È rimbalzata dai social alle pagine dei giornali la polemica innescata dalle dichiarazioni di Thomas Müller sull’inutilità degli scontri con squadre di livello amatoriale come San Marino. Al di là di aspetti folcloristici sulla “presunzione” germanica e para-politici con la richiesta di scuse ufficiali avanzate dal Segretario di Stato Lonfernini, la questione è particolarmente interessante perché rende manifesto il sottile dissidio tra due modi completamente diversi di vedere il calcio. E perché ci dà alcune indicazioni sul modello verso cui potrebbero tendere i successivi sviluppi della macchina organizzativa calcistica.
L’assunto di base da cui partire è la constatazione che entrambe le parti hanno sostanzialmente ragione: si fronteggiano due punti di vista diversi, ma legittimi. Da un lato c’è chi non solo reclama i tradizionali spazi di rappresentanza, ma rivendica anche la propria esistenza calcistica in quanto legittima emanazione di uno Stato sovrano. Dall’altro c’è invece chi oppone una definitiva emancipazione della rappresentazione calcistica contemporanea da quell’ormai superata formula decoubertiana che concepisce all’interno del suo modello organizzativo la presenza di strutture amatoriali.
La filosofia olimpica si afferma solo in un secondo momento con un’accezione universalistica, tendente alla promozione della fratellanza globale. Originariamente era figlia degli stessi valori di affermazione nazionale che De Coubertin ebbe il pregio di lasciar sfogare in manifestazioni sportive e che altri declinarono diversamente, spingendo l’Europa e il mondo intero sull’orlo del baratro di un conflitto durato oltre trent’anni.
Da allora, l’organizzazione che regola l’accesso alle competizioni calcistiche internazionali rispecchia ancora oggi un modello che garantisce la rappresentanza su base nazionale. Il superamento teorico di questo modello prevede invece una soglia di sbarramento ulteriore, di tipo professionistico. Sostanzialmente per partecipare non basterebbe più soltanto il requisito di avere una federazione calcistica rappresentante di un determinato governo sovrano, ma anche quello di poter mettere in campo una squadra di professionisti.
Non è un caso che l’emancipazione dal modello tradizionale di stampo decoubertiano si sia affermata nel contesto statunitense, da sempre refrattario alla logica di affermazione sportiva per sopraffazione nazionale. La settimana scorsa i Chicago Cubs, che dopo 108 anni hanno abbattuto la maledizione di Billy Goat, si sono laureati “campioni del mondo” di baseball. Poco importa se hanno sconfitto in finale Cleveland e non hanno affrontato nel corso della stagione squadre di altre nazioni. Sono i migliori non perché hanno sconfitto rappresentanti di altri Stati, ma perché il campionato in cui giocano è semplicemente il migliore al mondo.
Thomas Müller: contestazione al modello classico
Una prima contestazione del modello decoubertiano-nazionale era già avvenuta col dilagare del professionismo sportivo, che resta ancora tabù per alcuni sport olimpici come il pugilato. Col tempo si sono trovati spazi di coabitazione tra logica di rappresentanza nazionale – che ammette l’amatoriale, purché emanazione di uno Stato – e logica professionista. Tornando al calcio, le Qualificazioni a Mondiali ed Europei sono un esempio del raggiungimento di questo compromesso. I frequenti litigi tra club e federazioni sull’utilizzo dei calciatori sono anche l’esempio che uno scontro tra le due logiche persiste, e si muove sotto traccia. Parlando così, Müller si fa inconsapevole portavoce di un’istanza di raggiunta incompatibilità tra modello passato e nuovo modello iper-professionista, in cui la legittimazione della superiorità è data – come ci insegnano gli americani – non più dal prevalere su altre rappresentative nazionali, ma dal vincere all’interno di un contesto superiore.
Proprio guardando alle grandi leghe d’oltreoceano possiamo capire meglio questo approccio che privilegia l’affermazione in un sistema superiore rispetto al confronto generalizzato. Se è vero che fino al 1989 vigeva il veto della Fiba alla partecipazione di giocatori Nba alle Olimpiadi, è anche vero che per anni l’organizzazione Usa Basketball non ha permesso ai campionissimi a stelle strisce, pur potendo, di calcare i parquet di competizioni continentali e intercontinentali.
Il Dream Team di Barcellona ’92 appare sulle scene in un contesto internazionale completamente modificato, all’alba di quella che doveva essere l’era politica dell’unilateralismo americano. I momenti di regresso della Nazionale statunitense sono coincisi con la caduta di quelle premesse, data l’affermazione politica del mondo multipolare. La rappresentanza nazionale si è oggi settata su standard estremamente elevati, ma comunque meno appariscenti dei primi anni ’90: la nazionale olimpica presente a Rio, pur fortissima e rimasta imbattuta, era volutamente depotenziata di alcuni elementi come Steph Curry e LeBron James. L’esempio più compiuto di questa diversità di approccio lo dà comunque il baseball, sport “made in Usa” per eccellenza ma non di totale esclusiva americana. Ci sono infatti realtà sviluppatissime nei Caraibi, nel Sud America, in Estremo Oriente. E c’è un discreto semi-professionismo anche europeo con Italia e soprattutto Olanda.
