Il romanzo del Milan di Ancelotti

Nascita ed evoluzione del Milan di Ancelotti, una delle squadre più vincenti della storia recente: i giocatori, i cambiamenti tattici, gli snodi cruciali.

Due Champions League, uno scudetto, una Coppa Italia, una Supercoppa italiana, due Supercoppe europee, una Coppa del mondo per club. Gli otto anni di Carlo Ancelotti al Milan, oltre a segnare la svolta della sua carriera e il ritorno ai fasti gloriosi del club rossonero, hanno rappresentato l’avvento di una mosca bianca nella storia recente del calcio italiano. Perché Ancelotti, accantonando definitivamente i suoi dogmi tattici, ha dimostrato alla nostra penisola — tradizionalmente conservativa e reattiva a livello di interpretazione della partita — come sia possibile vincere in Europa attraverso uno stile diverso, assecondando cioè lo sconfinato talento offensivo in suo possesso. Un calcio propositivo e pragmatico al tempo stesso, orientato sul controllo ora del pallone, ora degli spazi. Se alla fine degli anni ’80 un altro tecnico milanista, Arrigo Sacchi, ha dominato l’Europa mutuando dall’Olanda i principi del calcio totale, basati su un sistema codificato da replicare fino allo sfinimento, Ancelotti ha disegnato una struttura imperniata non più su canoni rigidi, bensì sui fuoriclasse a sua disposizione.

Stagione 2002/03

Nell’estate del 2002, al via della seconda stagione da tecnico milanista, Ancelotti si ritrova in squadra Rui Costa, Pirlo e i nuovi acquisti Seedorf e Rivaldo. L’obiettivo è trovare un sistema che permetta di farli coesistere, per sfruttare le loro qualità senza però intaccare l’equilibrio collettivo. Il 28 agosto dei 2002, nel match di ritorno dei preliminari di Champions League in casa dello Slovan Liberec, prende forma il 4-3-1-2: Pirlo play basso, Gattuso mezzala destra, Seedorf mezzala sinistra e Rui Costa trequartista in appoggio alle punte Inzaghi e Tomasson. Pirlo e Rui Costa fino a quel momento costituivano uno il doppione dell’altro, che avevano giocato assieme soltanto nel campionato precedente in un Verona-Milan (ma in quella gara Pirlo era stato schierato interno sinistro).

Come Ancelotti rivela nella sua prima autobiografia Io preferisco la coppa, è lo stesso centrocampista bresciano a chiedere di provare a giocare non più dietro le punte, bensì davanti alla difesa. Pure Seedorf nasce come trequarti e, dopo aver agito nel corso della carriera anche sulla fascia, viene arretrato a intermedio sinistro. Sul lato opposto Gattuso, da sempre centrale in un centrocampo a due, da mezzala si ritrova dunque a coprire più campo in ampiezza. Il provvisorio 0-1 di Inzaghi si trasforma in un una sorta di promo di ciò che sarà quella squadra in quel 2002/03.

Tomasson va incontro, Inzaghi attacca la profondità. La linea difensiva, indecisa se accorciare sul danese o scappare verso la porta, viene disorientata dal primo appoggio di Pirlo per Tomasson e bucata dall’assist di Rui Costa per Super Pippo

