«The Clash of Campioni!» Il claim dell’evento pare preso in prestito dalla fantasia di Diego Marani, il funzionario della Commissione europea che qualche anno fa, senza nemmeno troppa fatica, si inventò la strana lingua franca chiamata Europanto. Con il richiamo alla pugna l’organizzazione qatariota spera di dare una sveglia al pubblico di Doha, che attende senza brividi il calcio di inizio di Juventus-Milan. I biglietti della Supercoppa Italiana 2016 sono andati tutti venduti. Costavano tra i 40 e i 90 euro circa. Quindici mila persone occuperanno venerdì pomeriggio i seggiolini del Jassim bin Hamad Stadium, impianto che risale agli anni Settanta. Cinquecento, compatibilmente con i disguidi aerei, saranno i connazionali al seguito. Gli altri tifosi saranno aborigeni, e il rischio è che paiano più compassati del più compassato piemontese.
Un imbarazzo tutto sommato sopportabile per i due club impegnati venerdì, che grazie alla trasferta natalizia si sono garantiti quasi cinque milioni di euro. Tre li verseranno direttamente gli emiri, che copriranno anche tutte le spese, il resto deriva dai diritti tv. Gli stessi che la Lega calcio spera di vendere al meglio in Medio Oriente: da qui il convinto benestare al dirottamento della competizione da Shanghai al Qatar. Dal 2006, con l’inaugurazione degli Asian Games a Doha, il Paese ha acquisito tutti i principali eventi sportivi internazionali: dalla boxe ai motori, fino al golf. Il recente Mondiale di ciclismo, vinto da Peter Sagan, è stato corso per oltre 150 chilometri nel deserto, anche di pubblico. Un paio di anni fa fu la volta della rassegna iridata di pallamano, dove, secondo numerose testimonianze, i capi ultras della nazionale asiatica erano stati presi in prestito dalla Spagna.
La cultura sportiva, come più nobili pratiche, non si importa. Ma gli investimenti aiutano e con un adeguato rodaggio le ugole si scalderanno. Anche perché, in attesa dei Mondiali di atletica del 2019, oggi siamo solo all’antipasto. L’orizzonte è il 2022, quando andrà in scena una Coppa del Mondo che gli emiri hanno preso a spolverare sin dall’assegnazione avvenuta sei anni fa. Ma alcuni aloni sono particolarmente ostici da rimuovere: le accuse di essersi comprati la competizione a suon di mazzette, soprattutto. Sono anche più di un ragionevole dubbio, suffragate da inchieste, dai risultati della commissione indipendente guidata da Michael Garcia, dagli spettacolari arresti che nel maggio 2015 turbarono l’avvio del congresso Fifa nella placida Zurigo. Uno dopo l’altro, travolti dal sisma, caddero le pedine, dall’uomo d’affari qatariota Mohamed Bin Hammam fino a Sepp Blatter. Ma il secondo Mondiale asiatico non è mai tornato a essere veramente in discussione.
Oggi il potere contrattuale del Qatar tende all’infinito. È un Paese che possiede un terzo delle risorse di gas del pianeta ed è costantemente a caccia di mercati in cui venderle. Negli anni ha messo nel carrello della spesa i principali grattacieli di Milano e complessi alberghieri a Firenze, Roma e in Costa Smeralda, gran parte della City a Londra e infinite proprietà a Parigi. Il suo fondo sovrano, con un patrimonio da 600 miliardi di euro, ha quote di Barclays, Sainsbury’s, Harrods, Volkswagen, Walt Disney, The Shard, Heathrow Airport, Siemens e Royal Dutch Shell.
