Una delle cose per le quali è più lecito invidiare chi ha avuto la forza, il talento e la fortuna di costruirsi una carriera da sportivo professionista, è il fatto di poter scegliere quando andare in pensione. Prendiamo ad esempio in esame i calciatori. La stragrande maggioranza di loro ha il privilegio di decidere il tempo, il luogo e il modo della propria dipartita come professionista. Alcuni, sospesi tra il voler tornare a casa, il più romantico dei romanticismi, e la vanità di volersi sentire davvero amati dopo una carriera raminga e priva di punti di riferimento, chiudono tra gli applausi dello stadio che li ha visti esordire, in una perfetta ringkomposition. Altri, più pragmatici, optano per la via lastricata d’oro di un ultimo anno di fatiche alleviato da un contratto pesantissimo strappato in qualche campionato condannato ad essere eternamente considerato in rampa di lancio. Altri ancora, forse i più privilegiati di tutti, riescono a chiudere grazie ad un ultimo anno di rinnovo nella squadra che li ha resi grandi, salutando con una sostituzione negli ultimi minuti dell’ultima giornata di campionato una tifoseria che li ha amati a lungo. Sono soltanto due le categorie di calciatori ai quali non è concesso tutto questo: quelli stroncati da un infortunio troppo duro per essere recuperabile e quelli che a causa di pessime prestazioni e di richieste troppo esose finiscono per non trovare nessuno abbastanza coraggioso da ingaggiarli.
È sinceramente difficile provare a individuare quale di queste due categorie incontri una fine più straziante. Nella vita di ognuno arriva il momento in cui è doveroso lamentarsi del destino, delle coincidenze, del caso, scaricare ogni responsabilità su qualche entità intangibile e iniziare a scrivere nella propria mente un bellissimo romanzo ucronico su un futuro che non ci sarà mai. Allo stesso modo nella vita di ognuno arriva il momento in cui è doveroso lamentarsi di se stessi, guardare in faccia una realtà rovinata dalle proprie scelte sbagliate, dalle proprie inadempienze, e avere il coraggio di ammettere la propria, totale, responsabilità. Probabilmente potremmo dividere l’umanità in due gruppi di uguali dimensioni chiedendo quale sia di questi due finali il preferito, o perlomeno il meno temuto. Una domanda oltretutto inutile perché, si sa, queste fini non si scelgono. Arrivano, e basta.
Nell’autunno del 2013 Ricardo Quaresma è, di fatto, un ex calciatore. Sono ormai mesi che vive nell’angoscioso limbo dei giocatori senza contratto, e ormai si è già giocato anche quella che solitamente è l’ultima carta a disposizione in mano a chi si trova nella sua situazione. Ha appena compiuto trent’anni, e ha già fallito anche nel luogo in cui sembra impossibile fallire, la Pro-League degli Emirati Arabi. In fuga da un’Europa in cui non era riuscito a farsi capire neanche quando ha mostrato il meglio di sé, era arrivato a Dubai nel mese di gennaio, legandosi all’Al-Ahli con un contratto di diciotto mesi, il giusto tempo per rimettersi in sesto senza pressioni. Nella conferenza stampa di presentazione dichiara apertamente che il suo arrivo nel Golfo è esclusivamente figlio della volontà di tornare a sentirsi un giocatore di calcio, a prescindere dal luogo in cui si trova: «Non so davvero niente dell’Al-Ahli e della Pro League» ammette, candidamente.
Bastano cinque mesi, però, per capire che neanche quello è il posto giusto per rilanciare una carriera funestata da fallimenti sempre più pesanti. Quaresma si libera, ed è liberato, dal contratto con l’Al-Ahli a maggio, in prossimità dell’apertura della sessione di mercato in Europa, nella speranza di ritrovare, finalmente, un contratto in un campionato importante. L’estate passa, nessuna squadra si fa viva, e inizia a prendere corpo un’amara considerazione: Dibba Al-Fujairah – Al-Ahli, finita 1-0 per i padroni di casa, potrebbe essere stata l’ultima partita da professionista di Ricardo Quaresma. È difficile pensare che un giocatore possa scegliere di andarsene di scena così. È ancor più difficile pensare che a farlo sia stato uno che, dieci anni esatti prima, era indicato come uno dei giovani più promettenti del calcio mondiale.
