Per chi atterra sul polder dell’aeroporto Schipol di Amsterdam, la stazione di Sloterdijk è uno snodo importante per raggiungere in treno il centro della capitale olandese. Tra palazzi moderni di uffici e strutture pubbliche si trova qui, a ovest di Amsterdam, la sede del De Telegraaf, il più importante quotidiano olandese. Jaap De Groot, guru dello sport per i Paesi Bassi, ci attende nel primo pomeriggio. Da giorni non si parla d’altro, l’autobiografia di Johan Cruijff La mia rivoluzione è un successo mondiale: dopo il lancio europeo a Londra, Amsterdam e Barcellona, ai primi di novembre ha raggiunto anche l’Asia e gli Stati Uniti. Il rapporto di De Groot con gli Usa è sempre stato speciale: mamma americana, papà ex attaccante dell’Ajax poi trasferitosi in Texas. Il rapporto con Cruyff nasce qui, a fine anni ‘70. Ed è una lunga storia.
ⓤ Avevi già in mente da tempo l’idea dell’autobiografia di Johan Cruijff?
Il prologo è stato lungo. Tutto comincia dalla proposta di scrivere un libro su di lui che mi viene fatta nel maggio 2015 dalla casa editrice britannica Macmillan Publishers. Dissi di no, non ci pensai su due volte, la mia idea era partecipare a un’autobiografia, non scrivere senza di lui.
ⓤ Poteva sfuggirti una bella occasione…
Se doveva essere il suo libro, avrebbe dovuto esserlo dall’inizio alla fine. Dopo l’estate 2015 coinvolsero Johan e trovare l’accordo non fu un problema. Tanto che il 15 ottobre dell’anno scorso ci ritrovammo a Londra per i dettagli e firmare il contratto. Il destino volle che ci sentimmo esattamente una settimana dopo, il 22 ottobre: mi disse che gli era appena stato diagnosticato il cancro. Terribile.
ⓤ Hai temuto di dover abbandonare l’idea dell’autobiografia?
La tabella di marcia subì inevitabilmente dei ritardi. Devo ammettere però che già a Londra non mi sembrava stesse tanto bene, anche se tutto era cominciato il 14 dicembre 2014. Quel giorno fu colpito da un ictus, dopo che a fatica aveva terminato un seminario per la sua fondazione. Finì in terapia intensiva per tre giorni, nessuno seppe nulla, ma da lì la sua salute iniziò a peggiorare definitivamente.
ⓤ Tornando al libro, come avete conciliato le cure mediche con le scadenze dell’editore?
Semplicemente stracciando le scadenze. Il programma originario prevedeva la realizzazione di tutte le interviste tra novembre e dicembre, ma il primo incontro riuscimmo a farlo solo il 27 dicembre 2015. Il suo ciclo di chemioterapia era già avviato. A gennaio sarebbe poi andato alle Mauritius, come sempre. A maggior ragione lo avrebbe fatto quell’anno e me lo ribadì: «Così non riusciranno a ricoverarmi e a livello mentale non andarci mi distruggerebbe. Sarebbe un cattivo segnale, io voglio restare positivo fino alla fine». Continuammo le interviste a febbraio.
ⓤ E si conclusero quando?
Rinviata la data di pubblicazione, l’ultima intervista fu fatta il 2 marzo di quest’anno per un totale di 12 ore di registrazioni. Me ne andai a Rio de Janeiro per 16 giorni, per riascoltare il tutto e iniziare a scrivere, con l’accordo di portare l’intera bozza a Johan per gli inizi di aprile. Nulla da fare, il 24 marzo scorso mi squillò il telefono, era suo figlio Jordi: «Quindici minuti fa, mio padre è morto». Mi fermai per tre settimane, in cui capii che era ancor più giusta la decisione di scrivere integralmente il libro in prima persona, al tempo presente, avvicinando Johan il più possibile a ogni singolo lettore.
ⓤ La sensazione che si prova leggendo il libro è quella, in effetti.