Il calcio ha un ruolo tutt’altro che secondario nella strategia nazionale. Dal 2011 Nasser Al-Khelaifi, figura chiave della Qatar Investment Authority, è il presidente del Paris Saint-Germain, due anni dopo la Qatar Foundation deflorava la maglia blaugrana del Barcellona con la sua sponsorizzazione. Dal prossimo anno gli emiri lasceranno il posto alla compagnia digital giapponese Rakuten, ma il rapporto con il club rimane intatto: lo dimostrano la recentissima trasferta della squadra all’ombra dello skyline, e le trattative per intitolare al Qatar il “nuovo Camp Nou” Espai Barça. Testimonial di questo rapporto è Xavi, la bandiera catalana che un anno e mezzo fa si è trasferito all’Al-Sadd.
Il club, che gioca le sue partite casalinghe nell’impianto che ospiterà Milan e Juve, è oggi secondo in campionato. Le autorità locali paiono aver rinunciato ai sogni di grandeur per il torneo: oltre al quasi 37enne campione del mondo, non si va al di là dell’ex romanista Seydou Keita, dell’ex Livorno Paulinho o di Vladimir Weiss, già visto a Pescara. Almeno un tempo venivano qui a svernare campioni come Batistuta, Raul o Guardiola. Ma il progetto si fa più interessante, e controverso, se si parla di ragazzi. Una decina di anni fa a Doha è sorta la Aspire Academy dove, senza badare a spese, si formano gli atleti di domani. Sul campo in cui le due rivali italiane rifiniranno il match di venerdì, ragazzi provenienti da 18 Paesi si allenano sotto la supervisione di Josep Colomer, l’uomo cui si deve la scoperta di Leo Messi.
Colomer è il mentore di Football Dreams, il vivaio di una generazione che entro il 2022 ha l’obiettivo di diventare competitiva. Contribuisce alle ambizioni la dependance che gli emiri hanno eretto a Eupen, cittadina belga non distante dal confine tedesco. Al club, nei bassifondi della locale Serie A, sono convogliati i prospetti più interessanti. I qatarioti sono pochi (uno soltanto, per la precisione), ma in abbondano nigeriani e senegalesi. Il Qatar, che intanto ha fatto entrare nella propria galassia anche il Cultural Leonesa in Spagna e l’austriaco Lask Linz, ha una predilezione per i giovani africani, che ha importato in massa nelle proprie strutture sportive.
Tra le maglie dei regolamenti federali, da anni l’emirato procede alla naturalizzazione degli atleti, una pratica molto complicata per chi invece non eccelle sul campo. La Nazionale di calcio, giunta con poche chance al terzo round di qualificazione a Russia 2018, è composta in larga parte da giocatori non nati entro i confini. Alcune settimane fa il ct uruguaiano Fossati aveva messo il veto all’idea di una stretta sugli oriundi per favorire i talenti di casa. Sa bene che senza le abilità di chi è cresciuto ad altre latitudini non si va da nessuna parte. Al mondiale casalingo di pallamano del 2015 la selezione qatariota, fermata solo in finale dalla Francia, aveva 13 giocatori stranieri. A Rio sotto la bandiera del Qatar hanno gareggiato atleti di 17 nazionalità.
«L’investimento è stato massiccio: lo sport è uno dei cinque o sei pilastri della strategia di soft power che il Paese del Golfo conduce da anni»: a parlare così è James Dorsey, senior fellow presso la Rajaratnam School of International Studies di Singapore. Cura il blog The Turbulent World of Middle East Soccer, punto di riferimento per chi vuole approfondire il calcio mediorientale e gli indissolubili legami con la geopolitica di quella regione. Mi ricorda che, quando parliamo di Qatar, parliamo di un sistema tribale che in 40 anni è arrivato ai vertici decisionali del pianeta. Di uno stato grande quanto l’Abruzzo e popolato da due e milioni e mezzo di abitanti, il 12% dei quali nati in loco. I problemi iniziano qui.