Il 24 settembre 2002, nel secondo match della prima a fase a gironi di CL in casa del Deportivo La Coruña, debutta invece il 4-3-2-1. Al posto di Tomasson, dentro Rivaldo. Nella sua seconda autobiografia Il mio albero di Natale, Ancelotti spiega come quella scelta fosse riconducibile ad una strategia difensiva. «Lo studio dell’avversario aveva evidenziato nei due mediani Mauro Silva e Sergio (giocavano con il 4-2-3-1) il loro maggiore punto di forza. Erano centrocampisti abbastanza statici, ma facevano partire tutte le azioni offensive e, per annullare il potenziale del Deportivo, era indispensabile impedire che potessero manovrare liberamente. Fu così che, alla ricerca di soluzioni adeguate, misi in campo, per la prima volta quel sistema di gioco che sarebbe poi stato definito “albero di Natale”. Giocando con un solo attaccante e due mezzali, Rivaldo e Rui Costa, alle spalle di Pippo Inzaghi, avevo trovato il modo di dare efficacia sia alla nostra fase difensiva, sia alla sorpresa offensiva attraverso l’utilizzo di un modulo completamente nuovo per gli avversari». Il Milan vince 4-0 grazie ai gol di Seedorf e Inzaghi (3): merito della superiorità numerica nel cuore del campo e della presenza in ogni terzo di campo di un catalizzatore in grado di gestire il possesso, dialogare nel corto fino a destrutturare le linee avversarie che si sciolgono nelle posizioni ibride del centrocampo rossonero, come di giocare un calcio più verticale in spazi ampi.

DIDA: Juve-Milan, finale di CL 2003: Il rombo di centrocampo racchiuso in pochi metri. Trattasi di un caso limite, ma aiuta a rendere l’idea della vicinanza tra i centrocampisti sul consolidamento del possesso
Juventus-Milan, finale di Champions League 2003: Iil rombo di centrocampo racchiuso in pochi metri. Trattasi di un caso limite, ma aiuta a rendere l’idea della vicinanza tra i centrocampisti sul consolidamento del possesso

In tema di verticalizzazioni, non si può non menzionare Rui Costa. Il portoghese possiede una capacità straordinaria di piegare i tempi di gioco alla propria volontà: quando riceve in posizione, pare il più lento in mezzo al traffico di maglie che lo circonda. Eppure gli basta un controllo orientato per liberarsi dalla marcatura e costruirsi un angolo sufficiente per rifinire il gioco. Il suo passo cadenzato con cui porta palla, oltre a trasudare un’eleganza maestosa, nasconde un’accurata scomposizione del contesto. Che gli permette di cambiare passo e seminare l’avversario nel momento in questo prova a contendergli la sfera, senza però strappare mai in maniera violenta.

28a giornata, derby di ritorno: qui l’ex Fiorentina ferma il tempo spingendo il tasto “stop” e traccia un laser pass per Inzaghi, che firma l’1-0 finale

Come detto, quello di Ancelotti non è un calcio che presenta sovrastrutture in fase offensiva, delega bensì ampie libertà alle qualità e alle letture dei singoli. Così se ad esempio Pirlo viene schermato, l’impostazione dell’azione è affidata alla pulizia tecnica dei centrali difensivi Maldini e Nesta – una delle poche squadre in Italia nel “pre-guardiolismo” a costruire dal basso – oppure si ricorre ad una rotazione del rombo, che consente al numero 21 di allargarsi e contestualmente a Seedorf o a Rui Costa di abbassarsi per iniziare la manovra. L’interscambio di posizioni tra il portoghese e l’olandese avviene solitamente negli ultimi due terzi di campo, con il primo che scende sul centro-sinistra per favorire la risalita del pallone o la rifinitura, mentre il secondo, di fatto l’unico cursore dei quattro di metà campo, che si alza centralmente alle spalle del centrocampo avversario per dettare l’ultimo passaggio o concludere.

Quel Milan attacca soprattutto centralmente, ricercando l’ampiezza sporadicamente. È vero, in quell’annata le punte hanno segnato diversi gol di testa grazie anche alla puntualità di Kaladze, abile ad andare sul fondo e crossare di prima con i tempi e la precisione giusta. Ma è un gioco offensivo utilizzato soltanto su azione consolidata, quando i terzini sul lato forte vanno ad attaccare un’ampiezza creata da Shevchenko sulla destra e Rui Costa (o Serginho, quell’anno impiegato in certi frangenti da attaccante esterno) su quello sinistro. I loro tagli esterni hanno il duplice obiettivo di portare fuori posizione un marcatore, e allargare quindi le maglie difensive, o in alternativa propiziare una situazione di parità/superiorità numerica con il terzino di riferimento. A livello strutturale, l’unico cambiamento di rilievo nel corso di quel 2002/03 è stata la promozione nell’undici titolare di Shevchenko, tornato in auge nell’anno nuovo a causa dell’infortunio che gli ha fatto saltare i primi due mesi della stagione, al posto di Rivaldo, con relativa trasformazione dell’albero di Natale in 4-3-1-2. L’eccessiva staticità del brasiliano, che gioca quasi esclusivamente in posizione, da cui prova a ritagliarsi lo spazio per un tiro/rifinitura con il suo sinistro, non conferisce alla squadra quella profondità e quella gamma di movimenti senza palla, che al contrario può offrire l’ucraino.

