Essere Ringhio

Muso duro, slang calabrese e camicie a brandelli: Gattuso in campo e Gattuso in panchina, due concetti capaci di essere una cosa sola.

Smessi gli scarpini, indossata la giacca, ricominci da capo. È dall’altra parte della barricata che ti fai più male, si sa. Dall’altra parte della linea laterale sei da solo, si sa anche questo. Si sa anche un’altra cosa: c’è gente come Maradona e Van Basten, mica poco, a rappresentare la fragorosa conferma di un assioma più o meno acclarato. E discretamente letale: un grande giocatore non fa un grande allenatore. Anzi. Questo non si sa, ma quelli che neanche ci hanno provato, come Rivera e Baggio, forse un motivo ce l’avevano, per non cimentarsi. Tanti sono stati inghiottiti nel campo della metamorfosi da campione a coach, nell’insidia di una lingua pericolosa e non per tutti decifrabile, quella che vuole tradurre il giocatore che sei stato nell’allenatore che vuoi essere.

Quando, al 69’ di un Pisa-Brescia qualsiasi, in una provincia parecchio distante dal fulgore dei Maradona e Van Basten, la sua camicia va in brandelli, per festeggiare la seconda vittoria in panchina in Serie B col Pisa, mister Gennaro Gattuso quel campo e quella lingua non li teme più da un pezzo. Quel Pisa lui l’ha portato in Serie B attraverso la cruna dei playoff di Lega Pro. Poi l’ha mollato, poi ripreso in una tormentata storia d’amore nel volgere d’una estate, ma di quelle a basso tasso melò e ad alto tasso erotico. Curioso che sia una squadra nerazzurra a rivelarlo come l’insospettabile eccezione che ogni assioma ha. E l’eccezione di questo assioma è che, banalmente, essere Ringhio è una roba diversa. È che, se dubitate che il Gattuso allenatore abbia la stessa stoffa del giocatore che è stato, è il caso di andarlo a chiedere a Roberto De Zerbi.

PALERMO, ITALY - AUGUST 11: Coach Gennaro Gattuso of Palermo looks on during the Tim Cup 2012-2014 match between US Citta di Palermo and US Cremonese at Stadio Renzo Barbera on August 11, 2013 in Palermo, Italy. (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)
Gennaro Gattuso durante Palermo-Cremonese, agosto 2013 (Tullio M. Puglia/Getty Images)

A proposito della cruna di quei playoff, Gattuso la prima vittoria in B del Pisa l’ha vissuta dalla tribuna, proprio a causa di quell’espulsione rimediata in finale, a giugno: ritorno, Foggia, ancora zero a zero, lo Zaccheria è caldissimo. Dalla tribuna dietro la panchina sanno bene chi è il nemico numero 1, l’ostacolo tra i rossoneri e la promozione. È il 60’ quando una bottiglietta colpisce Gattuso. Scoppia il pandemonio: rissa in campo, dopo pochi instanti Rino è di nuovo in piedi, col ghiaccio sulla testa, e rifiuta l’abbraccio con De Zerbi. Sono storie tese, nuova mischia, e i due allenatori sono muso a muso, la distanza di sicurezza non è strettamente osservata. Alla fine, sono espulsi entrambi.

C’è stata un’altra volta, in cui Gattuso ha ringhiato senza distanza di sicurezza: il tête à tête rusticano con Joe Jordan, alla fine di un Milan-Tottenham di Champions League, fece il giro del mondo. A trattenere Gattuso che a petto nudo voleva sbranare lo Squalo, indimenticata leggenda rossonera di tempi non troppo dissimili da questi, fu Flamini. Che è tutto dire. Con tutto il rispetto per l’assistant coach degli Spurs, se fai il furbo, c’è da aspettarsi un Ringhio che ti prenda per il collo, leggenda o non leggenda. Sublime, per un milanista, quel fight club: passato contro presente, e menate del genere. Ancor più che De Zerbi, è Jordan lo Squalo ad avere un’idea di quanto Gattuso allenatore somigli o meno a Gattuso giocatore, di quanto una giacca possa essere inutile a cambiarti, se sei Ringhio, se possiedi il sacro furor, anche se non lo chiami esattamente così.

