Introduzione – Modelli, archetipi, prototipi
L’ultima delle generazioni più morbosamente attaccata al concetto stesso di generazione, quella dei sempre più noiosi trentenni, sembra spesso mentire in blocco su un punto nevralgico dell’educazione calcistica dei Novanta. È una menzogna che si basa su un evidente sovvertimento del principio di autopsia: non a tutti – ma solo a chi ha qualche anno in più – è capitata la fortuna di godere autopticamente delle annate italiane di Marco Van Basten. Troppo piccoli per capirne anche solo qualcosa, gli under-32 si lasciano scappare che il prototipo del nove sarebbe stato, per loro, l’olandese dalla caviglia vigliacca. Non è in discussione il fatto che i suddetti calciofili abbiano conosciuto e fatto in tempo a veder giocare Van Basten, ma sembra difficile accettare la stessa istanza in termini di archetipi e modelli. Tanto più che la carriera del cigno di Utrecht è finita troppo presto perché potessimo goderne appieno nella luce saturata dei ‘90, e allora quando si tratta di nominare il numero 9 degli anni di plastica, a nostro avviso, c’è un solo nome: Gabriel Omar Batistuta.
L’intento di queste righe è dunque quello di rendere giustizia a una verità storica. Non tanto in senso generazionale, quanto in senso qualitativo. Due prospettive, attraverso lo sguardo di due coetanei, per cercare di cogliere quanto, del Bati, è stato l’essenza: l’umano e il divino, il nobile e il subdolo, il bene e il male. Il tutto attraverso aneddotica del tutto parziale e soggettiva, perché il resto (il Bati, il suo valore, il suo ruolo) è oggettività allo stato puro.
Batistuta e Maldini, novembre 1996 (Allsport UK /Allsport)
Divinizzazione
di Simone Vacatello
Parte I – Il Cristo di Avellaneda
C’è un discorso tecnico da fare su Batistuta, e riguarda l’attrazione magnetica, al punto che potremmo definirla ossessione, nei confronti della porta, e la grazia e la potenza che si fondono e si sublimano nella capacità quasi simultanea di sapere come toccare il pallone per metterlo dove (in rete). Non importa quanto spazio abbia a disposizione, né quanto tempo gli sia rimasto prima che il difensore o il portiere intuiscano la direzione del movimento o del tiro. Batistuta è una sorta di uomo di Vitruvio del gol, i suoi arti formano cerchi e quadrati che danno la proporzione perfetta della rete, poiché possono coordinarsi nella maniera più consona alla conclusione. È come se il suo corpo producesse un campo biometrico adatto a interpretare istintivamente il movimento nello spazio.
Questo discorso tecnico già di per sé trascende i limiti dell’ordinario, specie se unito alla personalità poco ciarliera ma solare dell’uomo in campo, ma se a questi elementi si aggiungono anche l’incapacità di risparmiare il proprio corpo ai fini del trascinamento della squadra e soprattutto l’aspetto fisico, quello di un Cristo di Avellaneda, il profilo di Batistuta assume contorni semidivini.
Contorni resi più vividi dalla pietas del 9 dei 9, dal suo rispetto per l’avversario, dall’esultanza liberatoria di chi non infierisce necessariamente sugli opponenti ma sfoga la tensione drammatica che ha portato al gol, spesso con un gestualità sorniona, volentieri con gioia incontenibile. Tutti questi sono fattori ascrivibili al Batistuta giocatore, che vanno di pari passo con i gol nella costruzione del suo mito.