«La crescita impressionante del Paese non poteva essere indolore. Dal 2010 la popolazione locale è aumentata di un terzo: un flusso di persone a cui le autorità non erano preparate. Gli abusi sui lavoratori sono iniziati così» spiega Nicholas McGeehan, ricercatore per il Qatar di Human Rights Watch. Se fino ad ora il Paese doveva parare, per altro in buona compagnia, accuse di corruzione o al più di voler creare in provetta una civiltà sportiva, la questione si fa più seria quando si inizia a parlare di diritti umani. Negli anni Human Rights Watch, Amnesty International e altre ong hanno denunciato il sistematico sfruttamento della forza lavoro straniera, le centinaia di morti nei cantieri per la realizzazione delle infrastrutture per la Coppa del Mondo, l’assoluta mancanza di tutele. La responsabile di queste aberrazioni sarebbe la Kafala: è chiamato così il sistema dello Sponsor, che permette ai dipendenti di ottenere il permesso di residenza e ritiene una percentuale sui suoi guadagni. Una legge comune a tutti i Paesi della regione, che è equiparata dalle organizzazioni internazionali a una moderna forma di schiavitù. Un discorso simile vale per i vicini Emirati Arabi e il loro maestoso progetti di inaugurare ad Abu Dhabi il nuovo rinascimento artistico arabo. A scapito della manodopera chiamata a realizzare i maestosi musei, come racconta un lungo articolo del New Yorker.
In base alla normativa in vigore a queste latitudini il datore di lavoro prende in consegna il dipendente, che non può lasciare l’incarico per cinque anni, né il Paese senza autorizzazione poiché il passaporto è trattenuto al momento dell’assunzione. Negli scorsi giorni il governo del Qatar, pressato da tutto il mondo occidentale, ha annunciato la fine di questo meccanismo. Ma sono in molti a non fidarsi. «La Kafala non è stata abolita: hanno solo cambiato il nome nella speranza che la gente sia abbastanza stupida da crederci. La legge serve solo a proteggere i datori di lavoro», dice McGeehan. «È solo propaganda, la nuova legislazione codifica una volta di più la schiavitù», ripete da Bruxelles Sharan Burrow, l’australiana segretaria generale dell’International Trade Union Confederation. Nel 2014 il sindacato aveva inviato alla Fifa 34 pagine di report con l’esito delle proprie indagini tra i cantieri di Doha. «Sono cinque anni che faccio avanti e indietro dal Qatar e non è cambiato nulla. Un milione e mezzo di persone vive in condizioni inaccettabili, senza case e diritti né libertà, vittime di una moderna apartheid».
«Ritengo che sia scorretto dire che nulla è cambiato, però quanto fatto non è abbastanza», corregge Dorsey. «Il governo ha snellito le procedure per ottenere la exit visa, che rimane in vigore. Così come le restrizioni per chi vuole cambiare lavoro. Ma il Qatar è diventato il primo Paese dell’area ad avviare una interlocuzione con chi lo critica e le istituzioni locali ora hanno esteso gli standard internazionali ai subappalti. Questi contratti valgono tra chi li firma, eppure non modificano la legislazione nazionale». Se l’etica non scalda i cuori, possibile che qualcuno decida di agire per una valutazione economica.
Un parere fuori dal coro è quello di Giampiero Peia. È un architetto, il suo quotato studio milanese ha aperto sedi operative in Asia. Dal 2003 vive parte dell’anno a Doha, dove ha costruito diversi edifici pubblici e privati. «I passi in avanti ci sono stati, basta avere coscienza dei propri diritti. Bisogna contestualizzare: com’era l’Italia un secolo fa? Non credo sia interesse strategico degli emiri mostrare il mantenimento anacronistico di uno Stato che noi definiamo medievale. Sindacati e civiltà a parte, il sistema non è così diverso da quello occidentale. Ci sono datori di lavoro esemplari, ma non mancano coloro che esercitano diritti di proprietà e si macchiano di abusi». Risulta particolarmente utile sapersi destreggiare tra le news che giungono da ogni parte del mondo. Nel 2013 il Guardian, autore di un reportage che fece il giro del mondo e fu duramente contestato da Doha, descrisse l’inferno in terra tra i ponteggi degli stadi, oggi Al Jazeera, di proprietà della famiglia reale qatariota, magnifica i caschi refrigeranti di cui saranno dotati i lavoratori impegnati nelle costruzioni nel deserto.
