Warriors Luna Park

Con un Durant in più, Golden State si prepara a riscrivere la storia Nba: come migliorare il 73-9 dello scorso anno e cancellare la delusione delle Finals?

Non si può non partire da Kevin Durant. Che a Oklahoma City aveva aperto il proprio ristorante, il KD’s Southern Cuisine (ora chiuso). A Bricktown — o meglio, a Lower Bricktown. E questo spiega tutto. Perché la scritta Bricktown a Oklahoma City segnala l’ingresso in una via che — trecento metri dopo — è sostanzialmente già finita. Terminata la visita al museo del Federal Bombing — dove, come alla stazione di Bologna, si è voluto fermare il tempo, con l’orario a indicare perennemente l’attimo della tragedia — in città non c’è letteralmente altro da fare se non cercare un bar, due negozi e un ristorante — quello di Durant, appunto — in quei trecento metri dove dominano i caratteristici mattoni rossi a vista. Che però rimangono trecento metri, e se la parola Lower assume un certo significato quand’è associata a Manhattan, ne assume tutto un altro di fianco a Bricktown. Vien quasi da sorridere per il tentativo disperato di inventarsi un’improbabile grandeur, ma denuncia tutto il provincialismo di una certa America redneck quando prova a diventare qualcosa che non è. Kevin Durant ha trascorso gli ultimi otto anni della sua vita a Oklahoma City. Per scelta, certo. E retribuito bene, molto bene. Da privilegiato. Da superstar, sia chiaro. Ma poi…

PHOENIX, AZ - OCTOBER 30: Kevin Durant #35 of the Golden State Warriors walks onto the court before the NBA game against the Phoenix Suns at Talking Stick Resort Arena on October 30, 2016 in Phoenix, Arizona. The Warriors defeated the Suns 106 -100. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and or using this photograph, User is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. (Photo by Christian Petersen/Getty Images)
Kevin Durant a Phoenix, nella vittoria dei Warriors contro i Suns per 106-100 #35 (Christian Petersen/Getty Images)

Ma poi arriva l’estate, e come per tanti altri giocatori Nba è Los Angeles la città attorno alla quale si gravita più volentieri. Il clima, le spiagge, le ville sull’oceano, la gym di Ucla dove poter sempre trovare un buon pick up game, il livello della competizione alto almeno come quello dei club e dei locali. In uno di questi — io mi immagino un posto come l’Ivy, N. Robertson Blvd, quando è bel tempo non si varca neppure la porta ma si resta fuori in un delizioso giardinetto con graziosi tavolini (e a Los Angeles è sempre bel tempo) — Kevin Durant è seduto con un giornalista di Rolling Stone, magazine su cui di lì a poco apparirà in cover, in jeans e canottiera di cotone bianca. Un’insalata da Ivy costa 35 dollari, ma solo da Nike si dice che Durant incassi 300 milioni di dollari per i prossimi 10 anni, e insomma, non è quello il problema. Ci si gode il sole, la temperatura è gradevole, il resto delle persone sembra non notare che al tavolo c’è un 7-volte All-Star, 4-volte miglior marcatore Nba, l’Mvp 2014 e il giocatore più chiacchierato degli ultimi mesi. Non sembrano notarlo perché nel giro di mezz’ora tra quei tavoli transita anche Usher — fist bump con KD, un saluto veloce e via — mentre da un’auto che rallenta in strada, da dietro un finestrino abbassato, saluta Kevin Love, anche lui di passaggio in zona.

 

Una volta, trent’anni fa, mica secoli, Los Angeles era la capitale dell’industria culturale mondiale, sulla collina quelle nove lettere magiche — H-O-L-L-Y-W-O-O-D — e sul parquet la squadra più entertaining della lega, i Lakers dello Showtime, non a caso. Non un mistero che i giocatori facessero la fila per andarci, per vincere, certo, ma anche per sentirsi al centro del mondo. Oggi in casa Lakers si cerca di risalire dopo aver toccato il fondo, mentre in città ad andar meglio sono i Clippers — una realtà vincente da anni, ormai — ma che in fondo, beh, rimangono pur sempre i Clippers. E allora la bussola va puntata 350 miglia più a nord, ma sempre sulla West Coast, sempre in quella California dove una volta si cercavano oro — Golden State, no? — e fortuna. E dove oggi, anno di grazia 2016, si trova la capitale dell’industria culturale attuale. Non è più il cinema, a farla da padrone, ma ovviamente la tecnologia, la Silicon Valley è il giardino di casa di San Francisco e gli Warriors sono la squadra che incarna lo spirito dei nostri tempi, la zeitgeist tradotta su un campo da basket. Ecco perché Kevin Durant, come i cacciatori d’oro di metà dell’Ottocento, ha deciso di cercare fortuna qui.

