Dalla maniacalità ai limiti del disturbo ossessivo-compulsivo del protagonista di Alta Fedeltà di Nick Hornby fino al successo strabordante della linea editoriale di Buzzfeed, la compilazione di liste di Top 5, Top 10 e Top 100 ha perso ogni significato intrinseco per diventare mero esercizio di stile. L’importante introito in termini di visualizzazioni che queste continuano a garantire fa sì che alla fine di una stagione compaiono liste dei migliori gol, dei migliori assist, delle migliori partite, ma anche delle migliori capigliature, dei migliori terzini a piede invertito e dei migliori passaggi in orizzontale. Se in questa listomania orgiastica qualcuno avesse trovato il tempo e la voglia di spingersi ancora più oltre e compilare una classifica delle partite più inquietanti del 2015/2016 ci sono pochi dubbi sul fatto che la prima posizione sarebbe stata occupata da Liverpool-Siviglia 1-3. Riguardare la finale di Europa League, che troverebbe spazio anche in una più canonica lista delle partite più importanti, e probabilmente anche delle più belle, significa immergersi in un’atmosfera lovecraftiana in cui è palese cosa sta per succedere ma in cui l’incognita dei tempi e dei modi in cui questo succederà lasciano con il fiato sospeso. Gli inglesi vanno in vantaggio nella prima frazione di gara con Sturridge, ma la tipica esultanza danzante dell’attaccante non è altro che un tentativo apotropaico di scacciare una catastrofe imminente. Il Siviglia, anche sotto di un gol, non sembra mai in condizione di poter davvero perdere la partita, e al rientro dagli spogliatoi si presenta in campo con una tranquillità d’animo insolita per una squadra che deve recuperare e invece tipica di chi sa di stare per vincere: bastano venticinque minuti e due gol di Gameiro e uno di Coke sigillano una vittoria mai realmente in discussione.
Negli ultimi tre anni l’epopea del Siviglia in Europa League è stata un susseguirsi di avvenimenti al limite del paranormale che hanno ammantato la squadra andalusa della seducente mistica della vittoria ineluttabile. Il 20 marzo 2014 i rojiblancos di Unai Emery, dopo aver perso per 2-0 in casa l’andata degli ottavi di finale contro i rivali cittadini del Betis, sulla carta di gran lunga inferiori – a fine stagione retrocederanno infatti in Segunda Divisiòn – riescono a ribaltare il risultato nei tempi regolamentari portando la partita ai calci di rigore. Il decimo a presentarsi sul dischetto, con l’obbligo di segnare per agguantare la parità e giocarsi la qualificazione ai tiri ad oltranza, è Josè Antonio Delgado Villar detto Nono, oscuro centrocampista allora ventunenne, oggi in forza al Diósgióri, squadra facente parte del ceto medio del campionato ungherese. Nono si avvicina al dischetto con una ricorsa atipica, cadenzata, quasi a balzelli, con il palese intento di sbilanciare Beto su un lato per poi colpire all’altro angolo. Misteriosamente Nono però non incrocia, tira sul lato in cui non doveva tirare, e oltretutto tira fuori, angolando in un modo grottesco che rende questa esecuzione una delle peggiori viste in campo europeo negli ultimi anni.
I rigori nel delicatissimo derby contro il Betis
Il Siviglia ringrazia, liquida il Porto ai quarti di finale e batte in casa 2-0 il Valencia nella gara di andata delle semifinali. Al ritorno al Mestalla la squadra di Pizzi rialza la testa dopo la lezione di calcio della settimana precedente e a una manciata di secondi dal fischio finale si trova avanti per 3-0, risultato rotondo in grado di garantire una meritata qualificazione in finale. Il Valencia, però, quella finale non la giocherà mai: rimessa laterale disperata di Coke deviata da una spizzata di Federico Fazio e Stephane M’Bia si trova, pur stretto da due difensori, nelle condizioni di colpire di testa a rete. Il gol di M’Bia è la prima goccia di un Siviglia che per i tre anni successivi si abbatte sull’Europa League come un temporale ad agosto: inaspettato, incomprensibile, inevitabile. La squadra che cade in finale, di nuovo ai rigori, è il Benfica, che in quella stagione si trova a una partita di distanza da vincere tre trofei e si trova poi a chiudere con zero, andando a rafforzare la madre di tutte le profezie calcistiche: la maledizione di Bela Guttmann. Nella stessa sera in cui viene rievocato, per la settima volta, l’anatema di Guttmann, però, prende corpo anche la profezia auto-avverante del Siviglia in campo europeo, sempre più forte nel tempo, vittoria assurda dopo vittoria assurda.
