Le piastrelle venate di un verdognolo smeraldo, un surrogato della tonalità dell’erba. Un tavolo, delle sedie, avversari da dribblare. Una parete attrezzata addossata al muro come una curva, i piccoli oggettini assiepati come tifosi in balconata. Le imposte aperte, a indicare i due pali, e la palla che schizzava immancabilmente in mezzo, trattenuta dalla ringhiera sinusoidale, che circondava il balconcino, che le impediva di cascare tra il viavai della strada. Era il mio campo da gioco ancor prima che potessi avere cognizione di quanto fosse grande un campo da gioco, era il mio stadio, teatro di campionati e coppe, palcoscenico preposto alla sublimazione estetica del gioco della palla (tradotto: sbem, calcio di punta) e alla puntigliosa riproduzione di certi gol diventati manifesti dei miei anni Novanta. Uno su tutti, senza timore di ripensamenti: Masinga, Inter-Bari 0-1, stagione 1997/1998.
È aver imparato una poesia a memoria, però diversa da la nebbia agli irti colli, piovigginando sale che mi imponevano a scuola. Faceva pressappoco così: palla per Volpi, spostato sull’out di destra, fa partire un traversone per Masinga, colpo di testa, parata di Pagliuca, la palla rimane lì, ancora Masinga, gol! L’accompagnamento coreutico consisteva essenzialmente in una palla gettata a caso di là, un colpo di testa abbozzato di qua, il tocco che beffa un immaginario Pagliuca a seguire. Della partita ricordo poco o niente, e quel che ne so l’ho ripescato negli anni su Youtube: le sgroppate di un Ronaldo indiavolato neutralizzate da Mancini, Zanetti che va al tiro dopo averne saltati quattro o cinque prendendo fiato una sola volta, giocatori dell’Inter che saltano un po’ da dovunque, ma intanto basta il gol di Masinga, i compagni di squadra che lo sommergono di affetto mentre gli accarezzano la testa – questo sì che me lo ricordo – come nell’intento di lucidargliela.
Da dove arrivava Masinga? Bari è stato sempre un grande crocevia di facce, lingue e tradizioni, e in quegli anni la squadra ne incarnava lo spirito. Nonostante una breve parentesi nella Salernitana, da dove fu pescato, la sua carriera si sviluppò quasi tutta all’estero, come fu per tanti altri giocatori arrivati negli anni Novanta. Bari ha innalzato a eroi mitici gente marginale ma esotica (come è solito dire, “San Nicola è amante dei forestieri”), piuttosto che calciatori che poi avrebbero avuto maggiori fortune. Enyinnaya, non Cassano; Madsen (Michael, proprio come il Budd di Kill Bill), non Perrotta; Neqrouz, non Bonucci, per fare un nome più recente. Perciò quando, tra amici, ci si lascia andare allo struggimento dei ricordi, quasi sempre si finisce per almanaccare nomi improbabili. Guerrero, per esempio: fortissimo, che giocatore, mitico, anche se poi nella realtà, pur non volendolo riconoscere, non ha affatto impressionato. Conta la percezione, non la realtà: Guerrero è l’eroe di quegli anni, quello impresso indelebilmente nella memoria per aver inventato l’esultanza del trenino, il nome che si è intrufolato persino nel motto dei Giochi del Mediterraneo di Bari ’97 (“A Bari nessuno è straniero”, e i tifosi aggiungevano “nemmeno Guerrero”), quello citato persino nel cinepanettone Selvaggi, quando il barese Solfrizzi lo addita come “la punta di diamante del Bari”. L’indulgenza, se non addirittura la simpatia, è il tratto caratteristico per quella serie di giocatori, bravissimi o imbarazzanti che fossero, che hanno affollato i nostri anni dell’infanzia, che hanno popolato con le loro facce impresse sulle figurine le nostre scrivanie e che hanno stimolato la nostra fantasia calcistica. Foss’anche Pascual De Gregorio.