Il gioco, un gioco — Dal suo buen retiro estivo, KD ha scelto Golden State perché la preparatissima presentazione di squadra — che prevedeva tanto di visore di realtà aumentata, per portare fino alla placide spiagge degli Hamptons tutto il vibe della Oracle Arena (in fondo anche questa un’evoluzione hi-tech dell’invenzione dei fratelli Lumière) — si è rivelata un’epic fail. Il visore si è inceppato sul più bello, la presentazione si è interrotta, le urla dei fan degli Warriors rimaste beffardamente intrappolate proprio in un file. Alle orecchie di Durant, allora, invece dell’assordante ruggito della Roaracle sono arrivate le risate divertite della delegazione Warriors, di quelli che sarebbero potuti diventare i suoi futuri compagni, e le parole di Steph Curry: «A me non interessa il numero di tiri o chissà cos’altro: io voglio solo vincere un altro titolo».

PHOENIX, AZ - OCTOBER 30: Draymond Green #23 of the Golden State Warriors high fives Andre Iguodala #9 after scoring against the Phoenix Suns during the second half of the NBA game at Talking Stick Resort Arena on October 30, 2016 in Phoenix, Arizona. The Warriors defeated the Suns 106 -100. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and or using this photograph, User is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. (Photo by Christian Petersen/Getty Images)
Cinque alto tra Draymond Green e Andre Iguodala (Christian Petersen/Getty Images)

Così, pochi mesi dopo, l’ex Thunder faceva il suo ingresso nella palestra degli Warriors, per il primo allenamento stagionale. Accolto da altre risate, e da tanta musica sparata a volume da concerto dagli amplificatori della practice facility di Oakland. Sembrava una festa. Sembrava un gioco. Il gioco della pallacanestro. La pallacanestro come gioco. E poi perché a 28 anni Kevin Durant è convinto di dover ancora crescere, come uomo e come giocatore. «C’è ancora tanto che devo imparare. Pensavo di conoscere meglio la pallacanestro», è stata una delle prime e più interessanti dichiarazioni rilasciate da Warrior. Il primo a essere d’accordo è il suo nuovo allenatore, che ovviamente non lo dice ma per il suo nuovo acquisto aveva già pronte tutte una serie di novità. A partire dal movimento lontano dalla palla: finiti i tempi in cui Durant guardava immobile il Russell Westbrook Show un’azione su due, fermo in ala o in un angolo del campo; ecco invece una sequenza senza fine di tagli continui, attività, movimento, quasi come se la gioiosa macchina offensiva degli Warriors si nutrisse in primis dell’energia cinetica sprigionata dai suoi stessi interpreti. “è un cambiamento di 180° rispetto alla pallacanestro che era abituato a giocare”, il parere di uno che la sa lunga, il due-volte Mvp Nba Steve Nash. Che nell’analizzare i nuovi Warriors ha un’altra opinione che vale la pena stare a sentire: «Devono trovare un modo di giocare assieme, ma se lo fanno hanno il potenziale per essere la miglior squadra offensiva nella storia della Nba».

 

De-fense! — Steve Nash poi va avanti, e aggiunge la parte più significativa: «Solo che qui la cultura di squadra è diversa; qui si cerca di essere la miglior squadra difensiva, convinti che tanto poi l’attacco verrà di conseguenza». Come non potrebbe? L’arsenale offensivo di Golden State è così ricco che prima o poi uno a turno tra Steph Curry, Klay Thompson o Kevin Durant esplode (o peggio ancora tutti e tre assieme) e la partita viene spaccata in due. Ma il punto, dice Nash, è un altro. Steve Kerr col suo fido Ron Adams al fianco, sta lavorando per fare di questi Warriors la miglior squadra difensiva della lega. Non è una boutade, non è un obiettivo di facciata. Gli Warriors sono già stati la miglior squadra difensiva Nba l’annata conclusa con l’anello (98.2 punti concessi per 100 possessi nel 2014-15) e i quarti migliori lo scorso anno (100.9); ora aggiungono ai vari Draymond Green, Klay Thompson e Andre Iguodala anche David West e Zaza Pachulia (poco intimidatori al ferro, forse, ma difensori interni più che rispettabili) e lo stesso Kevin Durant, che non avendo più sulle sue spalle gran parte del peso di un intero attacco potrà — almeno in gare selezionate, soprattutto dalla primavera  in avanti — dedicarsi con maggiore energia e dedizione alla fase difensiva del gioco, dove è capace di eccellere. «Se hanno la mentalità per accettare di sacrificare qualcosa del loro gioco offensivo — dice ancora Steve Nash, che di questi Warriors (un po’ come Jerry West) è consulente fuori-sede — si accorgeranno che alla fine non si tratta neppure di un sacrificio», ma semplicemente di mettere il bene della squadra davanti a quello individuale. Una delle frasi fatte più comuni nel mondo Nba, sulla bocca (ma spesso soltanto sulla bocca) di ogni giocatore è il classico “All I wanna do is win”: se alle quattro superstar degli Warriors “importa davvero soltanto di vincere”, beh, sarà difficile impedirglielo.

Granelli di sabbia — Cosa può fermarli? Cosa può fermare una squadra già capace di stabilire il miglior record di sempre in stagione regolare (73 vittorie, 9 sconfitte) per poi uscire rafforzata dall’ultima estate, con l’arrivo del terzo miglior marcatore (per media punti) dell’intera storia Nba? Si possono fare solo ipotesi, ipotesi che le 29 squadre avversarie chiamano speranze, frasi che iniziano tutte necessariamente per forse.

