Io e San Siro

Un breve personal essay sull'amare San Siro senza essere milanese, e senza tifare nessuna delle squadre di Milano.

 

Nelle ultime settimane mi è capitato, tre o quattro volte, di prendere la Metro 5 fino al nuovo capolinea di San Siro. Avevo già usato la nuova linea metropolitana milanese, quasi sempre perché mi piace, poche volte per vera necessità; ma mai fino allo stadio. Una persona a me cara è ricoverata al San Carlo, l’ospedale poco distante dal Meazza, ed è per questo che sono andato fin lì, ma le cose non succedono mai per caso. Le scale che portano dal mezzanino della metro all’uscita, quelle normali (non le mobili), sono costruite (e credo sia voluto) in maniera da produrre in chi le sale lo stesso effetto che produce su chi  si muove (in alcuni stadi) su quelle che portano dagli spogliatoi al campo; oppure quello dello spettatore che si avvia verso gli spalti. Un effetto molto simile si prova, per esempio, al San Paolo di Napoli; lì le scale che portano alle tribune e alle curve sono molto simili a quelle che ti portano fuori dalla metropolitana a San Siro. Salire quelle scale in un ancora tiepido pomeriggio di settembre mi ha procurato una certa emozione, che si è poi amplificata quando alla mia sinistra è comparso San Siro, in tutta la sua bellezza. Una specie di miraggio che ondeggiava sotto al sole. Quella è l’immagine, lo scatto che ha aperto di nuovo la mia memoria. San Siro c’entra molto con la mia Milano, con me a Milano, con me ancor prima che venissi a vivere qui (quest’anno io e Milano abbiamo festeggiato i vent’anni e li portiamo benissimo). San Siro è qualcosa che mi appartiene, pur non tifando né Milan, né Inter. San Siro è San Siro.

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La mia storia con San Siro comincia molto prima di quella con Milano. Ero un ragazzino. La partita è Inter – Napoli, è il 10 novembre 1985, io ho 14 anni. I miei mi concedono la gioia della prima trasferta, grazie ai buoni auspici di un mio cugino più grande. Prendiamo un treno notturno da Napoli, gran parte del viaggio l’ho fatta rimanendo seduto sul pavimento, ma ero felice, molto felice. Erano i primi anni di Maradona ed era l’Inter di Zenga, Beppe Baresi. L’inter di Rummenigge. Quando entrammo dentro lo stadio mi sentii tremare. Ero a San Siro, qui si era fatta tante volte la storia del calcio, qui il mio Napoli veniva a giocarsela alla pari. C’erano 15 mila tifosi del Napoli, giocavamo quasi in casa. Ricordo molti cori e salti e urla, era una giornata umida, come tante volte abbiamo visto e abbiamo imparato ad amare a Milano. E poi ricordo una cosa, una cosa che ricordano in molti: il gol di Maradona a Zenga. Giordano, nel secondo tempo, si libera sulla fascia destra e crossa al centro dell’area. La palla scavalca tutti e arriva a Maradona, a una decina di metri dalla porta. Maradona la stoppa di petto e poi batte Zenga con un diagonale imparabile. Tutto sarà durato pochi secondi, ma nel ricordo di molti e nell’immaginario di chi la racconta la palla sembra restare sul petto di Maradona per un tempo infinito. A fine partita chiesero a Zenga cosa l’avesse colpito di più di quel gol, rispose, più o meno così: “Mentre stoppava la palla, mentre la lasciava scendere, mentre calciava non ha mai smesso di guardarmi negli occhi”. La partita finì 1 a 1, ma per me non aveva nessuna importanza. Il povero Buriani si spezzò la gamba quel giorno e Brady pareggiò su rigore.