Poi c’è la dimensione personale e privata, in cui la seconda elementare mi sembrò una non scontata stagione in più, nella lunga strada verso la pubertà, strappata con i denti e le unghie a quel Vietnam che era stata la prima elementare. Una volta sopravvissuti al primo impatto con coetanei dalla varietà linguistica diversa, e con strade su cui era più facile sbucciarsi le ginocchia, era necessario trovare punti di contatto per arrivare in terza integri e integrati. Possedere il calcio, nell’epoca pre-Fifa e pre-Pes e soprattutto pre-pay tv, equivaleva a possedere le magliette originali o le figurine. In un pomeriggio di gennaio in cui si festeggiava il mio compleanno io possedevo Voeller, Baresi, Aldair e Van Basten, Kohler, Careca, Branco e lo scudetto del Napoli. Ma mi mancava Battistuta della Fiorentina, pronunciato con due “t”. E mancava anche a molti miei compagni di classe. Riuscii a ottenere da un mio cugino più grande quella figurina in regalo, e mi colpì il fatto che a differenza di molti altri giocatori, quell’argentino capellone aveva alle spalle non un campo d’allenamento ma uno stadio che sembrava gremito. Quel particolare conferiva a quella figurina una vitalità e un dinamismo che ne facevano qualcosa di speciale.
Detto questo, eravamo a metà della stagione 1991/92, in piena onda lunga di Nevermind dei Nirvana, e io non avevo la più pallida idea di chi fosse “Battistuta” della Fiorentina, alla sua prima stagione in Serie A. Perciò mostrai la figurina a mio nonno, per capire dalla sua reazione se fosse forte o meno. Mio nonno fece un cenno con la testa, e non lo faceva spesso. Perciò, quando la mattina dopo a scuola mostrai il mio trofeo ai compagni, ricordo che levai il braccio come a imitare il prete durante l’eucarestia. Il corpo di Cristo, ghignai, in anticipo sulla mia iconoclastia. Scelsi quelle parole in un secondo momento, perché mi colpì molto la reazione dei miei compagni, che alzarono la testa come abbagliati davvero da una visione divina. C’era qualcosa, in quella figurina. Io, il più piccolo della classe e l’ultimo arrivato, possedevo Battistuta-della-Fiorentina, e guadagnai il loro rispetto fino alla fine dell’anno. Quello fu il primo miracolo di Batistuta.
La prima metà degli anni Novanta, esteticamente, apparteneva ancora molto agli anni Ottanta. Qui Batistuta segna contro il Messico uno dei due gol con cui regalerà all’Argentina l’ultima Copa América della sua storia, per ora (Tim Clary/Afp/Getty Images)
Parte II – Passione e resurrezione
14 aprile 2002, dieci anni dopo, dieci anni di gol di Batistuta utili alla crescita quanto il latte a colazione e le proteine a pranzo. In una giornata da mezze maniche, distante solo 3 turni di campionato dal 5 maggio, all’Olimpico si gioca Roma-Parma e domani mi interrogano in classico greco. Sono agitato, e non soltanto per i poeti ellenistici e gli opportuni cenni sulla lingua, ma perché ieri notte ho sognato di essere allo stadio e di assistere all’ingresso in campo di una squadra di casa in dieci. Quando domandavo perché, mi rispondevano che era morto Batistuta. Ma nessuno voleva dirmi come. Da ancor prima del risveglio, quindi, sono pervaso da una sensazione luttuosa che a fatica riesco a togliermi di dosso anche ora che è giorno, perciò scelgo di ignorarla. Non è stata una stagione facile per il 9 dei 9: l’età che avanza ha reso ogni infortunio più pesante del precedente, e l’unico scudetto della sua carriera, accompagnato da 20 gol segnati con un ginocchio malandato, ha chiesto il conto al fisico e sollevato i primi scetticismi. Dopo l’ingresso trionfale in Gerusalemme, le palme tricolori, gli onori, è bastata una stagione opaca per insinuare a Roma il sospetto che si tratti di un Messia a tempo determinato, il cui tempo è quasi scaduto. D’altronde per ogni Cristo una passione, e per quello di Avellaneda ne è ufficialmente iniziata una.