Era come essere produttore e compositore, del resto George Martin era definito il quinto Beatles proprio per questo. Johan mi spiegò cosa voleva dal suo libro, i valori da diffondere. L’introduzione, la prima riga del libro, comincia con un «sono un uomo senza diploma». Fu stregato non appena lesse la prima bozza, perché in poche parole l’inizio esprimeva lo scopo: anche se non hai nulla, partendo da zero puoi diventare qualcuno. Era anche questo che voleva tramandare.
ⓤ Come ha vissuto i problemi di salute degli ultimi anni?
Il 2 marzo, l’ultima volta in cui lo vidi, gli chiesi come stava reagendo al cancro. Molto spontaneamente, mi fece: «Hey, ho 68 anni, ma ho vissuto da centenario, ho girato il mondo e ho visto crescere anche i miei nipoti, oltre ai miei figli». Da sempre era riuscito a restare calmo, fin dai primi problemi di salute quando era alla guida del Barcellona. Lo intervistai per il suo 65° compleanno, che in Olanda è una festa speciale perché coincide con la pensione. Mi raccontò di essere rilassato a prescindere, perché i migliori dottori si stavano occupando di lui e la scienza stava facendo enormi progressi. Però ammise che i medici gli avevano detto che non sarebbe diventato troppo vecchio.
ⓤ Che rapporto c’è stato tra di voi?
Da sempre ottimo, speciale negli ultimi mesi. Ci siamo conosciuti nel 1977, stava giocando in California, era vicino al ritiro ed era alle prese con dei problemi finanziari dopo un investimento sbagliato. Curai, da suo ghostwriter, la sua colonna sul De Telegraaf, poi abbiamo dato vita a diverse attività negli ultimi anni. Mi confidava ciò che accadeva intorno a lui, era circondato da poche persone, non faceva entrare in tanti nella sua vita. E la morte dell’amico Michels nel 2005 l’aveva sofferta particolarmente.
ⓤ Gli ha fatto più male perdere la finale mondiale o non essere rieletto capitano all’Ajax?
La seconda, indubbiamente. Quel Mondiale del ‘74 è stato comunque un successo diceva, perché avevano esportato il culto del Total Football, di arancia meccanica. «A distanza di oltre 40 anni», ripeteva, «è l’unica finale per la quale si parla più dei vinti che dei vincitori!». Quando i compagni gli tolsero la fascia, la prese come un tradimento, perché li reputava anzitutto come degli amici. Non se lo sarebbe mai aspettato: immediatamente decise di lasciare la squadra. In generale il rapporto con l’Ajax è sempre stato controverso.
ⓤ In che senso?
Non ha mai ricevuto ciò che si aspettava. Anzi non si sono mai lasciati bene, se si pensa alle quattro esperienze all’Ajax della sua vita: due volte da giocatore, le altre da allenatore e da advisor in società. Ogni volta era riuscito a portare qualcosa in più, lo aveva preso dal fondo per riportarlo al successo, tornando a far riempire lo stadio. Da calciatore trascinò la squadra sul tetto del mondo e gli tolsero la fascia di capitano, la seconda volta lo riportò al successo, ma finì con un litigio per lo stipendio, tanto che se ne andò al Feyenoord. Da allenatore li fece vincere di nuovo in Europa, ma l’epilogo fu un divorzio da una società che gli remava contro. E da dirigente fu da subito evidente che non avrebbe mai funzionato.
ⓤ Troppo “pesante” la sua figura per alcuni?
No, semplicemente la struttura societaria dell’Ajax è come un parlamento: troppe teste, troppe persone che vogliono decidere, troppi “partiti”. Per lui era impossibile lavorare e lasciare un’impronta com’era abituato a fare. In questo preferiva il Barcellona, si esaltò per quell’esperienza ai tempi di Laporta, che si faceva consigliare unicamente da lui, Begiristan e Rijkaard. Nessun altro, così gli piaceva.
ⓤ Chi è stato Johan Cruyff?
Un uomo speciale, ancor prima di un calciatore dotato di un talento naturale unico. Ha cambiato il mondo dei calciatori e quello del calcio, le sue idee sono tutt’ora messe in pratica e sono state tramandate. Conoscendolo, non poteva andarsene con una consapevolezza più appagante.