Milano mi affascinava e chiamava, passavano gli anni. Prima del mio trasferimento definitivo, avvenuto nel 1996, venni ad abitarci per un breve periodo, tra la fine del 1992 e i primi mesi del 1993. Vendevo materassi e robe simili a prova d’umidità. Abitavo in una tristissima casa in via Cascina Barocco, la sera quando uscivo dalla metropolitana, a Bisceglie, avevo spesso a che fare con la nebbia vera, quella che adesso si vede raramente. Una volta mi scontrai con un lampione, spuntato dal nulla. Erano anni strani, non sapevo ancora bene cosa avrei fatto della mia vita e avevo un solo amico: Bruno. Tifosissimo del Cagliari e malato di calcio come me. San Siro era il posto di Milano in cui ci sentivamo più a casa, insieme al Capolinea, il tempio del Jazz, che da molto tempo non c’è più. Ricordo alcune assurde partite viste in quel periodo, partite che solo dei pazzi come noi avrebbero potuto vedere. Domeniche con un clima che mai avrebbe dovuto giustificare l’uscita da casa. Bruno abitava a Rogoredo, arrivava fino a Bisceglie, ci trovavamo in Via delle Forze Armate, e poi andavamo allo stadio, qualche volta con la 49, ma quasi sempre ci andavamo a piedi. Mi è sempre piaciuto il momento in cui, in pieno inverno, tra la nebbia e il gelo, mentre si cammina stretti nei cappotti, a un certo punto compare San Siro. E San Siro compariva sempre. Una delle partite più strane che andammo a vedere in quel periodo, ma anche quella che ricordo con più affetto, fu un Milan – Ancona, era il 13 dicembre e faceva decisamente freddo. Perché andammo a vedere quella partita non lo ricordo, probabilmente non avevamo nulla di meglio da fare. Ricordo che non fu una gran match e che un freddo alle gambe come quel giorno non l’ho quasi mai più provato. Il Milan vinse 2 a 0, con una doppietta di Papin. Il primo gol, fu in rovesciata. Straordinario. Essendo neutrali non esultammo, ma applaudimmo parecchio, anche per scaldarci le mani. E comunque eravamo lì, eravamo a San Siro. Capii quel giorno che uno stadio non è detto che appartenga soltanto ai tifosi delle squadre di casa. Lo stadio è il posto in cui si va per condividere una passione, una passione a forma di cosa rotonda che rimbalza e rotola. Tornammo poi a gennaio per Milan – Cagliari. Il Milan vinse 1 a 0, faceva lo stesso freddo di dicembre, solo che Bruno era molto più incazzato. Era il Cagliari di Mazzone e Matteoli, segnò ancora Papin, se non ricordo male, su rigore. Qualche settimana dopo finiva il mio primo periodo a Milano. Io e San Siro però ci conoscevamo bene, ci saremmo ritrovati presto. Avevo fatto amicizia con alcuni abbonati del Milan e con alcuni dell’Inter, gente che stava nell’anello arancio, bene o male andavamo sempre lì.

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Nel 1996 tornai a Milano e non mi sono mosso mai più. L’idea di restarci stabilmente mi fece prendere possesso della città. Le strade erano tre: gli amici, i giri che facevo a piedi o con i mezzi pubblici portandomi appresso i libri di poesia che più amavo, e San Siro. Cambiava il percorso, ora vivevo vicino Piazza Vesuvio (ironia della sorte); cominciava a cambiare Milano. Cambiavano i posti dove andare la sera, cominciava a cambiare il clima. Le periferie che amo particolarmente si ingrandivano o si trasformavano, una fermata della metro era in grado di mutare un quartiere, come se lo spostasse verso il centro. Da lì a qualche anno gli inverni (salvo eccezioni) sarebbero stati meno rigidi, con meno neve e nebbia sempre meno fitta. Le estati facevano più fatica a cambiare, l’afa è una cosa che resiste. Andavo a San Siro, qualche volta anche da solo, qualche volta con Bruno e poi con amici interisti. Ricordo di aver visto per un paio d’anni partite di cui oggi non mi fregherebbe nulla, ma andare a San Siro mi piaceva. Così come mi piaceva andare al San Paolo fino a qualche anno prima. Mi mancava Fuorigrotta e mi mancava il mio Napoli, quel Napoli che stava sbiadendo. San Siro era una terapia decente. Era uno stadio vero tanto per cominciare, non c’era quell’assurda pista d’atletica e la partita la vedevi come si deve. 20 ottobre 1996, Milan – Napoli, è un bel pomeriggio di sole. Il Milan è quello di Weah (che realizzerà una doppietta) e di Baggio (segnerà anche lui). Il Napoli è già quello di Caccia e Aglietti, quello di Cruz che segnerà il nostro unico gol. Quel giorno a San Siro c’ero andato da solo, facendo a piedi quasi tutta la strada. Dopo tornai a casa molto lentamente, mi accompagnava una brutta malinconia, quel pomeriggio il Meazza mi fece capire che i miei primi anni a Milano sarebbero coincisi con tristissime prestazioni del Napoli. Registrai il dato.