Peia porta la sua esperienza personale: «Nei cantieri che frequento vedo criteri di sicurezza restrittivi: le aziende che lavorano sulle grandi opere sono spesso straniere e applicano standard internazionali. Si lavora tanto, anche di notte con i turni. La manodopera è nella media meno specializzata: molti operai provengono dalle campagne di Paesi poverissimi e hanno poca istruzione, sono più facilmente sfruttabili e i training non colmano i gap culturali». I nepalesi, ad esempio, sono “richiesti” soprattutto per stare ai piani alti dei grattacieli. Sono l’ultimo anello di una catena che coinvolge centinaia di migliaia di uomini, giunti soprattutto dal subcontinente indiano e dalle altre regioni asiatiche. «Il Qatar rifiuta di istituire uno stipendio minimo non discriminante e fa di tutto per evitare le trattative. Gli stipendi sono tutti bassi, ma se provieni dal Nepal guadagnerai meno di un collega indiano. Non è accettabile», dice Sharan Burrow.
Il Mondiale si disputerà in otto stadi, a poca distanza l’uno dall’altro. I lavori sono quasi tutti avviati, perché gli impianti sono realizzati ex novo ed entro il 2019 il più dovrà essere fatto. Pochi giorni fa si è appreso che China Railway Construction, nel 2012 a un passo da rilevare l’Inter, ha vinto il bando per la costruzione dello stadio della finale del Mondiale su progetto dell’architetto britannico Norman Foster. L’arena da 80 mila posti a Lusail City, città artificiale che vedrà la luce nei prossimi anni, sarà allestita in collaborazione con i qatarioti di Hbk Contracting. «Per lavorare servono relazioni con le compagnie locali», spiega Burrow. «Sul campo ci sono aziende di tutto il mondo. Loro dicono di voler fare le cose per bene, gli chiediamo solo di comportarsi come nei loro Paesi di origine». L’Italia non ha una parte irrilevante. Salini Impregilo ha vinto la commessa per lo stadio di Al Bayt nella città Al Khor, la cui forma ricorda quella di una tenda beduina. «Ai locali è il progetto che appassiona maggiormente», aggiunge Peia, che con un partner locale ha vinto quello per l’adattamento di uno stadio per le fasi eliminatorie. «Le superstrade e 4 linee di un avveniristico metro sono a buon punto, anche se non di rado perdono tempo per via di alcune indecisioni incomprensibili. In quanto a tecnologie e design la qualità è altissima, lo shopping in occidente paga. Tutti gli impianti stanno subendo un processo di riduzione dei costi, che forse altererà in parte il risultato». A riportare l’attenzione sul tema dei diritti è ancora una volta la segretaria dell’International Trade Union Confederation: «Abbiamo rivolto un appello al governo qatariota. Chiediamo che ai lavoratori siano rilasciate le exit visa, che possano dotarsi di una voce collettiva nelle questioni sindacali e denunciare gli abusi. Insomma che siano liberi. Se il Qatar, che vuole essere trattato come un grande Paese moderno, ratificherà queste misure di democrazia, tutti godranno dei benefici».
A poche ore da “The Clash of Campioni!” e a sei anni dal via della Coppa del Mondo, il Qatar sta vincendo la sua partita? «Tutto ruota attorno all’immagine internazionale che l’emirato riesce a veicolare», conclude James Dorsey. «Una risposta univoca non c’è: dipende da che parte del mondo si guarda la faccenda. Qui da noi la crescita vertiginosa del Paese continua a suscitare critiche per varie ragioni, il pregiudizio eurocentrico non è semplice da scalfire. Fuori da questa sfera di influenza penso che, da quando ha ottenuto l’organizzazione del Mondiale, il Qatar goda di maggiore prestigio. E questo non dipende dalla sicurezza sul lavoro né dal malaffare. Dipende dalla sua efficace politica estera».