Si può capire molto, di un calciatore, osservando la sua corsa. L’energia con cui si getta su un lancio imprendibile, la fede con cui insegue un pallone troppo lungo. Il primo gol di Federico Melchiorri in Serie A non è bello, non secondo i classici canoni dell’estetica calcistica. Eppure, in qualche modo, lo è. Quei 30 disperati metri di allungo, con le gambe che mulinano come quelle di uno sprinter, incuranti del fatto che il portiere è in netto anticipo, quel non volersi fermare mai, nemmeno davanti all’evidenza di un traguardo ormai irraggiungibile, sono la sintesi perfetta della storia di un attaccante che nella vita non ha mai ottenuto niente con semplicità, ma che è sempre stato capace di riprendersi ciò che gli era stato tolto.
Federico Melchiorri ha 29 anni e ha giocato, in tutto, 18 minuti in Serie A. Il primo il 20 dicembre 2006, Empoli-Siena, un passaggio così breve che non risulta nemmeno nei dati di Transfermarkt, dove gli viene contata la presenza, ma non il minutaggio. Gli altri 17 sono arrivati 10 anni dopo, il 26 settembre 2016, in Cagliari-Sampdoria, a sei mesi di distanza dalla lesione al crociato del ginocchio destro che l’aveva fermato sul più bello della stagione che poteva dare la svolta alla sua carriera.
Federico, però, è uno che si è visto sbattere in faccia troppe porte per farsi spaventare ancora. E se, nonostante tutto, a 28 anni era riuscito ad approdare da protagonista in una squadra costruita per vincere il campionato di Serie B, si sarebbe rialzato ancora.
Aveva 23 anni quando si è dovuto fermare la prima volta. E sarebbe potuta essere l’ultima. Campionato di Lega Pro, una giornata d’aprile del 2010, una botta in testa contro la Cavese. La solita tac di controllo, solo che stavolta l’esame evidenzia un problema serio. I vasi che portano sangue e ossigeno al cervello di Federico sono aggrovigliati tra loro: cavernoma, lo stesso problema che anni dopo riguarderà il difensore brasiliano della Roma (ora al Torino) Leandro Castán. Bisogna fermarsi, smettere di giocare, farsi operare.
Melchiorri mantiene la calma e decide di reagire. Ma lascia il calcio. Per sempre, crede, perché tornare all’agonismo dopo quell’intervento è troppo pericoloso, gli dicono. Rescinde col Giulianova e torna a casa, a Macerata. Si iscrive persino all’Università, facoltà di Economia. Poi, però, il richiamo del campo si fa troppo forte, riprende a giocare per divertimento, firma col Tolentino, dove era cresciuto, in Eccellenza, lontanissimo dalla Serie A assaggiata nel 2006. Lo fa senza porsi obiettivi, ma nemmeno limiti. E segna, segna tantissimo. Trentacinque gol in 54 partite sono troppi per restare in Eccellenza. Così si trasferisce di 20 chilometri, sale di una categoria, in Serie D con la Maceratese neo promossa. Arriva attaccante esterno e diventa centravanti, per intuizione del suo allenatore Guido Di Fabio, uno che da calciatore è arrivato fino alla Serie B e che in quel metro e 84 intuisce un potenziale da prima punta. L’aria di casa lo culla, segna ancora tantissimo (a fine stagione saranno 26 gol in 34 partite tra stagione regolare, play off, Coppa Italia Dilettanti), ma rimane coi piedi per terra. Fino a un paio di stagioni prima voleva smettere, poi si è fatto convincere da Maria Francesca Tardella, presidentessa della Maceratese – «continua, vieni da noi, giochi a casa e ti diverti» – e anche adesso che, a detta di tutti gli osservatori, la D sembra stargli troppo stretta, anche adesso che è l’attaccante più forte del campionato, non si monta la testa. Quando finisce la partita è il primo a salutare e ringraziare l’arbitro, poi torna a casa. A piedi. La sua forza, forse, sta proprio nella sua normalità, nel vivere il presente senza l’ansia del futuro. Come quando c’è da inseguire un pallone troppo lungo, senza preoccuparsi del fatto che è già preda del portiere.
Anche Federico Melchiorri ha la sua compilation su YouTube. Tutti i gol realizzati a Pescara.
Così anche la chiamata del Padova, in Serie B, non è un traguardo rincorso perennemente in affanno, ma un’altra tappa di un percorso naturale. Sono sei i gol alla prima stagione tra i cadetti, 14 quelli segnati nella seconda, con la maglia del Pescara, 14 e una traversa, colpita contro il Bologna nella finale dei playoff per la promozione. È più che sufficiente per convincere il Cagliari, che già l’aveva cercato a gennaio nel disperato tentativo di restare in Serie A, a puntare su di lui. È più che sufficiente per diventare l’Ibra della B, soprannome dovuto alla capacità di combinare il fisico di un centravanti e la tecnica di un’ala, a una progressione devastante, a elevazione e potenza di tiro decisamente sopra la media.