15 Sep 1999: Rene Gattuso of Milan breaks clear during the Chelsea v AC Milan match in the UEFA Champions League at Stamford Bridge, London. The game finished in a 0-0 draw. Mandatory Credit: Ben Radford /Allsport
Gattuso durante un match di Champions League tra Milan e Chelsea (Ben Radford/Allsport)

L’ossessione per la personalità e un disciplinato furore agonistico, ben al di sopra di qualsiasi rigore geometrico, viene da lontano. Così Gattuso racconta la sua riluttanza agli orpelli tattici, a favore della circolazione del sangue e non solo della palla, nel suo Codice Gattuso, curiosa autobiografia del 2009 (Rizzoli): «Mastro Totonno, il mio primo allenatore, non era quello che si dice un genio della tattica. Anzi, per essere onesti, con tutto il bene che gli voglio, di calcio ne capiva proprio poco. Però gli devo riconoscere un merito indiscutibile nella mia formazione sportiva: mia ha insegnato che nel calcio, come nella vita, la soluzione giusta è quasi sempre la più semplice. E, a tutt’oggi, credo che quello sia stato il consiglio più importante che abbia ricevuto. Del resto, il calcio è un gioco semplice: più si fanno cose semplici, più il rischio di sbagliare diminuisce». È ancora calciatore, a fare l’allenatore per ora non ci pensa lontanamente, ma ha già le idee chiare, e le mette per iscritto: concentrazione, determinazione, applicazione, queste le tre regole della sua squadra, se verrà il momento, quando verrà il momento.

«A dirla tutta, non è che ‘sta mania dei moduli mi faccia impazzire. Anche perché, leoni di marmo a parte, in campo ci si muove continuamente. A fare la differenza è la mentalità. L’avevo capito già quando giocavo sullo spiaggione di Schiavonea». Del resto, per rimarcare a fuoco l’egemonia della testa sul fisico, a chepa è cchiù mportant i ri gamm, ripete spesso in quell’autobiografia, assieme ad altre regole autoimposte, accuratamente in slang calabrese. Come quella che associa il calcio allo stato febbrile: u pallun è cum a freva, è fatto per essere passato a qualcun altro.

ST VEIT AN DER GLAN, AUSTRIA - JULY 12: Coach Gennaro Gattuso dumps water from a bucket over Gennaro Troianiello after a US Citta di Palermo pre-season training session at Sportzentrum on July 12, 2013 in Sankt Lambrecht near St Veit an der Glan, Austria. (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)
Gattuso scherza con Troianiello durante una sessione d’allenamento a Sportzentrum (Tullio M. Puglia/Getty Images)

Carattere più che tattica, cuore più che scienza, agone più che grammatica. Palle, più che tocco di palla: ecco come può capitarti di strappare le camicie, nell’amplesso di un gol in provincia. «Mi hanno strappato una camicia da 150 euro, e non posso neanche chiedergli i soldi, vista la situazione…» dice Gattuso alla fine della gara col Brescia. Già, la situazione: non solo per i soldi, lui e il Pisa ne hanno passate di tutti i colori. Poco male, se quella camicia che va in pezzi per un gol diventa il drappo di chi afferma la propria identità: sanguigna, sgrammaticata, deliziosamente inopportuna. Ed impossibile da riporre, anche se ti chiamano mister. Oh, quanta filosofia: sarà troppo chiasso, per una camicia, cosa vuoi che sia? Momento, momento. Questa storia di indumenti ed abiti, e di chi ci ringhia dentro, è una vecchia storia. Una sottotrama, dicono i narratori bravi, che parte da molto lontano. Le spiagge di Schiavonea sono molto distanti nello spazio, e poco distanti nel tempo, quando un giovanissimo Ringhio, in Scozia, scopre quanta semantica c’è dentro un abito. E dentro al suo prezzo.

È il 1997, e Gattuso è a Glasgow: per andarci, Rino è letteralmente scappato dalla finestra, di notte, perché il Perugia non ne vuol sapere di lasciarlo partire. Gli umbri ne hanno denunciato addirittura la scomparsa, prima che il mistero si risolvesse. Non ha la barba, ha una montagna di capelli. E, ai Rangers, pensano bene di affidarlo all’ala protettrice di Paul Gascoigne. «Ogni giorno dovevi andare in giacca e cravatta, era una regola del club e dovevamo seguirla tutti. Avevo diciassette anni, due vestiti, e nient’altro. Paul venne da me e mi disse: “Guarda che ho parlato con Walter Smith, mi ha detto di portarti in un negozio e comprarti cinque-sei vestiti, poi mese per mese te li scalano dallo stipendio”. I mesi passavano, lo stipendio era sempre quello, così chiesi alla società di saldare il debito. Dissero che non c’era nessun debito, aveva fatto Gascoigne».

2 Aug 1998: Rene Gattuso of Rangers battles through the midfield during a Scottish Premier League match against Heart of Midlothian at Tynecastle Park in Edinburgh, Scotland. Heart of Midlothian won the match 2-1. Mandatory Credit: Stu Forster/Allsport
Gattuso durante una sfida tra Rangers e Heart of Midlothian a Tynecastle Park (Stu Forster/Allsport)

Dai diciassette anni, dalle fughe dalla finestra con due vestiti nel borsone, è breve solo per i narratori con problemi di tempo il salto fino al momento in cui sogni più impronunciabili prendono forma, sul tetto d’Europa da giocatore di club e su quello del mondo da nazionale azzurro, nella notte delle notti. A proposito di quella notte, nella action figure con le sue fattezze, nella serie dell’Italia campione del mondo del 2006, quella in cui Totti è un aristocratico e Cannavaro un adone, il piccolo Ringhio di quindici centimetri ha i pantaloncini più zozzi di chiunque altro, i segni di molteplici strazi sulle ginocchia, lo sguardo spiritato e una roba al pugno, che pare la benda di un pugile, dopo l’ultimo gong. Il pugno, peraltro, è in alto, anche se non stringe nessun collo. Andatelo a chiedere anche al miniaturista, se un allenatore può somigliare o meno al giocatore che è stato.