Inter-Milan, ritorno della semifinale di Champions League. Incrocio con Inzaghi, ricerca del cono di luce per ricevere palla frontalmente, controllo orientato con cui supera Cordoba e Toldo bruciato sul tempo

Variabile l’atteggiamento in fase di non possesso, questa sì plasmata integralmente da Ancelotti: contro un centrocampo a 3 i rossoneri non cambiano la loro disposizione, contro un centrocampo a 4 ecco il passaggio al 4-4-2, con gli interni che scalano esternamente. «Questo mi permetteva di raccogliere all’interno di un unico modulo i pregi difensivi del primo e offensivi del secondo», racconta Ancelotti ne Il mio albero di Natale. L’equilibrio raggiunto è accettabile, ma talvolta labile. Lo switch da uno schieramento all’altro in effetti non risulta sempre ineccepibile, anche perché la fase offensiva tende a portare diversi uomini sopra la linea della palla e il primo Milan non riesce ad organizzare con continuità delle transizioni negative mirate al recupero palla immediato. Su difesa posizionale, le criticità sono legate principalmente alla copertura del campo in orizzontale, specie contro squadre che attaccano con 4 uomini sulle fasce. Da cosa scaturisce quindi la forza della fase difensiva quando le transizioni negative si fanno macchinose? Anche qui pesa il talento dei singoli nell’interpretare le situazioni di equilibrio collettivo precario. L’elastico della linea difensiva, mai comunque altissima (appena 2,05 fuorigioco ogni 90’), favorisce l’accorciamento dei reparti; la differenza però la fanno fuoriclasse come Nesta e Maldini, straordinari nel lavorare sull’uomo come nel difendere fuori posizione in tutte le direzioni.

Stagione 2003/04

In estate, dal San Paolo, arriva Kakà per 8,5 milioni. L’impatto del trequartista brasiliano sul calcio europeo è la rivoluzione copernicana del numero 10. Il brasiliano ha interpretato cioè il ruolo di fantasista non più in maniera posizionale, ma facendo leva sull’atletismo. Un acceleratore di gioco, che occupa gli spazi dinamicamente e sintetizza le giocate fino a ridurle all’essenziale. Prima giocata, controllo orientato in corsa con dribbling incorporato; seconda, passaggio chiave-tiro. Stop. Dal rapporto tempo-qualità si ottiene un risultato allucinante.

AC Milan's coach Carlo Ancelotti (L), Uk

Va da sé che i rossoneri con il numero 22 in campo subiscano un’influenza vertiginosamente verticale, la cui efficacia cresce in transizione. Quando il Milan recupera palla con l’avversario aperto, non si palleggia, si cerca subito Kakà sulla corsa, mentre i terzini si alzano per allargare il campo. L’ex San Paolo supera Rui Costa nelle gerarchie dell’allenatore, che in tutto il 2003 li schiera contemporaneamente soltanto in due occasioni. Ma quando, il 6 gennaio 2004 contro la Roma, Inzaghi e Tomasson sono fuori per infortunio, l’allenatore emiliano rispolvera l’albero di Natale, con Rui Costa e Kakà alle spalle di Shevchenko. Mossa vincente: tra i due si instaura subito un buonissimo feeling, che permette loro di spartirsi gli spazi senza pestarsi i piedi. La presenza del brasiliano poi, che riassume i pregi di un centrocampista, il movimento alle spalle del centrocampo avversario e la rifinitura, con quelli di una punta, la profondità e la finalizzazione, non intacca affatto la struttura posizionale offensiva, semmai la esalta. Così come si esalta Shevchenko, che nel 4-3-2-1 non deve più vestire gli scomodi panni della seconda punta, ma quelli dell’attaccante centrale. L’ucraino, libero di svariare su tutto il fronte offensivo senza dividere l’area con nessuno, torna a toccare quota 24 segnature in A, come già accaduto nel 2000 e nel 2001, trionfando per la terza volta nella classifica marcatori e conquistando a fine 2004 il Pallone d’Oro.