A 20 anni, appena acquistato dal Barcellona
Una delle squadre giovanili seguite con più attenzione dai grandi club europei a inizio del secolo scorso è lo Sporting Lisbona. Nell’under 19 dei Leões ci sono sono Joao Moutinho, Miguel Veloso e Hugo Viana, ma soprattutto ci sono Cristiano Ronaldo e Quaresma. I due, nati soltanto a sedici mesi di distanza l’uno dall’altro, sono considerati il miglior frutto del settore giovanile lusitano dai tempi di Luis Figo, che proprio nel 2000 vince il suo primo, e ultimo, Pallone d’Oro. Nell’estate del 2003 Joan Laporta vince le elezioni presidenziali di un Barcellona reduce da quattro anni senza trofei, un’eternità per i catalani, e il suo biglietto di presentazione sono gli acquisti di Gio Van Bronckhorst, Rafa Marquez e Ronaldinho. Al momento di scegliere il giovane su cui puntare per il Barça del presente e, soprattutto, del futuro, Laporta decide di ripetere l’operazione Figo andando a pescare tra le fila dello Sporting Lisbona. Senza esitazione, la scelta ricade su Ricardo Quaresma, considerato un investimento più solido di Cristiano Ronaldo, che, poi, nel corso della stessa estate fa innamorare Ferguson nell’amichevole che cambierà la sua vita, e in parte anche il calcio dei nostri tempi.
Da quel momento in poi, le carriere di Ronaldo e Quaresma iniziano a divergere come affluenti di uno stesso fiume separati da una montagna alta migliaia di metri. Nel decennio successivo Ronaldo diventa l’esempio vivente di come l’attitudine al lavoro e la forza di volontà possano trasformare una base di talento in un macchinario perfetto, il risultato finale di una delle più devastanti auto-sperimentazioni sui propri limiti della storia del calcio. Nello stesso lasso di tempo Quaresma diventa l’esempio vivente di come l’indolenza e l’incapacità di resistere all’affascinante baratro dell’effimero possano trasformare una base di talento in una macchietta, il risultato finale di una delle più devastanti auto-distruzioni della storia del calcio. Come se non bastasse, inoltre, ogni suo fallimento viene amplificato da un’opinione calcistica mondiale che, a partire dai giornalisti professionisti fino ad arrivare all’ultimo dei commentatori da bar, si trova compatta nel bersagliarlo. Tolto Balotelli (del quale non a caso lo stesso Quaresma ha detto nel 2014: «È un bravo ragazzo, non è vero ciò che dicono di lui, è sempre sotto pressione, parlano sempre troppo di lui. [..] Mario è uno dei migliori giocatori del mondo») se esiste un calciatore contemporaneo perfetto per diventare oggetto di scherno e di critiche, questo è Quaresma: un passato da promessa assoluta del calcio mondiale, contratti pesanti, un procuratore potente, oscuro e per questo inviso ai più come Mendes, uno stile di gioco fumoso e poco concreto, una tensione irresistibile per gli assist – molto meno presenti nei tabellini – invece che per i gol – spesso parametro di giudizio assoluto -, un carattere difficile, il corpo pieno di tatuaggi, gli orecchini grandi come palloni, e, come se non bastasse, un trademark shot insolito e con un alto coefficiente di rischio come la trivela.
Il risultato è che questa pesante coltre di giudizio copre, facendo scomparire, quella che in realtà è una personalità interessante e decisamente diversa da come è ritenuta essere dal sentire comune. Nella sua prima intervista da giocatore dell’Inter, rilasciata alla Gazzetta dello Sport nel settembre 2008, si può leggere, tra le tante cose, le seguenti frasi: «Lui [Figo, ndr] è un craque e io no. [..] Il mio è il calcio di un ragazzo che ha ancora bisogno di dimostrare tante cose», e, in risposta alla richiesta di individuare un aspetto sul quale migliorarsi, «Il calcio è fatto di molte cose, è difficile dirne una soltanto. Devo perfezionarmi tatticamente e magari segnare qualche gol in più: posso farlo e lavorerò per questo, anche se un assist per me è come un gol, e non soltanto perché si dice sempre così. Per me è così davvero». A rileggere queste parole a otto anni di distanza non sembra possibile che un giocatore apparentemente così consapevole dei propri limiti sia passato alla storia come uno dei sopravvalutati più boriosi a essere mai transitati nel calcio italiano.
