Sì al calcio moderno

I gruppi ultras contestano lo strapotere dei soldi nel calcio e la mercificazione. Ma il calcio ipertrofico di oggi nasce proprio nel passato comunemente mitizzato.

Uno dei feticci della lotta al “calcio moderno” è l’orario dei turni di campionato. Nei cori delle tifoserie d’Italia si reclama la partita «la domenica alle tre», in opposizione al campionato “spezzatino”, cioè quello spalmato su due o più giorni del weekend per ragioni televisive. È solo uno slogan, una rivendicazione dal valore più simbolico che pratico. Ma poggia su un presupposto falso. Le 15 non sono mai state l’orario per eccellenza delle partite. Dagli anni Trenta ai primi anni Novanta, quando i match si disputavano in contemporanea, il fischio d’inizio oscillava tra le 14:30 e le 16:30, a seconda della stagione. Il turno domenicale è fissato alle 15 solo nel nuovo millennio, quando il posticipo della domenica sera è ormai consuetudinario e si introducono a favor di tubo catodico gli anticipi al sabato.

Non solo il calendario. I gruppi ultras dello Stivale avversano ogni tratto distintivo del football odierno, globale e finanziario. In primis le pay tv, proprio perché incarnazione della perdita di valori del pallone, poi i calciatori esosi, i biglietti cari e le regole sulla sicurezza negli stadi. È una lotta dal retroterra nostalgico e passatista. La premessa è che negli anni Novanta l’effetto congiunto della legge Bosman e dei miliardi immessi nel circuito prima da Tele+, poi da Stream, infine da Sky e Mediaset, abbia stravolto uno sport fin lì popolare. Dove c’erano bandiere, valori e passioni, ora ci sono mercenari, interessi economici e spietatezza. Non è un sentimento circoscritto nelle curve, ma coinvolge, con più sfumature e meno antagonismo, una parte significativa del tifo italiano. Tutto molto romantico, ma per niente vero. Una bufala.

SAO PAULO, BRAZIL - JULY 06: A general view of police during the team arrival in fron of the stadium before semifinal first leg match of Copa Bridgestone Libertadores between Sao Paulo and Atletico Nacional at Morumbi Stadium on July 6, 2016 in Sao Paulo, Brazil. (Photo by Friedemann Vogel/Getty Images)
Tifosi del San Paolo allo stadio Morumbi, lo scorso 6 luglio (Friedemann Vogel/Getty Images)

 

«Lo spaesamento dei tifosi è comprensibile quando i vertici del calcio mondiale sono toccati da scandali come quello che coinvolge Blatter e Platini. Ma bisogna capire che il problema non sono i soldi nel calcio, bensì l’uso che se ne fa». Nicola De Ianni, docente di Storia Economica della Federico II, ha da poco dato alle stampe per Rubbettino Editore Il calcio Italiano 1898-1981. Economia e potere. Se qualcuno nutre l’idea che nel passato del movimento calcistico nostrano il denaro non fosse un argomento centrale, sbaglia. Aumentare il giro d’affari delle squadre di massima serie è stato un obiettivo perseguito con costanza e determinazione. Da sempre e da tutti i dirigenti del nostro calcio.

Si inizia negli anni Venti. Con la Carta di Viareggio il calcio da sport nominalmente dilettantesco si trasforma in professionistico. Nasce un calciomercato dalle plusvalenze dai valori molto inferiori rispetto a quelli odierni, ma simili in termini percentuali. Nello stesso decennio, quando i biglietti staccati al botteghino rappresentano l’unica fonte di incassi per i club, si promuove la costruzione di nuovi stadi, più grandi e più capienti. Dragare soldi dal ticketing significa fare cassa con la disponibilità dei tifosi. Il tariffario per i biglietti dei Mondiali del 1934 è stabilito perché la manifestazione chiuda in pari anche a fronte di una prematura eliminazione della Nazionale azzurra (che invece vincerà). Tra il 1951 e il 1961, ricostruisce De Ianni, le presenze negli impianti italiani crescono del 40 per cento, mentre i proventi dal botteghino del 136 per cento. Il trend è continuo. Nel 1961 gli incassi della biglietteria valgono 5,4 miliardi di lire, dieci anni dopo 12,9.

Nell’Italia del boom economico anche il calcio detona. Il prof federiciano rilegge la documentazione disponibile (i lacunosi rendiconti economici delle associazioni sportive e poi i bilanci quando i club trasformano in società per azioni) e definisce la parabola di un settore economico in progressiva espansione. I valori di produzione della Serie A passano dai 3,37 miliardi del 1951 a 7,95 del 1961. Money, money, money. È del 1946 l’istituzione del Totocalcio, gioco d’azzardo ideato proprio per trovare una nuova fonte di profitti per il calcio italiano. Un lustro più tardi, lo strumento porterà circa 1 miliardo di lire l’anno nelle casse dei club di Serie A, mentre la ripartizione dei proventi generati dalle scommesse sarà poi al centro di battaglie tra Figc, Coni e governo. Così come sarà una guerra ogni rinnovo con la Rai per la concessione dei diritti tv.