Quando invece Ancelotti vara il 4-3-1-2, con Kakà che agisce prevalentemente nell’ultimo terzo di campo, Seedorf si accentra con maggiore frequenza per condurre il possesso nel secondo terzo. Difficilmente si abbassa per la prima costruzione, partecipa semmai alla seconda. Su azione consolidata cerca luce per una linea di passaggio utile aprendosi sul lato di riferimento o con un taglio esterno-interno che gli consente di ricevere alle spalle del centrocampo avversario. Emblematica la dominanza sul match vinto al ritorno in casa della Juve 3-1. Sia per la doppietta con cui ipoteca lo scudetto, ma soprattutto per l’influenza che esercita sul gioco. Una costante in quella stagione.

14 marzo 2004, Juve-Milan 1-3: la gamma di movimenti dell’olandese per ricevere palla

Un Milan più verticale e al tempo stesso più orizzontale, in virtù dell’ampiezza costante garantita da Cafu sulla destra, altro innesto prezioso negli automatismi corali. In fase offensiva l’ex romanista si alza sistematicamente sopra la linea della palla a) per generare un passaggio chiave puntando il fondo; b) per offrire uno sfogo laterale per la circolazione perimetrale; c) per tenere il marcatore diretto bloccato e favorire la superiorità locale in caso di inserimento di Kakà nello spazio intermedio tra difensore centrale e terzino.

Milan-Ajax 1-0, primo match della Champions League 2003/04. Le discese di Cafu costringono Maxwell a seguirlo, isolando in entrambi i casi il portatore di palla

Stagioni 2004-2006

Il paradosso della maturità. Il Milan tra il 2004 e il 2006, pur raggiungendo l’optimum, alza una misera Supercoppa italiana, conquistata nell’agosto del 2004 contro la Lazio. È la versione più consapevole di questa squadra, globalmente meno spettacolare rispetto agli anni precedenti, ma più acuta nell’interpretazione delle partite. Un diavolo in grado di controllare gli spazi e il pallone anche giocando sotto ritmo, squartato dai lampi verticali dell’asse Pirlo-Kakà, i cui ribaltamenti di fronte dilatano le distanze tra i reparti avversari, di cui approfittano le punte attaccando gli spazi alle spalle della linea difensiva. Contestualmente il possesso conservativo diventa un’arma ancora più importante non solo per gestire la gara, ma anche per difendersi passivamente. Se invece l’avversario acquisisce un vantaggio geografico, ecco che il Milan opera una pressione mirata, con una densità sulla zona palla – specialmente quando la sfera arriva in fascia – che gli consente di restringere il campo, e obbligare quindi l’altra formazione a perdere palla o a scaricarla dietro.

La qualità delle transizioni negative rossonere tratte da un Milan-Manchester United 1-0 del 2005

L’obiettivo è massimizzare gli sforzi, anche a costo di verticalizzare eccessivamente le giocate, soprattutto nelle trasferte europee, in cui la priorità in certi momenti diventa il mantenimento dell’equilibrio difensivo. È un Milan sornione, in apparenza meno dominante, che rispetto a quello campione d’Europa a Manchester attacca in primis in transizione, ma con una qualità superiore nella costruzione dei tiri. La crescita globale è opera anche di innesti specifici, che hanno permesso di allungare la rosa ed inserire nelle rotazioni alcuni elementi preziosi: da un difensore duttile come Stam, a due finalizzatori del calibro di Crespo e Gilardino, acquistato la stagione successiva.

