Gli allenatori italiani in Africa

Com'è il calcio in Africa, tra senso di comunità e dimensione ludica, raccontato da quattro tecnici italiani che vi hanno allenato.

«Del calcio non sapevo niente, quando lo vedevo in tv facevo zapping a due mani, poi, durante quel Mondiale, miracolo, per un mese sono rimasto incollato a Hot Bird, ho saltato il lavoro, sono stato sveglio come un drogato e io, che sono uno molto riservato, rigido persino, uno che va a letto presto e via dicendo, ho gridato, cantato e ballato come tutti i fanatici e i disgraziati del quartiere, e ho conosciuto la felicità inverosimile di correre nudo nel vento in piena notte. Lo dico senza peli sulla lingua, ero pazzo di gioia». Scrive così Boualem Sansal, da sempre boicottato nella sua Algeria per la sua condanna all’Islam più intransigente. Ricorda, da profano quale non sarebbe più stato, la sua epifania calcistica, quel magico incontro con Barthez, Thuram e Zidane nell’estate del 1998. L’episodio è contenuto nel libro La felicità degli uomini semplici, curato dal poeta della Repubblica del Congo Alain Mabanckou e pubblicato in Italia da 66th&2nd. È una rassegna di testi inediti di scrittori africani, nati dal Sahara fino a Città del Capo, chiamati a raccontare la passione di un continente per il football.

Passione che in queste settimane si è messa il vestito della festa per la Coppa d’Africa. Rispetto a qualche anno fa la competizione è quasi irriconoscibile: è aumentato il numero delle squadre, sono sbucate le tv di mezzo mondo e il profilo degli atleti è sempre più internazionale. La costante è rappresentata dalle turbolenze politiche che affliggono il continente e che, ormai ad ogni edizione, cambiano in corsa calendari e sedi prescelte. Un’altra garanzia è la presenza in massa di tecnici europei: quest’anno in Gabon si sono visti Camacho e Renard, Le Roy e Hugo Broos oltre a Hector Cuper e Avraham Grant, a rinverdire un’antica tradizione di santoni in maniche di camicia e romanzeschi avventurieri del pallone. Anche l’Italia, seppur meno di Paesi a trazione coloniale quali Belgio e Francia, esporta professionisti della panchina a quelle latitudini.

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Cult fu l’esperienza a Tunisi di Franco Scoglio. Il Professore allenò la Nazionale locale tra il 1998 e il 2001, ottenne un quarto posto alla Coppa d’Africa e la qualificazione al Mondiale in Corea e Giappone. Si dice che al momento del ritorno in Italia, richiamato dal suo Genoa, non avesse ancora risolto il contratto con la Federazione nordafricana e così allenò un paio di partite al telefono. Portò con sé sotto la Lanterna cinque giocatori tunisini, descritti come fenomeni («Bouza è tatticamente come Maldini» e «Gabsi è il Di Livio d’Africa» disse, tra le altre cose) e destinati a deludere le aspettative. Ancora più fugace fu l’apparizione di Scoglio sulla panchina della Libia, terminata nel 2002 per dissidi interni alla Federazione guidata da Saadi Gheddafi.

In Tunisia, sulla panchina dell’Esperance, lo aveva preceduto Gigi Maifredi, mentre a Tripoli la strada era stata aperta da Sergio Bersellini. Il Sergente di ferro, dopo lo scudetto all’Inter e numerose esperienze in giro per la penisola, completò un quinquennio in Libia, dove guidò la Nazionale e due club della capitale: si dice, e non sarà semplice verificare, che Muammar Gheddafi in persona lo rassicurò sulla totale autonomia di cui avrebbe goduto nelle scelte. Da quelle parti, oltre allo storico vice di Zenga e primo allenatore italiano in Palestina Stefano Cusin, transitò anche Beppe Dossena, che vinse un campionato con l’Al-Ittihad, prima di trasferirsi ad Addis Abeba per dirigere il St. George. I tifosi del club giallorosso amano ricordare un altro italiano: il suo vice e compagno di squadra a Torino Danilo Pileggi, che lo sostituì in panchina e vinse il titolo nazionale etiope. Ma l’esperienza più prestigiosa di Dossena fu in Ghana, dove l’ex campione del mondo ha allenato alla fine dello scorso millennio. Furono alti e furono bassi, ma si deve principalmente al suo lavoro sulle selezioni giovanili l’esplosione della generazione di Appiah, Essien, Kuffour e Muntari.

during the 2013 Africa Cup of Nations Semi-Final match between Burkina Faso and Ghana at the Mbombela Stadium on February 6, 2013 in Nelspruit, South Africa.
Mbombela Stadium, Nelspruit, Sud Africa.