Intorno al quarto d’ora, inseguendo una palla vagante nell’area avversaria, Cannavaro la scalcia fortissimo in acrobazia per allontanarla, ma Batistuta ci mette la testa provando a controllarla. Risultato: Cannavaro scalcia fortissimo Batistuta in testa, e questi cade a terra privo di sensi. I giocatori del Parma chiamano subito gli infermieri con ampi gesti. Cannavaro fa un cenno e si allontana dal corpo vinto con un paio di passi ansiosi, scioccati, come un pirata della strada che chiama i soccorsi ma vuole allontanarsi per elaborare. Dopo 30 secondi Batistuta non si rialza ancora. Chiaramente nella mi mente si dipingono da soli quadri di Lord Byron e urla strazianti affidano al vento oniriche cassandre sui bastioni di Troia, peraltro in fiamme. Mi si gela il sangue, Batistuta non si rialza e viene portato via in barella. Le lunghe chiome immobili, il ginocchio traditore finalmente rilassato, l’espressione drammatica del volto, prima tesa verso il gol ora è ora spenta, e sorda. E non posso dire a nessuno delle persone a me vicine perché sono diventato bianco in volto come uno straccio appena lavato.
Quando, dopo qualche minuto senza respiro, arriva da fuori campo la notizia che Batistuta si è ripreso, sta bene e verrà sottoposto in settimana ad accertamenti, per tutti si è trattato di un brutto spavento, ma per me, per Lord Byron e per Cassandra soltanto, egli ha vinto la morte.
Umanizzazione
di Alessandro Fabi
Preambolo (primavera 1994)
Da terzelementarista debole di stomaco, avevo sapientemente scelto di prendermi una pausa dalla gita – quell’anno a Ravenna, ritorno in giornata, pranzo al sacco – per evitare a me stesso e ai miei compagni una scomoda convivenza con i miei contenuti gastrici, e mi presentai a scuola. Le maestre, sorprese nel vedermi, mi chiesero se avessi intenzione di unirmi per un giorno a quelli di seconda o rischiare la quarta, con quelli di un anno più grandi. Senza esitazioni scelsi la quarta, pensando che un declassamento avrebbe avuto effetti letali per la mia reputazione. Fu una giornata quasi trionfale. Riuscii a seguire gli esercizi alla lavagna sul sistema metrico “al cubo”, feci un tema che mi sembrò apprezzato e dei disegni niente male, con cui riempii tutte e cinque le ore e mi guadagnai un discreto rispetto. Non darei troppa importanza al golletto che segnai a ricreazione, perché ero davvero a un metro dalla linea e non feci che toccare piano una respinta del portiere.
Dunque tutto bene, potevamo tornare a casa soddisfatti e pronti a fronteggiare i ravennati racconti da sballo del giorno seguente. Tra le tante analogie e differenze che notai in quell’escursione in quarta, mi colpì che Carlo, mio vicino di casa e non propriamente “un amico”, si era munito di bianchina (aka bianchetto-cancellina-scolorina) per dichiarare a chiare lettere il suo amore per uno dei più forti attaccanti del nostro campionato. Se Carlo era uno juventino d’acciaio, io ero, stando alle statistiche, un piccolo nerd fastidioso.
Oggi, con il senno di poi, so che quella dichiarazione mi colpì per una svista: sul lato lungo del cilindrico astuccio di Carlo, Invicta e blu scuro come da tradizione, campeggiava la scritta Battistuta. Notai il passaggio da “Bati-” a “Batti-”, errore ortografico piuttosto ordinario causato da un raddoppiamento fonosintattico proprio della nostra sensibilità da italofoni, cui ora posso aggiungere, cercando di motivare la genesi della scritta, l’idea di “forza” che un suono geminato porta con sé rispetto ad una consonante singola e per giunta intervocalica. Si sommi infine, come terzo fattore, un dato che si situa tra l’onomatopeico e l’esegetico: che il Bati fosse “Battistuta” era un fatto legato alla disinvoltura con cui il leonino in maglia Sammontana era in grado di battere il portiere e le difese avversarie, al rafforzamento di un’allitterazione della –t che finiva per rendere il suono e l’idea di un pallone calciato (battuto) con forza, di una difesa scardinata (battuta) fin dalle sue fondamenta, di una serie di avversari sconfitti (battuti) in sequenza.
