Chiamatelo numero nove

Una costante, non un ritorno, in Serie A più di altri campionati: l'esaltazione, tattica ed emotiva, dell'attaccante. Una ricchezza, piuttosto che un limite.

Il vocabolario italiano di Frank De Boer non conta moltissime parole, almeno per ora: spesso le ripete o le combina in un modo da reinventarle, altre volte ha sorprendenti intuizioni mutuate dalla lingua spagnola. È un po’ la sintesi del suo lavoro nelle prime settimane da allenatore dell’Inter: tanto materiale ma ancora oscuro, da comprendere e da far fruttare al più presto. Nonostante qualche legittima esitazione, l’Inter ha cominciato a funzionare, con una serie di risultati positivi che va di pari passo con l’ingrossarsi del gruppo di espressioni preferite del tecnico olandese: «molto contento», «dobbiamo migliorare», «due». Due è il numero più importante di tutti, perché coincide con il numero di gol che l’Inter ha segnato in ciascuna delle vittorie stagionali: Pescara, Juventus, Empoli. Tre successi di fila che hanno cambiato la percezione generale sull’Inter, da squadra imbambolata ad affascinante esperimento con potenzialità da altissima classifica.

Moltiplicato per tre, quel due diventa sei, e cioè i gol di Mauro Icardi in campionato, che ne fanno il miglior marcatore dopo cinque giornate. In altre parole, l’86% delle reti segnate dall’Inter, sette in totale, porta la firma del capitano nerazzurro: quella che resta fuori, il 2-1 di Perisic contro la Juventus, conta sulla partecipazione dell’argentino in qualità di assistman. Stiamo vedendo il miglior Icardi in carriera? Molto probabilmente sì, e una partenza così lanciata non si era mai verificata nelle sue annate di Serie A precedenti (non si va oltre i tre gol in cinque partite nel 2014, segnati peraltro tutti nel 7-0 contro il Sassuolo). Nel dettaglio, Mauro Icardi segna un gol ogni 75’. Ma non è nemmeno il migliore in A: poco al di sotto nella media c’è Carlos Bacca, una rete ogni 74’, mentre Gonzalo Higuaín, che rispetto agli attaccanti delle due milanesi ha avuto meno minutaggio, scende addirittura a una media da uno ogni 54’.

EMPOLI, ITALY - SEPTEMBER 21: Mauro Icardi of FC Internazionale celebrates after scoring a goal during the Serie A match between Empoli FC and FC Internazionale at Stadio Carlo Castellani on September 21, 2016 in Empoli, Italy. (Photo by Gabriele Maltinti/Getty Images)
Mauro Icardi, man of the match a Empoli (Gabriele Maltinti/Getty Images)

È la centralità del numero nove in Serie A. Il discorso si allarga anche alle altre squadre: il Napoli in estate ha ossessivamente cercato, tra Icardi e Kalinic, l’uomo giusto per sostituire Higuaín, prima di puntare tutto su Arek Milik e vederci giusto; la Roma, che spesso con Spalletti ha rinunciato a una prima punta, non lascia mai Dzeko per più di un tempo in panchina, puntando sul riscatto dopo una stagione da otto gol in campionato (quest’anno ne ha già segnati la metà); Belotti è il reale valore aggiunto del Torino, che senza di lui ha segnato una sola volta in due partite e mezzo (erano stati sette i gol nelle due gare con il Gallo titolare); un ritrovato Borriello a Cagliari è finora il migliore colpo dell’abbondante mercato rossoblù.

Una democrazia dell’attaccante, che riguarda sia le favorite per lo scudetto sia chi ha ambizioni meno marcate: è un fenomeno decisamente evidente in un Paese che, solo pochi mesi fa, denunciava l’assenza di una prima punta di razza tra i convocati azzurri per l’Europeo. Dove, a ben vedere, tutte le Nazionali favorite erano a corto di attaccanti di prima fascia: così la Francia padrona di casa, che si accontentava ma probabilmente non si capacitava di Olivier Giroud; così il Portogallo campione, dove l’uomo della provvidenza Éder è sceso in campo per soli 54 minuti in tutta la competizione; così la Germania, che si affidava a Gómez, scartato dalla nostra A, e che senza di lui, in semifinale, ha perso i riferimenti offensivi e l’intera quadratura del cerchio. Alla fine il capocannoniere di Euro 2016 è stato Griezmann, attaccante con caratteristiche drasticamente diverse da quelle di un classico numero nove.

