Gli Europei 2016 vanno in archivio con la sorprendente vittoria del Portogallo. Non certo fra i favoriti alla vigilia del torneo (e nemmeno classificati fra i possibili outsider), i lusitani hanno finito per imporsi al termine di un torneo più equilibrato del previsto, forse non spettacolare (soltanto 108 goal prodotti in 51 partite a una media di 2,1 a partita, la più bassa dal 1996 e la terza peggiore dal 1980), tanto da richiamare alla mente il Mondiale di Italia ’90, ma tatticamente interessante. A proposito di tattica: al termine di questo mese di partite giocate in terra francese viene da chiedersi cosa abbia lasciato l’Europeo da questo punto di vista, se abbia cioè segnalato o meno alcune tendenze che potrebbero riproporsi durante le prossime stagioni del biennio che ci separa dai Mondiali di Russia previsti per il 2018.
Caro, vecchio catenaccio
In realtà, il vecchio e tradizionale verrou, imperniato sul libero e su rigide marcature a uomo in difesa, è morto e sepolto. Tuttavia, non si può negare come in questi Europei 2016 abbiano si sia visto il ritorno a un calcio prudente, difensivo, basato su un’attenta copertura degli spazi e su veloci ripartenze. Anche la marcatura a uomo è, in qualche modo, ricomparsa: non più in difesa, come all’epoca dell’italico catenaccio, ma a centrocampo, dove abbiamo visto mediani e interni appiccicarsi, come ombre, ai rispettivi avversari. Così il Portogallo, dodici anni dopo, ha fatto propria la lezione imparata nell’Europeo casalingo del 2004, quando venne sconfitto in finale dalla Grecia di Otto Rehhagel: come i greci in quella lontana estate, così i portoghesi sono stati costruiti dal loro tecnico Fernando Santos (forse, non a caso, passato con successo anche sulla panchina della nazionale ellenica) per adattarsi agli avversari. Il loro 4-1-3-2 prevedeva William Carvalho nella posizione di libero davanti alla difesa, appena dietro tre centrocampisti centrali molto vicini fra loro: una disposizione simile a quella della Grecia di Rehhagel, con Basinas a protezione del reparto arretrato dietro d un centrocampo molto stretto.
All’interno di questo sistema tattico, i centrocampisti lusitani sono stati spesso incaricati di marcare a uomo i propri dirimpettai. Contro il Galles, Fernando Santos ha schierato Adrien Silva (unico caso di trequartista i cui compiti principali erano di marcatura) a uomo su Joe Allen. In finale, contro la Francia, Silva e Nani si occupavano di Pogba e Matuidi.
Anche l’Italia ha utilizzato con successo marcature personalizzate nella zona nevralgica del campo. Contro la Spagna, Antonio Conte ha utilizzato Pellè su Busquets, con Parolo a marcare Iniesta e De Rossi che ad alzarsi su Fàbregas. Contro la Germania, Éder e Pellè avevano il compito di “francobollare”, a turno, Toni Kroos, tagliandolo fuori dal gioco. In generale, squadre meno dotate tecnicamente ma organizzate difensivamente hanno disputato un torneo migliore di altre formazioni più equipaggiate in termini di talento. Galles, Islanda e Irlanda del Nord, grazie a una efficace organizzazione difensiva, hanno tutte disputato un Europeo ben oltre le aspettative. Nazionali come Croazia, Belgio e Inghilterra, accreditate alla vigilia come possibili sorprese (se non come potenziali vincitrici del torneo) hanno al contrario deluso, nonostante la qualità delle proprie rose. Difesa e contropiede hanno avuto la meglio su possesso e gioco di posizione: lo dimostra il fatto che 8 dei 10 migliori team per possesso palla sono stati eliminati prima dei quarti di finale (Spagna, Inghilterra, Svizzera, Austria, Ucraina, Russia, Ungheria e Svezia).