Questo era come, domenica dopo domenica, il nostro immaginario infantile aveva canonizzato Gabriel Omar Batistuta, facendo sì che lo includessimo nel gotha dei centravanti di una Serie A piena di punti fermi ma priva di un riferimento “ideale” in fatto di numeri Nove. Per quanto ne avessimo pianto l’inattesa retrocessione in Serie B, accogliemmo tutti con gioia l’immediata promozione, pronti a vedere se lo score del centravanti sarebbe rimasto invariato rispetto agli anni precedenti. Fu addirittura meglio: da annate in doppia cifra, con picchi massimi di 16, il Bati iniziò ad andare regolarmente oltre i 20 annui. Fece una tripletta nel Mondiale americano (ma passò sotto silenzio, perché si parlò solo degli occhi spiritati del Pibe), divenne per la stampa il Re Leone e iniziò a sembrare a tutti noi, soprattutto i maschietti, il bell’uomo che saremmo voluti diventare una volta cresciuti. Da me, nel frattempo, continuavano a chiamarlo Battistuta.
Parte 1 – Estate 1996
È passato qualche anno, giusto quel tanto che mi è servito a cessare la mia dipendenza da Travelgum e a spingermi con la famiglia fino ai lidi di Cesenatico, per ingurgitare tonnellate di crescioni pomodoro e mozzarella e seguire lo sport dell’estate. Nella contesissima sala televisione del nostro albergo, al piano -1, si sta verificando un fenomeno singolare: il divano, mezz’ora prima della finale di Supercoppa tra il mio Milan e la Fiorentina, è deserto. Piano piano tuttavia la stanza si riempie, inizia a brulicare di mugugnanti anziani in occhiali alla Derrick, abbronzati piacioni di mezza età con al seguito i loro figli, adolescenti rampanti con il ciuffo e con già i peli sulle gambe. Il Milan è dato per favorito ma loro, spauracchio degli spauracchi, hanno il Bati.
Qualcosa mi inquieta, non riesco a tifare con la solita tensione. E pensare che solo qualche mese prima, nella sfida scudetto che ha portato i capelliani al 3-1 sulla viola, il mio contributo era stato determinante: valeva, cioè, la vecchia illusione – a metà tra superstizione e credenza religiosa – per cui il mio tifo fosse determinante per la vittoria dei miei (ovvero: io avevo fatto segnare il rigore a Baggio, io avevo determinato il 3-1 di Simone). Oggi è strano, mi sento disorientato e non ne capisco il motivo: sarà quel Reiziger titolare in luogo del ceduto Panucci, sarà il nuovo taglio del Bati, che ha abbandonato la criniera per un temporaneo stile più Nineties e meno Eighties.
Di fatto, dodici minuti dopo il fischio di Treossi, non capisco nemmeno chi sia a fare il lancio. Mi sembra un tipo biondiccio, ma per quanto io senta distintamente il nome di Cois non mi sento di escludere aprioristicamente una delle proverbiali visioni di Manuel Rui Costa. Il lancio in questione pesca Gabriel Omar, fronteggiato da Baresi e seguito da Maldini, che nemmeno prova a raddoppiare. Il Bati la aggancia di destro, facendo quello che i modaioli dei decenni successivi avrebbero etichettato come sombrero, quindi allontana da sé il Kaiser grazie al solo posizionamento del corpo e trafigge Rossi con un esterno destro dall’area piccola. Kaiser Franz è umiliato, io e i cinquantenni indivanati – milanisti e non – non sappiamo che dire. Il gol non è solo mostruoso: è umiliante.
La necessaria reazione milanese si concretizza, dieci minuti più tardi, nella cosa più alla Dejan Savicevic che Dejan Savicevic sia in grado di fare: accentrarsi dalla destra usando solo il sinistro, lasciar partire una rasoiata dal limite dell’area, fulminare Toldo nell’angolino. È un retaggio di Capello, che permette alla compagine appena ferita nell’orgoglio di salvare la dignità e chiuderla in cassaforte.