Classe 1939, professore di educazione fisica, negli ultimi anni Romano Mattè ha spesso diretto gli allenamenti estivi della nazionale disoccupati. Prima, al culmine di una carriera quasi quarantennale su e giù per lo Stivale, fu nominato ct del Mali. Sono scomparsi da poco Giovanni Campari e Sergio Del Pinto. Il primo, fervido comunista emiliano, approdò in Senegal dopo sei anni trascorsi nel tentativo di fare decollare il calcio rivoluzionario di Cuba; il secondo fu il condottiero della nazionale somala. Del Pinto, morto a inizio anno nella capitale, disputò nell’immediato dopoguerra tre campionati con la Lazio. Era un biancoceleste orgoglioso nella Testaccio giallorossa, quartiere in cui gestì per decenni un’attività di rivendita di materiale elettrico messa in piedi con i soldi del pallone.

L’accento romano è stato affinato negli anni da Luciano Vassallo, l’unico italiano ad aver vinto la Coppa d’Africa. Da giocatore. Nato ad Asmara, in Eritrea, da una donna del posto e da un militare italiano, ebbe una carriera scintillante con la maglia dell’Etiopia e ricevette dalle mani di Haile Selassie il trofeo conquistato a domicilio nel 1962. In seguito allenò anche la Nazionale. Mai amato dal regime a causa del suo sangue misto, fuggì e giunse nel Lazio, dove ancora risiede. Gli altri connazionali che hanno attraversato il Mediterraneo per sedersi su una panchina, solitamente traballante, sono i protagonisti di questo articolo.

Paolo Berrettini

«Per diventare stregone occorre essere iniziati, avere il dono, essere capaci di sfiorare le tenebre. Non è roba da tutti. E ci si stupisce che le squadre del continente non brillino di più sulla scena mondiale. Finché l’Africa continuerà a fidarsi dei bianchi, prima e durante le partite, finché disdegnerà i propri valori, non farà mai passi in avanti».

Il racconto del congolese In Koli Jean Bofane, che inaugura La felicità degli uomini semplici, narra le difficoltà dell’allenatore croato Blagoja Vidinic ad affrontare un aspetto tutt’altro che marginale nel calcio africano: il suo esoterismo. Ne sa qualcosa Paolo Berrettini, umbro di Terni che frequenta il continente da una decina di anni, e che proprio nei prossimi giorni chiuderà la sua bella casa lungo il fiume Congo a Brazzaville. Doveva essere in mezzo all’Africa in questi giorni, ma il terremoto che ha scosso la sua terra gli ha imposto di ritardare la partenza. «Viaggerò nei prossimi giorni, così farò in tempo ad vedere qualche partita della Coppa nel vicino Gabon».

PRAIA, CAPE VERDE: Bafana Bafana goalkeeper Hans Vonk takes a kick under spectators sitting on a wall outside the stadium in a World Cup 2006 qualifier in Praia, Cape Verde, between Cape Verde and South Africa 04 June 2005. South Africa won 2-1. AFP PHOTO / ALEXANDER JOE (Photo credit should read ALEXANDER JOE/AFP/Getty Images)
Praia, Capo Verde (Alexander Joe/AFP/Getty Images)

Negli ultimi tre anni Berrettini, che dal calcio locale negli anni 90 passò alla Figc e divenne allenatore del settore giovanile azzurro, ha guidato le selezioni Under 17 e Under 20 della Repubblica del Congo. Con ottimi risultati, come dimostrano le quattro partecipazioni alla fase finale della Coppa d’Africa di categoria. «Una volta dovevamo sfidare il Benin in casa: arrivammo allo stadio in pullman e vidi che il parcheggio era pieno di gente. Scesi dal mezzo e i tifosi si caricarono i giocatori sulle spalle per portarli negli spogliatoi. Ero sbigottito, ma dallo staff mi dissero di non preoccuparmi: pareva che i beninesi residenti a Brazzaville avessero lanciato un malocchio sui miei ragazzi, che non dovevano toccare terra prima del match. Prima delle gare, quando spiegavo la tattica, vedevo i giocatori pregare, buttare sale a terra o compiere altri riti. All’inizio mi infastidiva, poi capii che non potevo farci nulla».

