano davvero, portando all’Italia centinaia (!) di medaglie (!!) nell’atletica leggera (!!!), realizzo che nemmeno in questa kermesse può mancare il calcio.
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Conosco buona parte della rosa di quell’Italia under-23, per quanto mi sfugga la sottile differenza tra questa particolare categorizzazione e la under-21 con la presenza dei fuori quota. Conosco, ma non l’apprezzo particolarmente, quel Totti, cui ho sempre preferito Giannini e che ha ancora molto, molto da dimostrare benché Serena Dandini abbia proclamato a Quelli che il Calcio la propria appartenenza a una fazione di “tottìne”. Conosco quel Ventola, che si dice segni tantissimo tra i giovani e che di lì a poco avrà l’esame di maturità. Sugli scudi, visti i promettenti esordi, anche Iannuzzi della Lazio, mentre in difesa sono affascinato dal difensore-bomber Innocenti e dallo juventino Zamboni. A centrocampo, fatti salvi i già famosi Baronio e Fiore, ricordo i volti di Longo del Napoli e forse pure De Ascentis.
Solo quando mi sintonizzo sulla partita d’esordio, resto colpito dal passo e dalle fattezze di uno degli uomini che più si sono distinti nella passata stagione di B. Un personaggio da film di cappa e spada, uno schermidore dal capello lungo e dal baffetto appena accennato che, per il mio immaginario del tempo, faccio corrispondere al Gene Kelly de I tre moschettieri, all’Errol Flynn de Lo sparviero del mare. Costui è Binotto-del-Verona, il più amato dai quotidiani sportivi in rosa, di cui ho appreso, per circa nove mesi, le grandiose prestazioni attraverso la carta stampata, complice il fatto che A tutta B, quell’anno, fosse incompatibile con gli orari di “piscina”. Ebbene, Binotto-del-Verona è classe e polmoni.
Dopo un inizio tentennante, Binotto e l’Italia tutta mettono sotto l’Albania, ma l’uno a zero del primo tempo sembra – a Tardelli in primis – piuttosto deludente. Per ragioni che sfuggono alla mia comprensione, perché abbiamo chiuso comunque dominando, nella ripresa Binotto è in panchina, sostituito da Alessandro Iannuzzi. L’Italia vince 4-0, dilagando con i suoi attaccanti. Nei giorni seguenti, che ci porteranno a passare il girone pareggiando con gli slavi e a vincere il torneo battendo prima la Spagna (2-0) e poi la Turchia – umiliata 5-1 – aspetto Binotto, senza mai più vederlo se non nei (pacati) festeggiamenti finali. Ai tempi, ammetterò con il senno del poi, non godevo di una visione degli eventi che mi permettesse di intendere la differenza tra un cambio per scelta tecnica e un cambio dovuto a un infortunio. Dunque, lentamente, capisco che al “mio” Binotto non è stato preferito Iannuzzi: Jonatan da Montebelluna ha avuto un problema fisico, ed è stato costretto a uscire.
Bologna, 1998: le sessanta partite
Dopo il Mondiale 1998 e i venti centimetri che salvarono Fabien Barthez, il Bologna cambia allenatore e numero dieci. Da Ulivieri a Mazzone, dal Divino a Signori. I detrattori non credono che questa vittoria dell’Intertoto serva a molto, se non a colmare di impegni una stagione destinata a rimanere anonima, tale sarà la mancanza di risultati rispetto a quella precedente. La previsione, facile alla vigilia, sembra trovare conferma nel fatto che la prima vittoria in campionato arriverà solo il 25 di ottobre, contro un Piacenza tanto malmesso – dopo i fasti di Luiso – che non ha nemmeno senso parlare di derby dell’Emilia. La smentita, prontamente, arriva: a partire da quel successo casalingo, l’ottimo filotto felsineo vedrà vittorie interne contro Juventus e Inter, colpi esterni con Venezia, Vicenza e Cagliari e un ottimo pareggio con la Roma. Persino le sconfitte, a Firenze per mano di Batistuta e con la Lazio in casa, per mano di Vieri, non sono meritate: la squadra si è sbloccata, Mazzone può stare tranquillo.
Bologna 3-0 Juventus, «Binotto potrebbe fare poker, ma davanti a Peruzzi perde la sua freddezza»
Ciò che stupisce, nei mesi, è il rendimento in coppa: nelle coppe, per la precisione. Al prezzo di qualche sconfitta di troppo in Serie A, come il 5-0 del redivivo Piacenza che si vendica con una tripletta di Simone Inzaghi, la vittoria dell’Intertoto non è più un fatto isolato. In Coppa Italia viene eliminata la Reggina, seguita dalla Samp, già estromessa dall’Intertoto di cui sopra. È la volta della Juve, che quest’anno proprio non ce la fa. Semifinali, e c’è la Fiorentina. In Uefa è la volta dello Sporting Lisbona, fatto fuori da Nervo ed Eriberto. Quindi c’è lo Slavia Praga, battuto in scioltezza. Betis Siviglia, senza problemi, per passare gli ottavi. Ai quarti, contro il Lione, il 3-0 dell’andata è un risultato troppo pesante per i francesi, che in casa riescono a farne solo due. Semifinali, e c’è il Marsiglia.