La stagione successiva la squadra di Unai Emery passeggia sulla seconda competizione europea con una facilità disarmante e, complice un sorteggio complessivamente favorevole, arriva ad alzare per il secondo anno di fila la coppa dopo aver battuto 3-2 il Dnipro nella finale di Varsavia. Quella ancora dopo si trova qualificato in Champions League in virtù del nuovo regolamento che concede uno slot ai gironi ai campioni in carica della coppa minore, ma arriva terzo in quello che probabilmente è il raggruppamento dal più alto coefficiente di difficoltà – con Juventus, Manchester City e Borussia Mönchengladbach, e si trova di nuovo catapultato in quell’Europa League che ormai è come il giardino di casa. Tornato nel suo habitat, il Siviglia dimostra di saper gestire come nessun altro le competizioni a eliminazione diretta, superando nuovamente un turno complicato ai calci di rigore – i quarti di finale contro l’Athletic Bilbao – e arrivando alla finale contro il Liverpool con le stimmate dell’inevitabilità.
A rendere il tutto ancora più paradossale è l’assoluto contrasto tra una serie di credenze su come si costruisce e si gestisce una squadra di calcio, condivise dalla punta della penna dei commentatori di mestiere fino al vocio dei bar sport, e il modo in cui è stata fattualmente tessuta la trama del racconto sul Siviglia mistico e vincente. Nelle ultime tre sessioni di mercato estive, che poi hanno portato ad altrettanti trofei in campo europeo, la dirigenza andalusa ha incassato un totale di 200 milioni di euro, cedendo ogni volta almeno tre pezzi pregiati della formazione titolare. Negredo, Navas, Kondogbia, Fazio, Rakitic e Bacca sono solo alcuni dei giocatori lasciati andare via senza che questo comportasse una diminuzione delle possibilità effettive della squadra di alzare un trofeo, nonostante non sia mai stato reinvestito neanche il 50% dell’incasso e nonostante non sia mai stato acquistato, ad eccezione di Immobile, un sostituto per una cifra pari o maggiore a dieci milioni di euro. Una discontinuità nel comparto del materiale umano, sottolineata dal fatto che soltanto due giocatori – Coke e Vitolo – sono scesi in campo in tutte e tre le finali disputate, che è il contraltare di un’identità delineata al dettaglio per quanto riguarda la linea societaria: acquistare calciatori di basso profilo ignorati dalle contender europee (Krychowiak, Bacca, Vidal) insieme ad altri da rilanciare provenienti da squadre blasonate (Gameiro, Banega, Rami), cederli appena dopo averli valorizzati, sostituirli con altri dello stesso tipo.
Un modello pericoloso e difficile da sostenere, in cui basterebbero un paio di investimenti sbagliati per far collassare su sé stesso l’intero sistema, ma che diventa virtuoso grazie alla capacità nello scouting e nella gestione delle trattative garantite da Monchi, vertice del mercato rojiblanco che ha saputo conquistarsi sul campo il titolo di miglior direttore sportivo europeo. Andaluso, cresciuto nel settore giovanile del Siviglia e poi passato in prima squadra per il resto della sua breve – si è ritirato dal calcio professionistico a trent’anni – carriera da portiere, Monchi è alla guida del mercato sevillista da sedici anni, ed è il principale artefice della scalata del club dalla Segunda División ai vertici europei. Dopo aver cercato di liberarsi da un contratto che lo lega al Siviglia fino al 2020, per di più gravato da una clausola rescissoria pari a cinque milioni di euro, ha dovuto incassare un netto rifiuto da parte della dirigenza. Con un insolito aplomb, Monchi non si è scomposto, non ha battuto i piedi, ha accettato di restare sulla riva del Guadalquivir e ha iniziato a lavorare alla sessione di mercato più ambiziosa della sua vita. L’obiettivo è quello di far fare ad un Siviglia reduce da tre vittorie consecutive nella coppa minore un salto di qualità decisivo capace di renderlo competitivo sia nel campionato più difficile del mondo, nel quale sono sette stagioni che non va oltre il quarto posto, sia nella massima competizione europea, in cui il miglior risultato storico sono due ottavi di finale tra il 2008 e il 2010.