La partita di Icardi contro la Juventus

In Serie A, invece, la presenza di una prima punta nella formazione tipo delle venti di Serie A è una costante. Il Pescara è l’unica eccezione, con riferimento avanzato del reparto offensivo Caprari, che fino all’anno scorso veniva impegnato come seconda punta, trequartista o esterno alto. Se consideriamo la partita con il Sassuolo in base al risultato sul campo, l’1-2 poi non omologato, quello del Pescara è il quartultimo attacco della Serie A, con appena quattro gol segnati. Poco, se si tiene conto del fatto che gli abruzzesi sono undicesimi per tiri in tutto il campionato, 12.6 a partita, un dato che li appaia al Milan. Questo non vuol dire che la scelta tattica di Oddo sia sbagliata, ma che in Italia non è facilmente digeribile, almeno nell’immediato. Considerato che lo stesso Pescara ha vissuto un anno di gioie, culminato con la promozione in Serie A, facendo affidamento su Lapadula, uomo da 30 reti stagionali.

Dei 22 gol segnati nell’ultima giornata di Serie A, quasi la metà, dieci, sono stati realizzati da prime punte: Icardi (due), Dzeko (due), Bacca, Higuaín, Destro, Zapata, Babacar, Nestorovski. Non è un ritorno degli attaccanti, né una riscoperta: la Serie A ne ha sempre premiato l’efficacia, rimanendo piuttosto riluttante agli esperimenti che chiamano in causa i vari falsi nueve e Raumdeuter. La tendenza non è cambiata, sono cambiati gli interpreti: è in Italia che sono proliferati i vari Trezeguet, Milito, Toni e Cavani, è in Serie A che sono diventati campioni, dove hanno trascorso i migliori anni della carriera o dove hanno vissuto quell’ineludibile fase di maturazione.

MILAN, ITALY - SEPTEMBER 20: Carlos Bacca of AC Milan celebrates after scoring the opening goal during the Serie A match between AC Milan and SS Lazio at Stadio Giuseppe Meazza on September 20, 2016 in Milan, Italy. (Photo by Marco Luzzani/Getty Images)
Carlos Bacca esulta dopo il gol alla Lazio (Marco Luzzani/Getty Images)

Sembrerebbe un discorso solo di reti realizzate, ma non è così: ci sono stati i Tévez e i Dybala capaci di arrivare a segnare venti gol o poco meno, ma per ognuno di loro c’è sempre stato un Llorente, un Morata o un Mandzukic. La presenza fissa, stimolante, rabdomantica, a tratti ingombrante, spesso salvifica, dell’attaccante d’area è un tratto distintivo che la Serie A fatica, o meglio non è disposta, a perdere. Perché poi l’utilizzo che se ne fa è molteplice, in una sola sera di campionato lo si è visto: lo si può cercare con insistenza come ha fatto la Juventus con Higuaín contro il Cagliari, oppure coinvolgerlo al minimo nell’azione, come l’Icardi di Empoli che ha giocato il pallone appena 33 volte nonostante la doppietta (33, considerando anche i rinvii effettuati nella propria area di rigore).

L’architettura tattica della Serie A è il contesto più impegnativo e per questo più efficace nel testare le qualità di un attaccante, ed è affascinante che il campionato italiano mantenga intatto, nonostante gli anni e i cambiamenti del gioco, il valore del ruolo. È una ricchezza che il nostro calcio esalta più di altre realtà: se Higuaín rompe il muro dei 36 gol, il merito è anche del contesto che ne ha raffinato le qualità, come non era successo nemmeno nei sei anni e mezzo di Madrid, in una delle squadre più forti del pianeta. Qualcosa che forse sta tornando a imporsi un po’ ovunque: Messi ha abbandonato la posizione centrale in avanti per lasciar spazio alla vena famelica di Suárez, Guardiola non poteva fare a meno di Lewandowski, che con il tecnico catalano ha conosciuto una crescita vertiginosa, la stessa Spagna ha messo da parte fronzoli barocchi per fare di Morata, non a caso svezzato in Italia, l’intoccabile riferimento offensivo.

 

Nell’immagine in evidenza, Gonzalo Higuain esulta dopo aver segnato al Sassuolo (Marco Bertorello/AFP/Getty Images)