La prossima tappa di Berrettini, che ha lavorato anche in Senegal e vanta un campionato europeo vinto con l’Italia Under 19 nel 2003, sarà in Albania. «Lascio l’Africa a malincuore, ma sono affascinato dal nuovo progetto che mi hanno proposto i Partigiani di Tirana», spiega. L’esperienza congolese, una volta di più, è servita a potenziare le sue doti di problem solving. In un Paese grande quanto l’Italia e popolato da circa 4 milioni di persone, quasi tutte assiepate nella capitale Brazzaville e a Pointe-Noire, fare calcio in modo professionale non è stato semplice. «Ci sono solo due tornei, Serie A e B. Ho dovuto girare tra i villaggi per arruolare i ragazzi: piano piano abbiamo messo in piedi due squadre davvero valide. Lì scelgono gli allenatori europei perché non guardano in faccia a nessuno, non sono coinvolti nei favoritismi molto comuni da queste parti».

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La vita congolese di Paolo Berrettini è stata operosa e tranquilla, a parte «qualche serpente che saltuariamente sbucava sotto il tavolo durante la cena» e l’attenzione da porre al pesce del fiume Congo, «dove ogni tanto qualche abitante di Kinshasa sversa veleno per fare uno scherzo». Un posto verde, «un po’ come l’Umbria». E la Coppa d’Africa? «Uno spettacolo unico, come il calcio africano. Alle mie partite assistevano 20 o 30 mila persone e i tifosi sapevano essere poco graziosi quando volevano farti capire il valore di quella vittoria. Figuriamoci ad un livello così alto cosa succede. Il problema è l’anarchia tattica che, nonostante il grande lavoro di colleghi come Le Roy o Renard, non abbandona mai certe squadre».

Roberto Landi

«Quel gol non era solo delle Stelle nere, ma anche dell’avversario in campo; in quel momento l’Algeria. Un gol di tutti: del Mozambico, eliminato al termine della fase di qualificazione; dell’illustre Nigeria, anch’essa uscita anzitempo; dello stesso Marocco, che aveva rinunciato all’organizzazione della Coppa, temendo il contagio della malattia; un gol di tutta l’Africa, una rete dell’umanità. In una finale anticipata, Asamoah Gyan aveva segnato un incredibile gol nella porta dell’Ebola».

Così il mozambicano Suleiman Cassamo ne La felicità degli uomini semplici torna alla travagliata edizione 2015 della Coppa, la cui organizzazione è passata all’ultimo momento alla Guinea Equatoriale. Tra i Paesi colpiti dal virus di Ebola, che causò il passo indietro del Marocco, figura la Liberia, allenata da Roberto Landi tra il 2011 e il 2012. «Fu una bella esperienza, facemmo la qualificazione ai Mondiali e alla Coppa d’Africa. Fui molto sorpreso dagli stadi sempre pieni: in Lesotho, Namibia, Botswana, ovunque. A Monrovia eravamo sostenuti da 70 mila persone. Ho trovato belle strutture moderne, la maggior parte delle quali di proprietà di gruppi cinesi. Vivevo in un hotel a 4 stelle, mi muovevo con l’autista e spesso andavamo in trasferta con l’aereo privato. Mia moglie non voleva più rientrare in Italia» racconta.