 

Forse le troppe novità di un roster che ha sì accolto Durant ma ha dovuto lasciar andar via ben sei giocatori, di cui due titolari (Harrison Barnes e Andrew Bogut) e altri quattro comunque di rotazione, tutti sopra gli undici minuti di utilizzo medio (Festus Ezeli, Leandro Barbosa, Brandon Rush e Marreese Speights). È sicuramente un’osservazione valida — contando quanto la stabilità del roster e l’abitudine dei vari interpreti a giocare il sistema di pallacanestro degli Warriors contino nell’arrivare ai successi finali — ma non sembra sufficiente a spaventare i tifosi sulla Baia. Per due motivi: il primo è che i due componenti più importanti della panchina di Golden State (Andre Iguodala e Shawn Livingston) ritornano al via, confermatissimi; il secondo è che Steve Kerr sembra avere volentieri strappato una pagina dal libro di uno dei suoi maestri in panchina, niente meno che Phil Jackson. Uno che — abituato ad allenare per più anni gruppi vincenti, prima a Chicago e poi a Los Angeles — apprezzava la possibilità di scombinare un po’ le carte in tavola per cambiare gli equilibri, stabilire nuove dinamiche ed evitare che il gruppo si appiattisse su se stesso (Dennis Rodman al posto di Horace Grant nel gruppo del secondo threepeat ai Bulls, Ron Artest invece di Trevor Ariza nei Lakers del back-to-back 2010). Ecco allora che l’innesto di Kevin Durant può essere pensato anche per mantenere vivo il gruppo, stimolarlo a mettersi continuamente in discussione, costringerlo a cambiare e ad adattarsi, reciprocamente, evitando che routine e noia possano intaccare il più bel prodotto di basket degli ultimi anni.

PHOENIX, AZ - OCTOBER 30: Stephen Curry #30 of the Golden State Warriors runs out onto the court before the NBA game against the Phoenix Suns at Talking Stick Resort Arena on October 30, 2016 in Phoenix, Arizona. NOTE TO USER: User expressly acknowledges and agrees that, by downloading and or using this photograph, User is consenting to the terms and conditions of the Getty Images License Agreement. (Photo by Christian Petersen/Getty Images)
Non c’è arena Nba dove l’ingresso in campo di Steph Curry non passi inosservato (Christian Petersen/Getty Images)

Forse, allora, a rovinare tutto può essere la pressione cui devono far fronte gli Warriors fin dal primo giorno, può essere quello il granello di sabbia capace di fermare i meccanismi perfetti di questa squadra. Chiunque — dai bookmaker di Las Vegas ai vari general manager in giro per la lega — non ha dubbi a prevedere Golden State di nuovo sul trono Nba. E tale certezza, può, in effetti, diventare un problema. Perché proprio la pressione — di battere i Bulls del record di Michael Jordan e centrare la 73esima vittoria stagionale — ha probabilmente prosciugato le energie fisiche e mentali degli Warriors sul finire della scorsa stagione, portandoli al collasso delle ultime tre gare di finale. E perché quando si moltiplicano da più parti voci e attacchi spesso incontrollati e incontrollabili, è facile perdere la testa e lasciarsi coinvolgere, spostando il focus da quello che davvero conta (qui la reazione di Klay Thompson a un pezzo che definiva da “codardi” la prestazione degli Warriors in gara-5 delle ultime finali Nba, senza Draymond Green squalificato).

Forse — ed è l’ultimo forse a cui si aggrappa il resto della Nba di fronte ai Golden State Warriors versione 2016-17 — l’ego di quattro superstar non è gestibile all’interno di una singola squadra. Quello di Steph Curry, che scalzato a sorpresa da LeBron James dal trono Nba, vuole andare a riprendersi la posizione che è convinto gli spetti; quello di Klay Thompson, che alla firma di KD ha reagito con un secco «Io non intendo sacrificare un c***o, il mio gioco non cambierà»; quello di Durant stesso, che in California è venuto per vincere ma che se lo facesse da comprimario darebbe soltanto fiato alle trombe dei suoi critici; e quello, soprattutto, di Draymond Green, che un articolo uscito appena prima del via della stagione su Espn The Magazine dipinge come pericolosamente al limite, ai ferri corti con allenatore e compagni, sul punto di premere quel pulsante rosso di autodistruzione che potrebbe mandare in fumo la più grande squadra di tutti i tempi. «Tutti i giocatori NBA, e questo vale soprattutto i più grandi, devono avere un ego — chiude ancora Steve Nash, esempio perfetto di superstar altruista — ma quest’ego dev’essere sano, positivo». Se il superteam in maglia Warriors sarà in grado di coglierne la sottile differenza, c’è un altro forse che va ad aggiungersi alla lista delle possibili risposte su cosa possa fermare quest’anno Golden State. Forse niente.

 

Nell’immagine in evidenza, Kevin Durant e Stephen Curry al Media Day (Ezra Shaw/Getty Images)