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Quello che è successo, sulle fasce del Dall’Ara, è che si è creata una grande concorrenza. Carlo Nervo resta pur sempre un inamovibile, ma deve fare i conti con ascese e parabole di alcuni colleghi spinti dalle più diverse motivazioni. Il giovane Eriberto si è reso protagonista, nei rari spezzoni disputati, di dribbling e giocate del tutto brasiliane. Il veterano Fontolan, emancipatosi dall’Inter e dagli anni bui targati Ottavio Bianchi, ha reso ancora più bionda la squadra dei Marocchi, dei Kolyvanov e dei Kenneth Andersson, tornando a mostrare una rinnovata confidenza con il gol.
Coppa Uefa 1998/99, quarti di finale, Bologna 3-0 Lione. Al minuto 55, dopo la doppietta di Signori, il sigillo del Beckham italiano
Jonatan Binotto, acquistato dalla società dopo una devastante annata veronese, è diventato un’arma impropria. All’epilogo dell’autocrazia dei numeri 7, canto del cigno dei Donadoni e i Giandebiaggi, restano gli ultimi brandelli di Lombardo, Lentini e Fuser. Resta giusto il tempo per alcuni exploit: per il 1997/98 si assiste alle rovesciate di Moriero, baciato dalla sorte in tempo utile per rientrare tra gli intoccabili di Cesare Maldini; per il 1998/99 è la volta delle galoppate di Binotto, che pur mantenendo i piedi per terra sembra a tratti spiccare il volo sulla propria corsia di competenza. È in questo stato di cose che il Bologna di Signori arriva alle due semifinali.
Con il Marsiglia la storia è piuttosto nota. Il vantaggio di Paramatti. Il fallo di Antonioli, la doppia trasformazione di Blanc al minuto 87. L’errore di Signori. Il rosso a Marocchi. I calci e pugni nel tunnel, Mangone e Maini contro Dugarry e soci. I razzi, i feriti. La sintesi di Carletto, che avrebbe «preferito uscire contro una squadra più forte». Binotto, tolto al 75’ per Cappioli, lascia il campo da finalista della coppa e assiste, dalla panchina, al tracollo dei suoi. È un Gene Kelly un po’ più triste, che sotto la pioggia non canta più. In finale, poi, vince il Parma.
Se la stagione tocca il culmine (e le sessanta partite) grazie a uno spareggio in cui i rossoblu eliminano di rabbia l’Internazionale in un doppio confronto per l’ammissione alla Uefa, il germe della delusione va ricercato nel marzo di quello stesso anno. Al Dall’Ara, a febbraio, la Fiorentina passeggia, permettendosi di vincere 2-0 grazie alle reti di Rui Costa e Carmine Esposito, ex bomber empolese preso a rimpolpare un reparto gonfio di stelle. Al Franchi, al ritorno, Mazzone ci prova. Dopo venti minuti Bettarini fa arrivare la palla a Binotto, che supera Toldo con un pallonetto. Dopo un tempo esatto, dialogando con Signori, Jonatan la mette anche da fuori area. Trapattoni, costretto a inserire sia Oliveira che Batistuta, la vince a metà del primo supplementare. Bomba di Repka, tocco di Cois e Antonioli nulla può. Il rigore di Rui Costa, poco dopo, non è che un dettaglio. Binotto è distrutto. Mazzone, un po’ suo padre e un po’ suo nonno, cerca invano di consolarlo. In finale, poi, vince il Parma.
Un gol di prima dal limite dell’area, contro il Venezia, e il raddoppio di un giovanissimo (più o meno) Eriberto
Napoli, 1999: la Nazionale maggiore
Il coronamento del biennio è alla fine della stagione delle sessanta partite. Zoff, ct avvezzo ai re-inserimenti e agli esordi per merito, convoca Binotto e Vanoli in vista del test napoletano contro la Danimarca di Schmeichel, Helveg, Ebbe Sand. Jonatan senz’acca fa da spettatore dalla panchina, neanche fossero i Giochi del Mediterraneo o il tracollo marsigliese. Dopo quaranta minuti hanno segnato Fuser e Vieri. Poi, piano piano, prende piede il sentore che l’Italia di Zoff sia una squadra rimontabile. Rigore di Martin Jørgensen, pareggio di Wieghorst (entrato per il bulldog Tøfting). Il gol del sorpasso è di Tomasson, specialista in reti del 3-2.
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Binotto finisce di giocare, di fatto, a 26 anni. Lo ha appena comprato l’Inter di Cuper, cedendo al Bologna le prestazioni di Fabio Macellari. Si rompe in estate, confermando un trend fisico in linea con i guai delle annate precedenti. Le sei stagioni che seguono sono un lento, simbolico trascinarsi per campi onorando la causa: ottanta presenze totali, con un penoso rientro a Bologna nel 2004 e la retrocessione (allo spareggio, poi, vince il Parma). Trascurabili i passaggi a Verona, Como, Trieste e Pistoia.
Binotto, però, aveva previsto tutto. Quasi sapesse che i debiti contratti con gli dèi vanno onorati, il giocatore si era premunito, pagando da bere ai compagni di Bologna e a tutto lo staff alla diramazione delle convocazioni. Facendo il veneto, per non smentire i luoghi comuni; dichiarandosi incredulo, come è d’obbligo per ogni ragazzo chiamato alla vetrina delle vetrine dopo aver sempre militato in squadre di basso profilo. Lasciando che il primato, tra i concittadini, continuasse a spettare agli Aldo Serena o ai Marcello Agnoletto. Senza nemmeno esordire da azzurro, perché la compiutezza è una chimera, Erroll Flynn ha avuto il permesso di ritirarsi e di portare la propria storia di semifinali e panchine in giro tra i settori giovanili, predicando disillusione ad allievi che hanno bisogno di imparare a suon di umiltà crudo realismo.