BIRMINGHAM, ENGLAND - APRIL 23: Supporters of Aston Villa hold up a message reading "play for thr shirt, not the money!" during the Barclays Premier League match between Aston Villa and Southampton at Villa Park on April 23, 2016 in Birmingham, United Kingdom. (Photo by Gareth Copley/Getty Images)
Tifosi dell’Aston Villa espongono uno striscione in occasione del match di Premier contro il Southampton dello corso 23 aprile (Gareth Copley/Getty Images)

 

Pauperismo un corno. Eppure, mentre il calcio si trasforma in un’industria, c’è una cosa che gli italiani non si stufano di fare: moralismo. Per tutto il Novecento si avversa il professionismo, poi si borbotta per il prezzo dei biglietti e quindi si teme l’influenza della televisione pubblica e di Stato. «L’ambiente del calcio, dirigenza e stampa inclusi», scrive De Ianni, «erano condizionati da una visione ristretta e da una mentalità ancorata a luoghi comuni spesso sbagliati. Alla fine quasi tutto era riconducibile al diabolico denaro ritenuto responsabile della dannazione del calcio, il quale veniva ingiustamente privato della purezza paradisiaca del dilettantismo. In questa crociata di valori cattolici, anche i marxisti si trovano a loro agio, ben rassicurati dall’analisi marxista leninista dell’avidità capitalista».

Tornando ai giorni nostri, il paradosso è che, mentre l’attuale sentimento passatista idealizza gli anni Ottanta come ultimo decennio franco e onesto del pallone, De Ianni termina proprio al 1981 la sua analisi. L’introduzione di sponsor e marketing, ultima mossa per ingrandire il bacino economico dei club prima dell’arrivo delle tv private, permette al calcio di moltiplicare il proprio fatturato e evolversi in sport ad alto contenuto finanziario. Insomma, l’ultima isola felice dei “no al calcio moderno” è, al contrario, l’origine del male che combattono.

Oltretutto bisognerebbe pure intendersi su quanto mercato e denaro siano nemici del pubblico che popola i nostri stadi. Dino Numerato, sociologo dell’università ceca della West Bohemia, in un articolo pubblicato su Journal of Sports and Social Issues vede nell’antimodernismo delle curve una sorta di baluardo contro l’espansione delle dinamiche neoliberiste nel calcio. I tifosi applicano la categoria della riflessività, ovvero la possibilità di comprendere la propria posizione nel mondo, cogliendo le opportunità di trasformazione per intervenire su ciò che non piace. Gli ultras italiani rivolgono, allora, la propria capacità di opposizione verso «la sfera della finanza, delle corporation, dei mass media, delle federazioni sportive, delle dirigenze dei club e del governo» e chissà, si chiede Numerato, se superando la conflittualità interna non possano diventare motore di cambiamento sociale. Ci sono, però, delle incognite. Il movimento ultras può diventare autoreferenziale, continua Numerato, ed accontentarsi dell’estetizzazione del proprio antagonismo: il compiacimento per una coreografia contro il calcio moderno può sostituire la pratica fattiva di lotta. Per di più gli stessi tifosi possono finire invischiati nelle logiche commerciali che osteggiano. Mentre in Italia il dibattito sul tifo è appiattito sulla criminalizzazione del movimento, le esperienze europee di coinvolgimento dei gruppi organizzati nella vita dei club dimostrano che esiste il rischio che gli ultras siano «cooptati nelle strategie neoliberiste» delle dirigenze sportive, continua Numerato, così come tentatrice è «l’attrattività commerciale della cultura protestataria». Traslitterando: messi alla prova, i tifosi hanno dato dimostrazione di non provare poi tanta repulsione verso la logica del profitto. Non il massimo per chi rimprovera ai calciatori di subordinare i sentimenti al portafogli.

Serbian anti riot police officers enter Belgrade's "Marakana" stadium prior to the Serbian football derby match on October 23, 2010. Heavy police presence and strict fans' control prevented feared violence at the tense Serbian derby today won by Partizan against its main local rival Red Star Belgrade. Several thousands policemen were engaged since early morning hours, controlling groups of fans coming to the match in a clear bid to avoid any incidents following violent riots by Serbian hooligans on October 12 in aborted Serbia's Euro 2012 qualifier against Italy in Genoa. AFP PHOTO / Andrej ISAKOVIC (Photo credit should read ANDREJ ISAKOVIC/AFP/Getty Images)
Polizia schierata al Marakana di Belgrado, prima di un derby del 2010 (Andrej Isakovic/Afp/Getty Images)

 

La verità è che richiedere coerenza dall’antimodernismo non è possibile. È un sentimento che va interpretato in due modi. «Per gli ultras rientra nella politica del conflitto», spiega Luca Bifulco, sociologo dello Sport della Federico II. «Il calcio moderno è quello che vuole gli stadi più ricchi e più ordinati, e per questo respinge le parti popolari e violente del pubblico. I gruppi organizzati non si percepiscono come un problema dello sport, al contrario esaltano la centralità della propria passione e la continuità del proprio sostegno. Per questo reagiscono all’idea di essere esclusi dalla contesa». Ne consegue che gli ultras hanno chiara la propria identità, ma non necessariamente altrettanto definita consapevolezza politica. «Fatte alcune eccezioni, non sono marxisti per formazione» continua Bifulco. «Osteggiano la commercializzazione del calcio, ma organizzano il loro merchandising e aprono negozi dedicati per l’abbigliamento curvaiolo, ad esempio». Per gli altri, poi, per i tifosi non militanti, l’antimodernismo è semplicemente «un proustiano ritorno al passato, nostalgia per stagioni che appaiono innocue e rassicuranti solo perché appartenenti ad altre epoche». Malgrado i travisamenti e le sovrainterpretazioni, Bifulco non esclude che l’antimodernismo possa avere effetti positivi: «Il tifo calcistico si basa anche su mitologie. L’esistenza di un passato dai più alti valori etici è uno di questi miti».

 

Nell’immagine in evidenza, lo striscione esposto dai tifosi della Croazia in una partita di Euro 2008 (Clive Mason/Getty Images)