Gli anni passavano: Milano era sempre più casa mia, avevo più cose da fare e, complice il mio Napoli, cominciai ad andare a San Siro un po’ di meno, ma ogni tanto lo stadio chiamava. L’anno dopo il Napoli retrocesse in serie B, finimmo ultimi con 14 punti. Ho rimosso le partite di quell’anno, ma c’ero, c’ero sia con l’Inter, sia con il Milan. Quello però fu il campionato in cui vidi il mio primo derby. Uno spettacolo indimenticabile. La partita è un posticipo, l’Inter è quella di Ronaldo e vincerà 3 a 0, meritatamente. Quella sera fece una doppietta Simeone, in mezzo un pallonetto di Ronaldo su assist di Moriero: bellissimo. Fu la prima volta che mi sentii estraneo in uno stadio. Non c’entravo niente con nessuna delle due squadre e, tornando a casa, non avevo il diritto di condividere la gioia degli interisti né la tristezza dei milanisti. Ma l’empatia restava, perché avevo assistito allo spettacolo, il pallone aveva comandato un’altra volta. Ma col Napoli così lontano dalla serie A non sarei andato più così spesso. San Siro divenne il posto in cui respirare un paio di volte all’anno.

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Mi piaceva piazzale Axum, mi piacevano i palazzi intorno allo stadio, mi piaceva la puzza che arrivava dall’Ippodromo quando girava il vento giusto, mi piacevano i banchetti che vendevano le maglie e le bandiere, mi piaceva condividere qualcosa con degli sconosciuti.

Di partita in partita sono passati vent’anni. Lo stadio è cambiato, sono cambiate le regole per entrarci, siamo cambiati noi. È cambiato il nostro modo di vedere le cose e le partite. Siamo di proprietà delle pay tv, delle telecamere e dello streaming. Il pallone però è sempre lo stesso. Vi racconto un’ultima partita. Milan – Lazio 2 a 2, febbraio 2003. Fu una partita molto bella, l’ideale per chi non tifa per nessuno. La Lazio segnò con Stankovic e poi su rigore con Claudio López, la partita sembrava finita. Nel secondo tempo, però, entrò Pippo Inzaghi e salirono in cattedra Pirlo e Seedorf. Inzaghi si scatenò, prima segnò alla sua maniera e poi fornì l’assist per il pareggio a Rivaldo. Una splendida serata, da estraneo. In quegli anni il Napoli era così distante, così sofferente, così in B. Mi mancava moltissimo, decisi che San Siro non sarebbe stato più il mio posto almeno per un po’. Ci sono tornato pochissime altre volte. I fine settimana non li passo più a Milano da un pezzo e il calcio lo racconto inventandolo. Eppure, quando sono uscito dalla Metro 5 ho provato quel tuffo al cuore, come quello che provai quando entrai la prima volta al San Paolo per un Napoli – Como (3 a 0, il primo Napoli di Maradona). Doveva arrivare un mezzo di trasporto senza conducente per riportarmi a casa.