Però Masinga era forte per davvero, o perlomeno fu molto importante negli anni in cui giocò a Bari: 24 gol in 75 partite, non tantissimi ma pesanti. Il sudafricano era potente e fisico, con una discreta tecnica di base, che lo rendeva utile in ogni situazione di gioco: era un buon finalizzatore, ma anche utilissimo nel tenere palla lontano dalla propria area in una squadra zeppa di calciatori con caratteristiche difensive. Quando, nel 1998, in biancorosso arrivò Yksel Osmanovski, uno svedesino ricercato ed elegante, Masinga trovò l’ideale partner per l’attacco, e quell’anno segnò undici reti. Fu anche la stagione in cui Il Bari ci fece credere che quello fosse l’anno giusto per la prima esperienza europea, dopo un girone di andata in cui fu la squadra con il minor numero di sconfitte; e l’illusione che, come tante innumerevoli altre volte, scivolò via, cristallizzata in quel pomeriggio di sberle a Venezia, dove Tuta aveva segnato un gol che forse non avrebbe dovuto segnare e a cui fece seguito un numero imprecisato di non-vittorie. La consolazione dell’Intertoto era pur sempre una consolazione – in una stagione in cui, peraltro, persino la Juventus si vide costretta a disputarlo – ma il presidente Matarrese promise che in Europa ci saremmo andati «dalla porta principale». L’anno seguente, il Bari si salvò alla penultima giornata, e l’anno ancora dopo raccolse appena 20 punti e retrocesse.
Ma in quei due anni Masinga giocò pochissimo, frenato dai continui infortuni, un’assenza puntuale che fu tra i motivi che spinsero a lanciare un giovanissimo Cassano in prima squadra. Il suo progressivo allontanamento dal campo fu la scoperta lenta e dolorosa di un’amarezza che da piccoli non avevamo messo in conto: si può segnare, ma ci si può infortunare; si può diventare uomini squadra, ma poi cambiare maglia; si può essere promossi, ma poi si può essere retrocessi. Non averlo in campo fu come non avere dalla nostra particolari superpoteri, con quel nome, poi, da supereroe di cartoni giapponesi. Senza di lui, cominciammo a vedere, in particolare nell’anno della retrocessione, come il calcio, e la vita, potessero essere drammaticamente voltafaccia: non più vittorie contro l’Inter – cinque di fila, e il sudafricano segnò quattro volte in quattro incontri – ma un Bari-Perugia perso 4-3 dopo essere stati in vantaggio di tre gol o un Bari-Atalanta dove Daniel Andersson sbagliò non uno, ma due rigori nella stessa partita, ammazzando per sempre la mia voglia di partecipare al Fantacalcio. Masinga era la certezza che potevamo farcela. E anche la certezza che avevamo bisogno di lui, per farcela.
Una raffica di gol del sudafricano
Dov’è finito Masinga, adesso? È come chiedersi dove sia finito il compagno di banco; cosa faccia nella vita l’amico che abitava nel palazzo a fianco; in che città si sia trasferita la ragazza del liceo. Ma rivedere l’amore dei sedici anni non restituisce la dolcezza di quei giorni; ritrovare su Facebook gli amici con cui giocavi a calcio compone una galleria di sconosciuti, non di quei volti familiari a cui urlavi «uagliò, pass’ u pallon». Così è per Masinga: che effetto farebbe, rivederlo oggi, foss’anche con una maglia biancorossa addosso? E allora lo trovi altrove. Masinga è nei bocconi voraci e irregolari che divorano un pezzo di focaccia caldo e unto, e poi passarsi le mani per pulirsi sui pantaloni; Masinga è nell’odore del mare portato dal vento nelle strade a scacchiera del borgo murattiano; Masinga è in un vecchio sketch comico di Antenna Sud; Masinga è in quei giocattoli inscatolati e chiusi nello scantinato, e anche in quel quadro appeso in salotto. È nella palla che sbatteva tra sedie e tavoli, e al 32’ della ripresa il Bari è in vantaggio a San Siro.