Il derby della memoria

Quattro firme raccontano il loro personale Milan-Inter, quello che ha cementato maggiormente la loro identità da tifoso.

Cosa significa Milan-Inter per chi tifa una delle due squadre? Abbiamo chiesto a quattro firme di Undici di raccontare un derby che è rimasto particolarmente impresso nella propria memoria. Non necessariamente il più bello, non per forza uno vinto dalla squadra per cui si fa il tifo. La stracittadina milanese come momento di vita, a poche ore dalla sfida che da sempre scandisce i ritmi di un’intera città.

Inter-Milan 3-2, 11 dicembre 2005

Come ogni buon interista di provincia, ho sognato per anni l’attimo in cui sarei entrato a San Siro per la prima volta: ero convinto che non l’avrei dimenticato mai più. Invece, il momento che mi sono portato dietro per il resto della vita che ho vissuto è quello in cui da San Siro sono uscito. Era l’undici dicembre duemilacinque. E mi è venuto in mente che Peppino Prisco aveva un sogno: vincere all’ultimo minuto con un gol di mano, oppure in fuorigioco: meglio se in fuorigioco e di mano. Non siamo riusciti a realizzarlo, ma eravamo sulla buona strada.

L’Inter va in vantaggio con un rigore che non c’era al 24esimo del primo tempo. Nesta si scontra con Martins dentro l’area di rigore. Cadendo, sembra toccare la palla con la mano – ma non la tocca. L’arbitro fischia. Adriano tira a sinistra. Dida si lancia a destra. Ed è uno a zero. Passano quindici minuti e il Milan pareggia a sua volta con un rigore, un tantino più realistico del primo. Lo segna Shevchenko. Dopodiché, Kaladze cade a terra sanguinante. Samuel dà una manata a Gilardino e gli apre il mento. Stam distribuisce ginocchiate, con quella cattiveria involontaria e perciò ancora più tremenda. Cordoba spalanca le narici per ringhiare agli avversari. E Kakà pattina in mezzo al campo con delicata maestà. Finché Adriano calcia una punizione da trentacinque metri. Fortissima. Dida la respinge corta. Martins infila il destro sotto i guantoni che tentano di riacciuffarla. E poi fa quattro capriole per festeggiare il 2 a 1. Dura 24 minuti il vantaggio. Dura fino a quando Andrea Pirlo calcia una punizione dalla fascia destra. Stam sovrasta Stankovic e Adriano e segna il pareggio di testa. Siamo a sette minuti al termine. Sette, sei, cinque, quattro, tre, due, uno, zero. Mi alzo per andarmene. Quando al 91esimo l’arbitro assegna un calcio d’angolo. Vedo Juan Sebastián Verón che prende la palla e la posizione sulla lunetta disegnata davanti alla bandierina. Alza la testa. Guarda dentro l’area di rigore e calcia di destro una palla che fluttua sopra una mezza dozzina di giocatori del Milan e scende sulla testa di Adriano, che stacca tra Cruz e Bobo Vieri e la sbatte dentro per il 3 a 2. (Nicola Mirenzi)

Milan-Inter 1-1, 20 novembre 1994

Il derby è sempre stata la sofferenza suprema, più di ogni altra cosa nel calcio. Il malessere sublimato in una sola partita, che sia una semifinale che varrà la Champions League o una sera qualunque dell’anno di grazia 1994/95, cambia poco. I primi Milan-Inter sono per me le sere da ragazzetto davanti ai canali Tele +, io, mio fratello e mio padre a guardare lo schermo grande del salone di casa. I derby sono le scale del caseggiato fatte in lungo e in largo per raggiungere casa di Edoardo, lui e suo padre, interisti. Io che entro a casa del nemico. Quando da me ancora non era arrivata la ventata che profumava di borghese e accettazione sociale della tv commerciale a pagamento. Nel 94/95 l’Inter è “tutta italiana”, questione che sembra predire un futuro distopico e completamente differente. Ci sono i Paganini e i Delvecchio, c’è Orlandini e c’è Andrea Seno, con quella bellezza patinata da fotoromanzo. È anche l’Inter di Fontolan che segna di sinistro al volo, inarcandosi all’indietro con il busto mentre lascia che il sinistro spinga morbido ma sicuro il pallone contro il palo e poi dietro la schiena di Sebastiano Rossi.

I derby di quegli anni mi hanno reso migliore, anche grazie a Edo e suo padre che parlavano ossessivamente di tattica e posizioni in campo. È da loro che ho appreso cosa significhi giocare a calcio con cognizione di causa. Ho soltanto dieci anni e Paolo Maldini è il mio Dio: quando a ripresa appena iniziata si gira roteando leggero, regalando al pallone una traiettoria che sembra uscita da un calcolo matematico complesso, esplodo in un urlo poco cortese. Sono un milanista che freme in una casa di interisti, sono un sacrilegio contenuto per non farmi cacciare di casa. Quell’anno perderemo anche i derby di Coppa Italia insieme a una finale di Champions, decisa da un ragazzino di appena diciannove anni. Edoardo mi prenderà per il culo per il resto di quei mesi freddi e lontani ne tempo. Quel ragazzo dall’impeto ajacide si chiamava Patrick Kluivert, il Milan lo comprerà qualche anno dopo in preda a una sorta di sindrome di Stoccolma e, con loro, anche noi tifosi. Quello che resta è che una volta ho esultato in casa di un interista. (Oscar Cini)