MONROVIA, LIBERIA - JANUARY 31: People watch soccer in a sports bar in the West Point township on January 31, 2015 in Monrovia, Liberia. The Liberian government says there are currently fewer than 10 cases of Ebola in the entire country and the World Health Organization (WHO), announced that they have moved into a new phase of the crisis response - to erradicate Ebola from West Africa. Life for Liberians is slowly returning to normal, after the worst Ebola crisis in history, which has killed at least 3,700 people in Liberia alone, the most of any country, and more than 8,000 across in West Africa. (Photo by John Moore/Getty Images)
In un bar di Monrovia (John Moore/Getty Images)

Landi oggi è tornato a casa, è il direttore generale del Rimini. «L’amministrazione comunale mi ha chiesto di dare una mano alla nuova proprietà, dopo il fallimento. Faccio un po’ il manager all’inglese». L’accento romagnolo è rimasto, nonostante le esperienze in giro per il pianeta. Da calciatore fu tra i primi expat del nostro pallone, con il tesseramento a Vancouver nel 1979. Giocò poi a Chicago e per i Cosmos, oltre che ai Kaizer Chiefs di Soweto. Da allenatore non modificò il suo stile di vita inquieto: nel suo curriculum il ruolo di allenatore dei portieri della nazionale statunitense ai mondiali del 1994, le esperienze in Georgia, Lituania, Belgio, Qatar. «Ovunque, e in Africa più che altrove, ho respirato l’amore della gente per il calcio. In ogni posto ho visto le magliette del Barcellona e del Real, del Chelsea e dello United. Il pallone è una dottrina che ha fedeli ovunque».

Nel 2013 il coraggioso approdo in un contesto difficile: la Libia del dopo Gheddafi. Isis era già attiva nella zona di Sirte, le squadre erano confinate nei dintorni di Tripoli o si davano da fare in esilio. Ben presto i campionati furono interrotti e l’organizzazione della Coppa 2017 passò al Gabon. «Rientrai a fine anno: ricordo gli spari a pochi metri da noi, l’ambasciata ci caricò sul primo volo e non tornammo più», ricorda Landi, che nella capitale era sbarcato su chiamata dell’Al Tersana. «Finché si è potuto giocare ero felice, ma la situazione è presto degenerata. Negli scorsi mesi ho ricevuto le telefonate dei miei ex ragazzi che chiedevano una mano a lasciare il Paese: erano terrorizzati». Un anno fa ha lavorato in Egitto, ancora una volta a porte chiuse. «Lì i giocatori hanno una forza fisica straordinaria e un’abilità che noi avevamo negli anni Sessanta, quando si giocava per strada. Sono convinto che il talento vero sbocci così. Manca però, seppur i nordafricani siano più smaliziati che in altre zone, una vera cultura del gioco. Quando si riesce a inoculare un po’ di tattica, il giochino diventa davvero divertente».

Dario Bonetti

«Fin dall’alba, gli abitanti di Maradonaland aspettavano fuori. Con indosso la maglia a grandi righe azzurre e bianche, simbolo del villaggio, sussurravano un incantesimo divisi in due gruppi, con lo sguardo rivolto al cielo. A Maradonaland ogni partita di calcio era un’occasione unica. Erano tutti pronti eccetto Dada, l’anziana del villaggio: a lei spettava il compito di dare il fischio di inizio».

Il senegalese Khadi Hane ne La felicità degli uomini semplici immaginava così l’ansia prima del match di un ipotetico villaggio povero di strutture e ricco di genuina passione per lo sport. Quella che brilla come un cristallo negli occhi dei ragazzini e che Dario Bonetti tante volte ha incontrato lungo le strade di Lusaka. «Giocavano tutti quanti: bastavano un po’ di spazio, e quello non mancava mai, e un po’ di stracci per fare una palla e dare il via alla sfida. L’autenticità è ciò che mi è rimasto di quell’esperienza». Bresciano, classe 1961, può vantare una carriera di tutto rispetto nel periodo d’oro del calcio italiano tra gli anni 80 e 90. Giocò a Roma e a Genova, a Milano e alla Juventus. Ha vinto in Italia e in Europa, ha anche collezionato due presenze in Nazionale. Detiene il record di giornate di squalifica nel nostro campionato (39), frutto di una naturale predisposizione a non tirare mai indietro gamba e lingua.