La differenza tra l’allestimento della prossima stagione rispetto a quelle passate è stato evidente fin dalla scelta del nuovo allenatore. Salutato con rammarico e riconoscenza Unai Emery, volato a Parigi per votare il suo know-how nelle competizioni ad eliminazione diretta alla causa europea del Paris Saint-Germain, Monchi ha scelto come nuova guida tecnica Jorge Sampaoli. L’argentino, allievo della scuola bielsista alla prima esperienza extra-sudamericana, ha un profilo atipico che lo distingue da tutti gli altri allenatori della gestione di Monchi: non è spagnolo, ha già dei trofei di rilievo presenti nel suo palmarès e soprattutto è già dotato di un’aura impregnata di realismo magico che ben si sposa con la realtà calcistica sevillista. Carismatico e allo stesso tempo caratterialmente controverso, come dimostra una lunga serie di conflitti con le proprie dirigenze il cui ultimo esempio è stata la difficile risoluzione del contratto che lo legava alla federcalcio cilena, Sampaoli arriva a Siviglia per portare su un altro livello l’attacco alle convenzioni calcistiche propugnato negli ultimi anni in terra andalusa. Sistemata la questione legata all’allenatore, Monchi si è spostato sul mercato andando a caccia di profili capaci di alzare il livello tecnico della squadra dopo la cessione di Krychowiak, proprio al PSG di Emery, e la scadenza del contratto di Banega e della bandiera Reyes.
L’aggettivo che si presta meglio a descrivere la sessione di mercato del Siviglia tutt’ora in corso è senza dubbio suggestivo. Nell’arco di un solo mese Monchi ha scommesso quasi a costo zero sull’esplosione di Kranevitter e Vietto, rimasti stretti tra le maglie della concorrenza a Madrid, ha portato in Europa dopo anni di attesa Henrique Paulo Ganso, giocatore naïf quanto affascinante con un passato da next big thing del calcio mondiale, strappato Vazquez a Zamparini a prezzo di saldo – considerando Zamparini e i valori medi di questo mercato quindici milioni per El Mudo non possono che essere definiti tali– e inserito in rosa altri tre giocatori capaci di fornire un ventaglio sterminato di soluzioni sulla trequarti come Correa, Kiyotake e Sarabia. Infine, come se non bastasse, ha trovato anche il modo di rientrare quasi del tutto dell’investimento fatto lo scorso anno per Ciro Immobile, passato alla Lazio per una cifra vicina ai 9 milioni di euro dopo essere stato il primo vero colpo di mercato fallito negli ultimi anni.
L’ultimo Ganso prima dello sbarco in Europa
Le prime amichevoli estive sembrano suggerire un abbandono da parte di Sampaoli del 3-4-1-2 – variante sampaoliana del 3-3-1-3, modulo principe del bielsismo – capace di portare il Cile a un passo dai quarti di finale mondiali e alla prima vittoria in Copa America della sua storia, e il passaggio al 4-3-3, già utilizzato dal tecnico argentino quando era alla guida della Universidad de Chile. L’architettura tattica sembra però essere rimasta la stessa: distanze tra i reparti ridotte al minimo, linea difensiva posizionata nei pressi del centrocampo e un pressing asfissiante mirato al recupero del pallone nelle zone avanzate del campo. Con Vazquez che sembra essere stato scelto per ricoprire il ruolo di mezzala e Ganso che andrà con ogni probabilità a sistemarsi in cabina di regia il Siviglia di Sampaoli potrebbe rappresentare l’avanguardia nel connubio tra dinamismo e qualità tecnica, un trionfo di recuperi alti e passaggi al contagiri che, in caso di buona tenuta del sistema, garantirebbe un calcio spettacolare e allo stesso tempo efficace. Alle porte della stagione 2016-2017 il Siviglia sembra avere la grande chance di fare un salto di qualità sia sul piano tecnico sia su quello narrativo, passando da squadra dotata di un misticismo vago e seducente a totem iconico capace di restare negli anni come simbolo di un certo zeitgeist calcistico. Nel caso in cui l’esperimento fallisse, resterebbe comunque nella storia il triennio di una squadra paradossale come un dipinto surrealista e imprevedibile come un temporale agostano.