Uno degli ultimi momenti felici della prima carriera di Samir Nasri risale al dicembre 2014, ed è ambientato in Italia: il Manchester City batte la Roma all’Olimpico per 2-0, e il primo gol è un suo capolavoro. Nasri riceve palla spostato a sinistra, la controlla col destro e si gira, con un solo movimento; Maicon lo lascia convergere, non lo attacca, Keita rientra ma non affonda il tackle. Quando Manolas capisce che qualcuno deve andargli incontro, è già troppo tardi: il pallone, animato da un destro potentissimo, ha colpito il palo interno alla destra di De Sanctis e ha scosso la rete della porta sotto la Curva Nord. È l’ultimo gol di Nasri in Champions con la maglia del City.
Pensare a Samir Nasri vuol dire ricordare giocate così, e insieme chiedersi perché non ne abbia confezionate di più. Vuol dire interrogarsi su quello che sarebbe potuto accadere, sul talento, sul tempo che fa fatica a mantenere le promesse. Quelle del ragazzo nato a Marsiglia – discendenze algerine e infanzia mitopoietica per le strade difficili di La Gavotte Peyret, quartiere a nord della città – erano enormi, rare: in un’intervista del 2011 Nasri racconta dei giornali francesi, che quando non ha ancora diciassette anni già lo etichettano come “nuovo Zidane”. In effetti il Nasri degli esordi avrebbe il ruolo, le doti e la narrazione perfetta per quel tipo di eredità, e ha pure segnato il gol decisivo nella finale dell’Europeo Under 17 vinta contro la Spagna (2004). Non che abbia disatteso del tutto queste aspettative, è solo che la prima carriera non è bastata ad arrivare così in alto, dove tutti dicevano che sarebbe arrivato.
Il secondo tentativo è appena iniziato. È un esperimento, ma è soprattutto l’incontro con un uomo e il suo racconto, in un luogo pieno di significati. L’uomo è Jorge Sampaoli, il racconto lo fa Jorge Valdano, in una frase: «Sampaoli è un allenatore che aumenterà l’attrattività della Liga, viene a sfidare una cultura»; il luogo, infine, è la Siviglia biancorossa, quella che gioca nella Bombonera de Nervión, nickname dell’Estadio Ramón Sánchez-Pizjuán. Nasri è atterrato in Andalusia il primo settembre, ultimo e più rappresentativo colpo di un mercato suggestivo, costruito sul criterio estetico del tecnico argentino, e che si può descrivere con un titolo enfatico – qualcosa del tipo “la poetica del talento”. I nuovi acquisti sono Franco Vázquez, Joaquín Correa, Paulo Henrique Ganso, Hiroshi Kiyotake, Pablo Sarabia. Quelli che il sito Transfermarkt identifica come “Trequartisti”, e poi ci sono anche Luciano Vietto e Matías Kranevitter.
Siviglia rappresenta un’occasione tecnica e narrativa per Nasri, si percepisce anche nel video della sua presentazione al Sánchez-Pizjuán. La perfetta combinazione tra il bianco della maglia, il rosso dominante dello stadio e degli stendardi con la scritta “Nasri”, il platino dei suoi capelli. Poi, le sue parole. Che spiegano la scelta, sono un auspicio per il futuro: «Ho praticamente perso un anno, volevo un club che mi desse la possibilità di disputare molte partite, così da ritrovare il mio livello di gioco». In effetti si parte da cinque presenze da titolare nell’ultima stagione, una cosa triste solo a pensarci.
Nasri utilizza esattamente il verbo «retrouver», ritrovare. Ed è una scelta perfetta, perché significa riconoscere che qualcosa è andato perso. Magari una collocazione precisa nella mappa calcistica degli ultimi anni, smarrita per una serie di infortuni (50 partite saltate in due stagioni) e per l’aumento della concorrenza al City, con gli arrivi di De Bruyne, Sterling, Nolito e Sané. Difficoltà che sono cresciute insieme al discorso su Nasri fuori dal campo, un profilo contraddittorio e una cronologia con tanti piccoli facts negativi: le voci sulla patente acquistata, un festino a Las Vegas quest’estate, il sovrappeso al ritorno in ritiro e il fat camp di Guardiola, ad esempio. Più la storia controversa con la Nazionale, chiusa a soli 27 anni, nel 2014, in seguito a discussioni con compagni, giornalisti e commissari tecnici, e alla mancata convocazione per i Mondiali in Brasile. L’altro lato di quel Nasri che il Daily Mail, in una lunga intervista-ritratto, ha descritto come «un gran personaggio, un calciatore dalla mente svelta che sembra ispirare onestà e trasparenza».
I primi mesi in Andalusia
Samir Nasri è a Siviglia per una nuova autodeterminazione, per ricostruirsi un’immagine puramente calcistica e calcisticamente d’élite. Per un responso finale del campo che vada oltre il wonderkid che fu, le promesse non mantenute, il personaggio particolare che ha deciso di essere e che si è costruito pure sui social, dove è una specie di icona. L’inizio è suggestivo, Sampaoli ha scelto l’evoluzione tattica e l’ha trasformato da calciatore puramente offensivo – trequartista ai tempi dell’Arsenal, esterno di fantasia nel City – in regista, uomo di riferimento nella costruzione della manovra. Il suo compito è ricevere e condurre la palla in tutte le zone del campo, muoversi con la squadra e per la squadra. Il suo gioco è responsabilità, ma anche estetica: una media di 76 appoggi e 3,5 dribbling tentati ogni 90 minuti, una precisione di passaggi superiore al 90%. Dopo la partita di Zagabria, in un’intervista a Marca, Nasri ha confessato di gradire la nuova dimensione tattica: «Mi sto esprimendo bene da pivote, ho la fiducia del tecnico e la possibilità di giocare. Era quello che volevo, sono felice». In Croazia, Samir Nasri ha ritrovato ancheil gol in Champions League. Non è stato accecante come quello di Roma, ma è bello pensare che sia il suo nuovo inizio, il modo giusto per ricominciare, per ritrovarsi.