Milan-Inter 1-0, 23 novembre 2002

Durante la settimana che precede il derby ho un incubo ricorrente. Cinque lettere: Vivas. Di quella serata di fine novembre di quattordici anni fa mi ricordo il salotto della casa del mio amico, tutto buio, con al centro la tv luminosissima come un corpo celeste caduto lì per caso. E mi ricordo il suo cane, un labrador, che gironzolava tra il divano e lo schermo, facendo un moderato pressing sulla margherita poggiata su un tavolino. Era l’Inter post 5 maggio, un trauma ancora tristemente vivo, una ferita aperta (che, in fondo, si sarebbe chiusa nell’estate del 2006 o, forse, solo nel 2010). In panchina c’era lui, Cuper, el hombre vertical con gli occhi da pazzo o da profeta incompreso. In campo non c’era Javier Zanetti, che è stato il capitano della mia adolescenza, unico punto fermo a cui aggrapparsi durante le tempeste. Zanetti ha incarnato il concetto di fedeltà, mi ha insegnato che l’amore eterno esiste e può durare anche se i momenti bui sono più numerosi delle gioie (ma poi quelle gioie, mamma mia Javier, quando arrivano quelle gioie quanto sono intense?).

Ma quella sera era in panchina, colpa di una trasferta in Giappone con l’Albiceleste e di una scelta di Cuper inspiegabile secondo la logica degli esseri umani dotati di buon senso. Guardai la grafica di Sky con le formazioni in campo e sentii un senso di sconforto istantaneo che cercai di scacciare con una fetta di margherita. Pensavo che quelle grafiche lì, per le partite dell’Inter, fossero già impostate con la scritta “J. Zanetti” sulla fascia destra. E invece quella sera, nella porzione di campo del terzino destro, ci lessi “Vivas”. Il sapore della pizza iniziò a non essere più così buono. Non parlammo: le partite si seguivano in silenzio, a maggior ragione i derby. Era una regola. Al massimo un’occhiata e un’alzata di spalle. La margherita, dopo tredici minuti, rischiai di vomitarla: Vivas mancò la palla che Rivaldo aveva lanciato per Serginho. Il brasiliano prese in controtempo Toldo e si ritrovò con la porta spalancata. L’ultima cosa che ricordo di quella partita è un primo piano di Serginho che esulta tutto felice mentre si rigira la chewing-gum in bocca. Il derby più breve della storia. Quella sera odiai Nelson David Vivas con tutto me stesso. Adesso, mentre riguardo su YouTube quell’azione dopo così tanti anni, mi fa quasi tenerezza per quell’enorme minchiata in mondovisione. Si può fare pace con gli incubi?

Milan-Inter 2-0, 24 aprile 1988

Da bambina il derby era un’utopia, perché per i miei portarmi al derby era come regalare un pony a Natale senza avere altro posto per tenerlo che balcone, garage o giardino condominiale. Impossibile. «È pericoloso», bofonchiava mio padre. Okay, posso capire. Avete presente i bambini allo stadio? Non quelli delle scuole calcio, in gita tenerezza, quelli sono la categoria protetta. Parlo di quelli portati dagli adulti in altri settori. Roba che la scena finale di Ladri di biciclette è Disney. Gente che gesticola sugli scalini, non li vede e gli molla cartelle tanto involontarie quanto micidiali, e loro cadono ko tra le gambe del papà che li raccoglie ridendo. Ricordo un bambino in secondo verde dietro a me che aveva appena cinguettato contento «Papà, ma quello è Kakà, grande Kakà» e Kakà era reduce dal viaggio di nozze e, non so se ricordate, cadeva per niente. Non stava giocando tanto bene e un energumeno due posti più in là si alzò interpretando uno di quei classici monologhi urlati a caso che poi valgono il biglietto di qualsiasi partita, bella o brutta che sia: «Ormai fai cagare, sei una merda, una merda!». In questa settimana avrei tanto desiderato ritirarmi in un rifugio anti aereo senza wi-fi per non sentire Marotta, per non leggere Galliani, per non ricevere notifiche WhatsApp: «Romagnoli si tocca l’inguine – Romagnoli rotto – se Romagnoli non innesca Locatelli sui retropassaggi a Gigio c’hai Murillo e Icardi» e ho ripensato a quegli anni là, quando non avevo idea, e il derby era un vago evento dall’esito sconosciuto.

Era il 1988, avevo cinque anni, ero in Sardegna, e un bambino cercava di affogarmi dicendo che l’Inter aveva vinto il derby. Non sapendo che rispondere, guardai suo padre, interista, e lui disse: «L’ha vinto l’Inter»Seh, l’ha vinto l’Inter. Quella partita lì, in cui il Milan passò quaranta minuti ad attaccare con Gullit, Virdis, Ancelotti, finendo il primo tempo uno a zero con un diagonale pazzesco di Gullit, e l’Inter rispose con un tiro di Spillo Altobelli che oggi avrebbe preso in faccia il giudice di porta e basta. Proprio quella partita là, in cui Sacchi tolse il 7 di Donadoni e mise il 16 di Van Basten, ma il due a zero lo fece Virdis, prima, rubando palla a Passarella nella propria area, superando Zenga e appoggiandola al centro. Unico tiro dell’Inter, una conclusione di Scifo. Quel derby portò il Milan a un punto dal Napoli, e quell’anno vincemmo lo scudetto. Neanche a dire, magari avevano vinto all’andata, il brav’uomo era in buona fede, no no, all’andata hanno perso 1 a 0, autorete di Riccardo Ferri pressato da Gullit. Non ce l’ho con mio padre perché non saperlo allora non ha cambiato niente. Sia che vinca, sia che perda, insomma. (Ilaria Calamandrei)

 

 

Nell’immagine in evidenza, Paolo Maldini e Zlatan Ibrahimovic in un derby del 2008 (Filippo Monteforte/AFP/Getty Images)