Stagione 2006/07

Per un Milan che molla rapidamente la presa sul campionato – condizionato dalla penalizzazione di 8 punti – ce n’è un altro che in Champions League, nonostante gli scricchiolii legati ad un’età media ormai avanzata, vola in finale grazie a due prestazioni stratosferiche nei return match contro Bayern Monaco (2-0 all’Allianz Arena) e Manchester United (3-0 a San Siro). È come se Ancelotti, consapevole dell’autonomia limitata del suo gruppo, gestisse la stagione con il bilancino, profondendo il massimo sforzo soltanto quando strettamente necessario.

3 maggio 2007, Milan-Manchester Utd 3-0

L’ottimizzazione delle risorse passa anche dall’arretramento del baricentro. L’albero di Natale, con l’addio di Shevchenko e l’incapacità di sostenere 4 elementi offensivi, vede Kakà e Seedorf scivolare di una casella più avanti per far posto al redivivo Ambrosini sul centro-sinistra. Un recupero, quello del centrocampista pesarese, determinante negli equilibri di quella squadra. Più che per i suoi inserimenti, l’ex Vicenza viene sfruttato per schermare la difesa e per la prima costruzione. Quando Pirlo viene marcato, ecco che i due si scambiano la posizione, con Ambrosini che si accentra, per ricevere palla e possibilmente verticalizzare per Kakà, il quale cerca luce negli spazi intermedi per costruirsi un vantaggio posizionale che sfrutta per dare sfogo alla sua corsa. Il 2006/07 è semplicemente l’anno del brasiliano: invulnerabile agli urti e veloce il doppio degli avversari. Il numero 22 in quell’edizione della Champions si carica la squadra sulle spalle e segna 10 gol. Uno più bello dell’altro, uno più decisivo dell’altro.

L’ultimo Pallone d’Oro prima dell’avvento del duopolio Messi-Ronaldo

È un Milan più essenziale, in cui l’opzione offensiva in meno viene parzialmente controbilanciata dall’ampiezza fornita su entrambi i lati dai terzini Oddo e Jankulovski, che su azione consolidata si alzano contemporaneamente per allargare la struttura difensiva avversaria e favorire la risalita del pallone. In particolare sulla fascia destra, dove Oddo può garantire una qualità superiore nel palleggio e nei traversoni. In fase difensiva, se la punta e i trequartisti non riescono a sporcare l’uscita palla degli avversari, il 4-3-2-1 si trasforma in un 4-4-2, con Seedorf che scende sulla linea dei centrocampisti sulla sinistra e Gattuso si apre a destra.

IMG 10, 442 FASE DIFENSIVA DIDA: Ancora Milan-Manchester. Qui il 4-4-2 in fase di non possesso (Inzaghi è fuori schermo)
Ancora Milan-Manchester. Qui il 4-4-2 in fase di non possesso (Inzaghi è fuori schermo)

Il 23 maggio del 2007 ad Atene Ancelotti vince la sua seconda Champions League, la settima della storia rossonera. È la fine di un’era da parte di un gruppo che l’anno successivo conquisterà sì la Supercoppa europea ed il neonato Mondiale per club, ma che per motivi anagrafici ha già imboccato il viale del tramonto. Un allenatore illuminato che ha portato una squadra italiana a primeggiare in Europa proponendo un modello differente, imperniato sull’esaltazione del patrimonio tecnico e sul rapporto umano con i suoi giocatori, l’altro punto di forza del suo modus operandi. «Non ho mai avuto un allenatore come lui: sono stato abituato alla disciplina di ferro con Capello e Mourinho, ma Ancelotti è diverso, più dolce, più paziente, responsabilizza i giocatori. Ho avuto grandi allenatori, ma mai uno che avesse tali rapporti con i suoi giocatori». Parola di Zlatan Ibrahimovic.

 

 

Nell’immagine in evidenza, Carlo Ancelotti solleva la Champions League vinta con il Milan nel 2007 (Alex Livesey/Getty Images)