Il talento non basta
La valutazione del successo o dell’insuccesso di una squadra in un torneo è data soprattutto dalle aspettative della vigilia. In tal senso, le eliminazioni di Croazia, Inghilterra, Belgio e Francia sono traducibili in “grande delusione”, mentre Portogallo, Italia, Islanda, Galles e Irlanda del Nord hanno disputato un campionato europeo ben oltre i pronostici della vigilia. Legando questa considerazione a quanto detto nel paragrafo precedente possiamo sottolineare come queste squadre abbiano avuto una caratteristica in comune, cioè quella di avere a disposizione meno talento ma un’organizzazione tattica migliore. Ergo, di essere guidate da allenatori di livello. Fernando Santos, Conte, Lagerback, Coleman e O’Neill hanno dimostrato di saper organizzare la proprie squadre e di saper leggere le partite meglio di quanto fatto dai Del Bosque, Hodgson o Wilmots. Il cammino dell’Inghilterra, per esempio, è stato compromesso da alcune scelte del proprio ct, come quella di schierare Wayne Rooney come interno di centrocampo o quella di utilizzare il proprio attaccante migliore, Kane, per battere i calci d’angolo. Tutto questo unito a una mancanza di fluidità nel gioco che, di fatto, ha reso i Leoni d’Inghilterra incapaci di produrre un efficiente gioco offensivo. Wilmots, da parte sua, ha sprecato una grande occasione, quella cioè di poter portare una nazionale mai così ricca di qualità individuale sul tetto d’Europa. Completamente incapace di contrapporsi a Conte nella partita d’esordio, con i belgi incapaci di difendere contro il gioco verticale dell’Italia, Wilmots riusciva in parte a raddrizzare la situazione nelle successive partite (contro avversari di livello inferiore) prima di venir eliminato dal Galles in un’altra battaglia tattica vinta nettamente dall’allenatore rivale, grazie anche agli errori di una linea difensiva dove Denayer e Lukaku non sono stati all’altezza dei titolari Vertonghen e Vermaelen. Se escludiamo il classico 4-4-2 con disposizione a zona di Lagerback ed il 4-1-3-2 di Fernando Santos, tutti gli altri allenatori citati fin qui come esempi positivi hanno utilizzato la difesa a 3. E proprio la difficoltà nell’affrontare squadre schierate in questo modo è stata un’altra delle caratteristiche tattiche di questi Europei.
Il Galles di Coleman è la squadra, fra quelle che hanno adottato una linea difensiva a 3/5, a fare maggior strada nel torneo, essendo arrivata fino alle semifinali. Organizzati in un 3-4-2-1 con Allen e Ledley come interni di centrocampo, i gallesi hanno poi schierato Bale e Ramsey a ridosso di Robson-Kanu. La disposizione della squadra in fase di non possesso palla era molto flessibile: a volte un 5-2-3, altre un 5-3-2. In particolare, era il ruolo di Ramsey a determinare la variante, con il giocatore dell’Arsenal che aveva il compito di alzarsi in pressione sulla linea degli attaccanti o di arretrare sulla linea dei centrocampisti. I due trequartisti, Bale e lo stesso Ramsey, hanno avuto il ruolo di schermo davanti ai centrocampisti avversari, costringendo i rivali a giocare palla sulle fasce, dove il Galles aggrediva con le salite degli esterni difensivi. Un sistema tanto semplice quanto efficace, che ha dato i suoi frutti.
Il ritorno del centravanti di ruolo
L’Italia con Pellè, il Portogallo in finale con l’ingresso di Éder, il Galles con Robson-Kanu o Vokes hanno dimostrato l’importanza di avere, in rosa e in campo, un classico numero 9 su cui appoggiarsi con palloni lunghi per saltare il centrocampo ed evitare così il pressing avversario. Prendiamo le due partite chiave degli Azzurri: contro la Germania, nei quarti di finale, gli uomini di Conte sono ricorsi al lancio lungo in ben 58 occasioni. Contro la Spagna, nel turno precedente, i lanci lunghi sono stati 39, un numero comunque notevole. Proprio il lancio da Bonucci a Pellè è stata una delle chiavi tattiche della squadra di Conte.
In finale Fernando Santos ha chiesto ai suoi di appoggiarsi su Éder fin dal momento del suo ingresso in campo al 78’ al posto di Sanches. Ma anche la Francia ha avuto bisogno di Giroud come terminale offensivo per far proseguire la propria manovra. Questo sia quando i francesi hanno giocato con il 4-3-3 sia quando si sono schierati con il 4-2-3-1. Per restare alle loro ultime tre partite, gli uomini di Deschamp hanno utilizzato 37 palloni lunghi contro Islanda e Germania e 31 contro il Portogallo. L’idea era quella di far mettere palla a terra a Giroud per utilizzare poi gli inserimenti dei compagni in appoggio. La stessa Germania ha dimostrato di essere più performante quando ha schierato Mario Gómez, la cui importanza si è vista non soltanto contro l’Italia (quando, da un suo movimento a uscire, è nato il gol tedesco) ma anche contro la Francia, quando la sua assenza ha privato la Germania di un terminale offensivo in grado di concretizzare la mole di gioco espressa dai tedeschi e di scardinare il bunker dei francesi.