Non che sia facile. Non che sia tutto furore, corsa a perdifiato, macchie di fango e sudore. Non che diciott’anni di calcio, più di trecento partite nel Milan, scorrano via senza osservazione, senza studio, senza metabolizzare il talento che ti gravita attorno. Senza l’arricchimento che deriva anche solo a guardarli, quelli lì, gli altri, quelli che «non hanno due ferri da stiro al posto dei piedi», come gli piace ripetere. Diciotto anni sono lunghi ed inestimabili, quando osservi tutto, e cerchi di uscirne più ricco di quando hai iniziato ad osservare. «Dalla panchina ci sono passato anch’io. Come tutti, o quasi. E come tutti, o quasi ho dovuto fare buon viso a cattivo gioco. E, una volta sbollita la rabbia per l’esclusione, ho imparato ad assorbire tutto ciò che vedevo e sentivo. Guardando gli altri giocare, si imparano un sacco di cose».

DORTMUND, GERMANY - JULY 04: Lukas Podolski of Germany falls under the challenge of Gennaro Gattuso of Italy during the FIFA World Cup Germany 2006 Semi-final match between Germany and Italy played at the Stadium Dortmund on July 04, 2006 in Dortmund, Germany. (Photo by Alex Livesey/Getty Images)
Gattuso contro Podolski durante la semifinale della Coppa del Mondo 2006 (Alex Livesey/Getty Images)

L’assenza, l’esclusione, la giusta distanza, possono essere una risorsa, un modo diverso di vedere le cose, di reinventarsi. Da lontano, persino da fermo, è possibile conoscere una metamorfosi senza nemmeno accorgersene, ma faticosa e con l’immancabile dose di travaglio e sofferenza. Un pomeriggio, a Bologna, lo incrociai in stazione. Occhiali scuri, aria affine. Era fermo da un po’, per quel misterioso problema all’occhio, mentre raccontavano la sua carriera come una luna calante, e quel fastidio alla vista metteva incertezza,  preoccupazione, e già una buona dose di malinconia. «Torni presto?» gli chiesi, con la fiducia che sa avere un pessimo attore. «Speriamo» mi rispose come si fa all’annuncio di un treno troppo in ritardo.

Deve aver iniziato a pensare a come sarebbe stato allenare in quel periodo lì, lontano dal campo, con la benda sull’occhio come l’eroe di un anime giapponese tra i più cazzuti, quando non si sapeva quando e se mai sarebbe tornato, ma lui ci teneva a tranquillizzare qualsiasi personaggio molesto, incontrato per caso in stazione. Poi, un bel po’ dopo quel pomeriggio a Bologna, tornò a giocare ancora qualche partita. Tornò, perché a chepa è cchiù mportant i ri gamm, e forse pure degli occhi, e non ci si può far niente, con uno così. Bisognerebbe sparargli, ma ti ribatterebbe che la testa è più importante del piombo e degli elementi della balistica.

BARI, ITALY - SEPTEMBER 24: Coach Gennaro Gattuso of Palermo reacts during the Serie B match between AS Bari and US Citta di Palermo at Stadio San Nicola on September 24, 2013 in Bari, Italy. (Photo by Giuseppe Bellini/Getty Images)
Gattuso durante una gara di serie B tra Bari e Palermo (Giuseppe Bellini/Getty Images)

Pensare che sia iniziata allora, quella metamorfosi senza nemmeno accorgersene, faticosa e sofferente per l’amor proprio quanto per l’occhio, perché u potuto sa chi ì ru saputo (chi ha patito sa più di chi pensa di sapere tutto) è probabilmente un superfluo esercizio di immaginazione. E peraltro, in casi come quello di Ringhio, che adesso ringhia in panchina, quello della metamorfosi è un concetto abbastanza aleatorio e sopravvalutato. Chiedetelo a De Zerbi. Chiedetelo a Jordan. Chiedetelo a Maradona, e al miniaturista. Chiedetelo a quella camicia, che sventola come un drappo, infischiandosene di ogni assioma.

 

Nell’immagine in evidenza, Gennaro Gattuso sugli spalti di Palermo, durante una gara di Coppa Italia del 2013 (Tullio M. Puglia/Getty Images)