Sul finire del 2013, mentre Ronaldo sta per essere incoronato, nuovamente, come miglior calciatore del mondo, anche Quaresma raggiunge un obiettivo fondamentale per la sua carriera, che era apparentemente in procinto di spengersi. Il Porto, nel quale aveva militato tra il 2004 e il 2008, chiama, lui risponde e il primo gennaio 2014 Quaresma viene presentato nel corso di un allenamento a porte aperte al quale prendono parte più di diecimila tifosi dei Dragões. Non sarebbe corretto dire che in quel momento la sua carriera ri-inizia. In quel momento la sua, nuova, carriera inizia. Il secondo Quaresma è sicuramente più vecchio, meno agile e fisicamente più massiccio, ma è anche, e soprattutto, una versione perfezionata del giocatore circense visto al Porto nel decennio precedente. Restano le giocate a effetto, le sterzate improvvise, gli innumerevoli colpi di tacco, ma stavolta sono meno gesti fine a sé stessi, pura art pour l’art, e più scelte razionali di un giocatore dotato di un ventaglio di scelte nell’uno contro uno semplicemente più ampio di quello degli altri.
Nella campagna in Europa League del Porto della stagione 2013/2014, alla quale prende parte nei sedicesimi di finale, segna tre gol e serve due assist, risultando parte attiva in cinque dei dieci gol segnati complessivamente dai Dragões nel corso della fase ad eliminazione. A una maggiore concretezza, però, non si accompagna una minor spettacolarità: contro l’Eintracht Francoforte recupera palla sulla linea della rimessa laterale, salta l’uomo in marcatura con un cambio di direzione improvvisa e tira di interno dal limite del lato corto dell’area di rigore con un giro tale che quando il portiere esce in presa il pallone è già battuto sul palo e finito in rete; contro il Napoli danza nel fazzoletto lasciato libero da Inler, Behrami e Ghoulam e tira con una potenza quasi oltraggiosa sotto la traversa; con il Siviglia tira a incrociare nel sette da ben oltre il limite dell’area con una naturalezza tale da far sembrare banale un gesto tecnico dall’altissimo coefficiente di difficoltà. La stagione successiva, Julen Lopetegui arriva ad Oporto per portare un progetto incentrato sui giovani: non solo conferma Quaresma, ma effettua su di lui, benché trentaduenne, la stessa operazione di educazione tattica adottata per calciatori ventenni e privi di esperienza. Con lo spagnolo in panchina Quaresma sembra, forse per la prima volta nella sua carriera, un calciatore pienamente maturo, capace di prendersi in carico responsabilità anche in fase di copertura, impeccabile dal punto di vista dell’atteggiamento, e disputa così la sua miglior stagione di sempre, togliendosi anche lo sfizio di segnare una doppietta al Bayern Monaco nei quarti di finale di Champions League.
Il bellissimo gol in Europa League contro l’Eintracht, nel 2014
Ciò che sembra veramente cambiato è soprattutto il modo in cui viene approcciato Quaresma sia come uomo sia come giocatore. Passati ormai troppi anni dalla sua gioventù scintillante, smette finalmente di essere considerato per ciò che non è stato a favore di un giudizio più sincero e razionale su ciò che è: un’ala destra esperta, ottima per una squadra di medio-alto lignaggio, spettacolare in alcune giocate ma allo stesso tempo solida. Dopo aver sistemato la memoria di sé a Oporto, Quaresma decide di lasciare il Portogallo nell’estate del 2015 per chiudere anche il conto lasciato in sospeso in Turchia. Nel giorno del suo ritorno a Istanbul, dopo essere sbarcato in un aeroporto stracolmo di tifosi del Besiktas, dichiara di aver scelto di vestire di nuovo la maglia bianconera per raggiungere finalmente quella vittoria del campionato che era mancata nel corso della sua prima esperienza. La vittoria del titolo turco da parte del Besiktas nella stagione appena conclusa è un’allegoria della Primavera, un gigantesco monumento alla rinascita. Quaresma, maturo e consapevole di sé stesso, decide di tornare, prende per mano la squadra e la porta esattamente laddove aveva promesso. A questo monumento Quaresma ha recentemente aggiunto due ornamenti che rendono la sua seconda carriera assurda, nel bene, tanto quanto lo era stata la prima, nel male: il gol allo scadere dei tempi supplementari di Portogallo-Croazia e il rigore che ha chiuso la sfida ai rigori tra Portogallo e Polonia, entrambi decisivi per il passaggio del turno. Chiudere una carriera a causa di sé stessi è doloroso quanto chiudere una carriera a causa di un infortunio. L’unica cosa che può far pendere la bilancia a favore della prima, è che a un certo punto, allo stesso modo in cui si è deciso per la distruzione, si può, improvvisamente, decidere per la ricostruzione e, semplicemente, ricominciare.