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Da allenatore, assieme al fratello minore Ivano o in solitaria, ha girato l’Italia e l’Europa. Fino al 2010, alla chiamata della Nazionale dello Zambia, che lo aveva scelto per sostituire Hervé Renard. Alla guida dei Chipolopolo fece tutt’altro che male: 4 vittorie, un pareggio e una sconfitta valsero il primo posto nel girone di qualificazione alla Coppa d’Africa 2012. Competizione che Bonetti non poté giocarsi, perché intanto Renard era stato richiamato in panchina e andava a vincere il trofeo grazie a un incredibile successo ai rigori sulla Costa d’Avorio. «Seguo in maniera light questa edizione della Coppa: intravedo come al solito grandi potenzialità, ma nessun collettivo mi ha sin qui davvero impressionato. Tra i giocatori segnalo Billiat dello Zimbabwe, Mané, Keita e Koulibaly del Senegal, Sako del Mali e Traoré del Burkina Faso».

Secondo Bonetti la vera magia del torneo sta nella spontaneità di chi lo segue, nella dedizione con cui «ciascuno tifa la propria nazionale e il Paese si compatta: una sensazione bellissima che noi abbiamo perso». «Allenare in Africa è stata un’esperienza bellissima per mille motivi: per il calore dei tifosi, ma anche per la disponibilità dei giocatori e per la trasparenza negli obiettivi da raggiungere. E poi in Zambia ho imparato a mangiare tutto quello che si muove: una sera ad una degustazione di vini sudafricani ho assaggiato le cavallette fritte», conclude.

Salvatore Antonio Nobile

«Quando la gente non ha sicurezze, né soldi, né giustizia, ripone le sue speranze in qualcos’altro, come la religione. O il calcio. Per noi il calcio non è un passatempo qualunque. È qualcosa di più, è tutto quello che abbiamo».

Questo è l’ultimo estratto da La felicità degli uomini semplici, un dialogo riportato dal poeta nigeriano Helon Habila. Il suo Paese, potenza continentale in crisi da un punto di vista economico e sportivo, è la grande assente in Gabon. Qui, nel Paese che ospita la Coppa e che deve ora digerire un’amara eliminazione anzitempo, ha allenato e vinto Salvatore Antonio Nobile. Oggi vive in Salento, pochi giorni fa ha firmato per il Brindisi. Approdato nel 2007 in Costa d’Avorio come vice di Checco Moriero, amico di lunga data e leccese come lui, Nobile ha trascorso oltre sei anni nel continente. All’Africa Sport, di cui successivamente è diventato primo allenatore, al Sewe Sport, sempre in Costa d’Avorio, infine al MangaSport, in Gabon.

Bouake, IVORY COAST: A young supporter of the Ivory Coast football team Elephants parade in the streets of Bouake with his face painted with the national colours, 03 June 2007 before a football match against Madagascar. AFP PHOTO/ ISSOUF SANOGO (Photo credit should read ISSOUF SANOGO/AFP/Getty Images)
Un tifoso della Costa d’Avorio a Bouake (Issouf Sanogo/AFP/Getty Images)

«Ho vinto quattro scudetti e fatto sempre strada nelle competizioni internazionali. In Costa d’Avorio ho trovato un materiale umano straordinario e un campionato molto interessante: se imparassero davvero a giocare assieme, le squadre locali potrebbero dominare nel mondo. Anche i vari Gervinho, Drogba e Touré hanno avuto bisogno del lavoro di Renard per fare il salto di qualità. In Gabon sono più scarsi, ma più organizzati. Le strutture sono ottime e i finanziamenti statali, a causa dell’amore del Presidente per il calcio, arrivano copiosi». Non fu semplice all’inizio per Nobile, che da calciatore è stato un discreto terzino sinistro e iniziò in maglia nerazzurra la stagione dei record dell’Inter 1988/89, che ha sofferto «a livello mentale e organizzativo» la sfida africana. «Dopo le vittorie sono diventato l’idolo dei tifosi» aggiunge il mister, che in carriera è stato allenato da giganti come Trapattoni, Galeone e Scoglio. La chiosa è affidata a lui. Inevitabilmente si parla di felicità. «Mai come in Africa ho visto la gente vivere per il calcio, i giovani crescere con il sogno fisso di diventare un giocatore professionista. Altrove il pallone è un elemento della propria esistenza, qui spesso è l’esistenza stessa».