Batistuta, Savicevic, Batistuta: tre gol, tutti belli
Sette minuti alla fine, fallo di Desailly su Batistuta. Posizione abbastanza centrale, moltissimi i metri dalla porta di Rossi. Ora sereno, aspetto che lo psicodramma prenda corpo entro il centoventesimo: non mi rendo conto di quello che sta accadendo. La rincorsa, per giunta, è piuttosto breve. La bomba che parte dal destro del Bati sorprende me, i cinquantenni dell’albergo, Seba Rossi sul suo lato migliore e tutto il Meazza, palcoscenico costretto, suo malgrado, ad applaudire il sacrosanto trionfo di un avversario che è parte della storia del gioco.
La scena che segue, che non è un’esultanza, sancisce il mio non capirci più nulla. Il Bati, con il look rifatto e visibilmente alterato, scova una telecamera. Anzi, l’aveva probabilmente già adocchiata da un po’ e forse si immaginava che, in qualche modo, se ne sarebbe servito. Arrivato di fronte all’obiettivo, giusto due-tre secondi prima di essere sommerso dall’abbraccio dei colleghi, Batistuta ha il tempo di mimare un bacio e gridare: «GOL! TE AMO, IRINA, TE AMO!». La scena cui assisto è qualcosa di grosso, nuovo e appariscente. Non vedo il solito leone; mi pare di guardare un uomo debole, preoccupato e per un attimo – ai miei occhi – piccolo piccolo. Non riesco a non pensare che l’abbia fatta grossa. Che abbia qualcosa da farsi perdonare da Irina.
Parte 2 – Primavera/estate 2014
Non ho mai trovato il modo di metabolizzare il passaggio di Batistuta all’Inter, né per razionalizzare il suo bottino di due reti, complice un tiro deviato sulla cui traiettoria il marito di Irina si era trovato per sbaglio. Ancora meno avevo tollerato il pionieristico passaggio in Qatar, petrolifero finale di una carriera che non aveva bisogno di un declassamento qualitativo tanto vistoso. Del Bati, da molto, si sono perse le tracce. Si è ritirato da ormai 9 anni, e sembra che non abbia più nulla a che fare con il mondo del pallone. Me lo sono immaginato più volte, intento a cacciare succulenti animali del suo Paese come il collega Baggio. Me lo sono immaginato un campione nel maneggiare la griglia, perché non si dica che gli interisti del triplete siano stati i primi argentini a farlo. Mi sono aspettato di vederlo spuntare, un giorno, in un match di beach soccer contro Madjer, in un box di Moto Gp a stringere la mano a Pedrosa, in un’intervista a un sito nostalgico o di calciomercato in cui elogia le prodezze di Lamela in giallorosso o dell’ultimo Toni in viola. Invece niente, niente Bati. Mi dimentico di lui.
Esce di colpo, sulla Gazzetta, un’intervista che non ci mette molto a far parlare. Bati è un signore distinto, un quarantacinquenne che ricorda un po’ Clooney, basette e pizzetto venati di neve. Mi racconta che l’uomo che sarei voluto diventare ha sofferto, come un cane. Si è giocato la schiena per i troppi sforzi, si è reso immune ai medicamenti. Mi confessa di aver pensato di farsele amputare, le gambe, tanto era il dolore. Mi dice di essere stato costretto a letto per un lungo periodo, tanto da doverci urinare. L’immagine del Bati che ha bisogno di andare in bagno mi sembra qualcosa di scioccante e blasfemo. Più delle sue umane funzioni corporali. Più del pappagallo che mi prefiguro subito dopo. Più dei possibili incidenti da tela cerata che pure non mi sento di escludere.
Il Bati ha deciso di uscire alla scoperto perché ora sembra – ma dobbiamo dirlo cautamente – che si sia ripreso. Dice di essere pure in grado di fare un po’ di sport, giocando a golf con grassoni over-50 con cui ha la possibilità di non forzare e di non correre. Lui, che non compete più. Lui, e quelle gambe lì. Poco dopo – è l’agosto di quello stesso anno – apprendo che con Irina è finita.