La tecnica di un numero 7 nel corpo di un classico 9.
Di attaccanti forti, a Cagliari, ne sono passati diversi. Da Dely Valdés a David Suazo, da Roberto Muzzi a Patrick Mboma, ma nessuno di loro era mai stato accostato, nemmeno per gioco, al più grande di tutti. Quando è arrivato Federico Melchiorri, e ha iniziato a correre sull’erba del Sant’Elia con falcate ampie, più di una persona ha osato fare il paragone impossibile. «Assomiglia a Gigi Riva». Sarà per il volto scavato e lungo, e per quel fisico così asciutto, sarà per lo stacco di testa o la capacità di partire largo e accentrarsi per calciare a rete. Fatto sta che è successo, al di là di ogni tabù e di ogni possibile blasfemia.
Poi l’infortunio in allenamento, la preparazione saltata, l’acquisto di Marco Borriello e quella sensazione di occasione sfumata. Lui ha fatto la sua riabilitazione, prima, poi si è seduto in panchina, paziente. Quando Rastelli l’ha chiamato, a 17 minuti dalla fine della partita con la Sampdoria, ha giocato come ha sempre fatto, inseguendo ogni pallone con una foga opposta e speculare alla calma con cui ha attraversato i momenti più difficili e più belli della sua vita. E su uno di questi ha trovato il primo gol.
L’intervista a Fabio Pisacane al termine di Cagliari – Atalanta, gara in cui ha debuttato in serie A
Si può capire molto, di un calciatore, osservando le sue lacrime. Fabio Pisacane ha giocato la sua prima partita in A a 30 anni e 8 mesi. E ha pianto. Perché nella sua testa, in quel momento, non c’erano solo le fatiche fatte per diventare un professionista, lasciando i Quartieri Spagnoli di Napoli per andare al Genoa, non solo i 10 anni di gavetta tra la Lega Pro e la bassa classifica della Serie B. Nelle lacrime di Pisacane c’era una storia terribile, quella di un ragazzino che una mattina si è svegliato completamente paralizzato e si è scoperto affetto dalla sindrome di Guillain-Barré, una malattia che colpisce 1 persona su 100 mila, e che affligge anche un altro volto noto a Cagliari, quell’Óscar Tabárez che allenò i sardi e il Milan, prima di conquistare la Copa América alla guida dell’Uruguay. «Potrebbe non giocare più a calcio». Le parole dei medici suonano come una sentenza per Pisacane. Che però non molla, guarisce e ricomincia.
Non è un talento, Fabio, non ha un gran piede con cui crossare, non ha nemmeno un fisico che lo ponga al di sopra della media. Ma è uno che non si è mai piegato a quella spirale di mediocrità che rischia di avvolgere il calcio di provincia nelle categorie inferiori, rendendole il contesto ideale per combine e calcio-scommesse. A Lumezzane, nel 2011, viene avvicinato da Giorgio Buffone, direttore sportivo del Ravenna, che gli offre 50 mila euro per far perdere la sua squadra. Pisacane rifiuta e sporge denuncia. Quando, durante Scommessopoli, il fatto diventa di dominio pubblico, Pisacane è già capitano della Ternana, con la quale ha ottenuto una promozione in B, ritornando a un solo passo dal suo sogno di bambino. Blatter (proprio lui) lo nomina ambasciatore della Fifa con Simone Farina, del Gubbio, che come lui ha rifiutato una combine. Cesare Prandelli li invita entrambi a Coverciano, mentre la Nazionale si sta preparando agli Europei del 2012. Lui, però, non vuole essere chiamato eroe, sicuro di aver fatto qualcosa di normale, e ancora oggi è molto schivo al riguardo.
«Spero di far parlare di me prima come uomo e poi come calciatore»
Se dietro l’esplosione di Melchiorri c’è una donna, la presidentessa della Maceratese, la carriera di Pisacane cambia dopo l’incontro con Rastelli, ad Avellino. L’allenatore ne apprezza la dedizione e la predisposizione alla fatica e lo chiama in Irpinia. Insieme sfiorano i play-off al primo anno, li centrano al secondo fermandosi alla semifinale contro il Bologna. E quando Rastelli viene chiamato a Cagliari, guarda Fabio e gli dice: «Vieni con me, ti prometto che ti porterò in A». Promessa mantenuta. Nell’anno della promozione, Pisacane si alterna con Antonio Balzano, gioca 30 partite, segna un gol. In Serie A parte dietro Mauricio Isla, ma quando il cileno si dimostra poco adatto a dare garanzie in fase difensiva, è il momento di Piscane. L’esordio con l’Atalanta è un 3-0, la seconda partita, con la Sampdoria, un 2-1, la terza, contro il Crotone, ancora un 2-1. Con lui in campo, il Cagliari vince sempre. Non chiamatelo eroe, ma nemmeno amuleto. La fortuna, qui, non c’entra niente.