Allo stato attuale l’idea di baseball della massima lega americana, la Mlb, è totalmente incompatibile con le competizioni intercontinentali, e soprattutto con le Olimpiadi. Alcuni riconducono questo mancato incontro alla questione della sovrapposizione di date e al numero di impegni. Altri, più maligni, a una legislazione più lasca sull’uso di steroidi rispetto agli standard olimpici. Sta di fatto che le stelle della Mlb – tra gli sportivi più pagati al mondo – hanno sempre disertato le Olimpiadi. Lo stesso baseball ha sempre rappresentato uno sport “carsico” nel programma olimpico, sparendo e riapparendo più volte. Non previsto a Londra e Rio, ritornerà nuovamente nel 2020 in Giappone, dove ha dignità di sport nazionale.
Lo spazio di rappresentanza nazionale affermatosi negli anni di assenza olimpica del baseball è del tutto sui generis. Dopo la soppressione del Campionato mondiale, la Federazione internazionale ha dovuto accordarsi con la Mlb, sposando un format concepito dalla stessa lega americana, quello della World Baseball Classic. Si tratta di una competizione a inviti, con un round di qualificazione per wild card, una sorta di Super lega per squadre nazionali a immagine e somiglianza della Mlb. E all’interno della quale i club sono totalmente tutelati sia per quanto riguarda le finestre temporali, sia per l’utilizzo dei giocatori.
È l’iper-professionismo, bellezza
In conclusione, dobbiamo rassegnarci all’affermazione di modelli simili a quello del World Baseball Classic anche per il calcio? No. O almeno non necessariamente. Le parole di Müller certificano comunque la maturità e la volontà di alcuni operatori calcistici – quelli abituati ai più alti livelli – a compiere un ulteriore passo in avanti verso il modello iper-professionista. Ogni discorso sullo stereotipo dell’arroganza nazionale tedesca (che tanto esalta anche molti italiani), non tiene conto dello spirito naïf con cui Müller ha pronunciato quelle parole. Nella sua carriera Müller si è mosso solamente entro i confini iper-professionistici del Bayern ed è per questo motivo che non concepisce la presenza amatoriale nel modello. È perfettamente normale che si senta “alieno” rispetto ai giocatori del San Marino.
Qualcosa sta cambiando e non possiamo non accorgercene. Il mutamento concettuale in seno a chi ruota attorno al mondo dei club porta cambiamenti anche sul piano delle rappresentative nazionali. L’iper-professionismo si porta dietro una logica marginalista di preservazione del capitale investito. Detta brutalmente: in campo vanno asset aziendali prima che uomini, e il gioco per essere giocato deve valere la candela. Ma questo non può essere visto solo in ottica prettamente economicistica e negativa: lo svincolamento del calcio da un nesso con il politico, appunto il legame tra rappresentanza calcistica e sovranità, lo riconcilia con l’aspetto puramente sportivo e qualitativo.
Dal punto di vista dei club, il modello di accesso alle competizioni europee rispecchia già la concezione iper-professionista. A parte alcuni inguaribili nostalgici, pochi sarebbero disposti a tornare all’originario format della Coppa Campioni, che garantiva la rappresentanza alle formazioni vincitrici del proprio campionato nazionale, tenendo fuori altre squadre delle leghe più sviluppate.
Non solo. Una competizione come la vecchia Coppa Intercontinentale, diventata Mondiale per club dal 2005, ha ancora problemi di accettazione del merito sportivo quando a contendersi il trofeo con la squadra europea non è la squadra sudamericana. Ad esempio nell’edizione del 2013 al Bayern Monaco è bastato battere Guangzhou e Raja Casablanca per laurearsi campione del mondo. Sono tra l’altro in cantiere progetti di riforma per questa competizione al fine di operare un auspicato riequilibrio qualitativo per svincolarsi dalla logica meramente rappresentativa.
Paradossalmente lo slittamento verso l’iper-professionismo a livello di Nazionali potrebbe arrivare proprio dall’Europa: la scorsa edizione degli Europei ha visto l’accesso alla fase finale di circa il 45% delle partecipanti alle Qualificazioni, rendendo quasi un pro-forma i gironi del biennio precedente alla competizione. Eppure ci sono state ugualmente clamorose sorprese come la mancata partecipazione dell’Olanda, e in parte anche di Serbia e Grecia. Le qualificazioni alla competizione continentale europea si presterebbero perfettamente come campo applicativo iper-professionista, attraverso la garanzia del posto alla fase finale per le migliori in base al ranking, e un sistema di wild card per le meno quotate.
Una cosa è certa. Uno sviluppo evolutivo in questo senso non può prescindere da un accordo tra gli interessi economici dei club e quello delle federazioni, come successo tra Ibaf e Mlb. Solo con il consenso su utilizzo dei giocatori e organizzazione delle finestre temporali assegnate a club e Nazionali può dare vita al passo successivo anche per le nazionali. Che i club stiano già di fatto compiendo questo passo in avanti è, a parere di chi scrive, scontato.
Resta comunque difficile sradicare l’approccio competitivo tipicamente europeo, dal momento che la visione del vecchio continente è ancora quella dominante nel mondo del calcio. Proprio la logica della sopraffazione nazionale ci è rimasta, nonostante decenni di integrazione economica e auspicata unione politica. Mi è capitato di dover spiegare a un amico americano il perché non tifassi Germania o comunque una squadra europea, una volta che l’Italia era uscita dalla competizione durante il Mondiale sudafricano. Ho trovato con difficoltà alcune vaghe motivazioni, ma non l’hanno convinto pienamente.