Il ritorno del Re

Roger Federer in Australia non aveva niente da perdere, ed è riuscito a vincere. La costruzione di una vittoria tra le più belle della sua carriera.

C’era un esercito di scettici schierato contro la possibilità per Roger Federer di tornare ai livelli dei suoi anni d’oro. Se da un lato qualunque appassionato di tennis che si rispetti non può che essere innamorato del gioco, dello stile, della classe dello svizzero, non era facile essere disposti a scommettere su una finale Slam dopo un 2016 da zero titoli e tanti infortuni, dopo un intervento al ginocchio e un mal di schiena continuo, dopo un’assenza dai campi di gioco lunga sei mesi. Federer è riuscito ad accendere la sua stella ancora una volta, nell’orizzonte di un tennis sempre più fisico, muscolare.

I campi di Melbourne si sono dimostrati perfetti perché il tennis di Federer ci disegnasse sopra le traiettorie dei suoi colpi. La rinnovata superficie Plexicushion, più veloce di quella utilizzata fin qui dalla sua introduzione nel 2008 (quando fu preferita alla Rebound Ace perché ritenuta più rapida, tranne poi rivelarsi molto più adatta ai regolaristi che non ai giocatori tecnici) ha condizionato in modo subdolo l’andamento di questi Open d’Australia. A una velocità di scambio che negli ultimi dieci anni era praticamente scomparsa, si sono rivisti motivi tattici più brillanti e si sono apprezzati gesti tecnici che ancora odoravano di muffa. Il fatto che tre semifinalisti su quattro giocassero il rovescio a una mano o che, in campo femminile, sia arrivata in finale una giocatrice come Venus Williams a dispetto delle titaniche campionesse che si contendono oggi le prime posizioni del ranking, sono segnali evidenti in questo senso.

Federer ha rapidamente ripreso confidenza con la distanza Slam del “tre su cinque”, ha lasciato un set a Jürgen Melzer al primo turno, è implacabilmente migliorato nel corso del torneo. Più che la facilità con cui si è sbarazzato di Thomas Berdych al terzo turno o la pura formalità in cui ha trasformato i quarti contro Micha Zverev, sono state la resistenza e la combattività dimostrate agli ottavi contro Kei Nishikori, che pure aveva iniziato alla grande, e la spettacolare semifinale contro un solidissimo Stan Wawrinka – entrambi i match terminati al quinto set – a testarne la tenuta fisica e mentale.

Federer ha probabilmente tratto giovamento da sei mesi di riposo, durante i quali ha potuto ricaricare le batterie e preparare con calma e con cura la nuova stagione. Ma è mentalmente che Roger ha vinto questi Australian Open, ai quali si è presentato, per sua stessa ammissione, come uno che non aveva nulla da perdere. Nel tennis una mente sgombra da fantasmi e da possibili recriminazioni è la più preziosa freccia che si possa avere al proprio arco, purché si sia bravi a sfruttarne il vantaggio senza farsene travolgere. È su questo invisibile confine tracciato tra concretezza e imprudenza che è riuscito a muoversi il tennis di Federer.

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Rod Laver, vincitore in carriera di 11 titoli Slam, ha dichiarato: «È straordinario pensare che Roger Federer stia giocando così bene, non l’ho mai visto colpire così di rovescio». Anche tennisti da top ten come Berdych, Nishikori e Wawrinka devono aver maledetto il tabellone che gli ha messo davanti il ritrovato Re. L’ha detto anche Michael Chang, allenatore di Nishikori: «Federer sa di non essere il favorito, perché è venuto in Australia dopo un infortunio, ma sa anche che è una mina vagante e nessuno vuole giocare contro di lui». Il pubblico, naturalmente, è andato a nozze. A Melbourne si è accesa una vera follia collettiva, cresciuta a ogni turno superato dallo svizzero. Non si è trattato soltanto della devozione di alcuni appassionati, ma di un’ammirazione che ha trasceso il normale tifo sportivo. Quello per Roger Federer è un amore trasversale, che non solo ignora i confini stretti dei campi da tennis e travalica quelli dei diversi sport, ma sconfina in ambiti dove solitamente il tennis non è argomento di discussione. È un un amore che ha a che fare con la bellezza del gesto bianco, con l’armonia di un corpo, che nel tennista di Basilea trova un’espressione sublime e forse inarrivabile. Con Federer avviene la «riconciliazione degli esseri umani con il fatto di avere un corpo». L’aveva già scritto, naturalmente, David Foster Wallace.

Federer è una strana rockstar del tennis, riluttante e accomodante, gentile nei modi, misurato tanto nelle proteste quanto nelle esultanze. È l’interprete che tutti vogliono vedere esibirsi. La follia è arrivata al punto che durante l’ottavo di finale tra Wawrinka e il nostro Seppi, lo svizzero si è sentito arrivare dal pubblico un incitamento: «Come on Roger!», a cui ha tenuto a rispondere con un sorriso: «Federer gioca nell’altro campo». Si può facilmente immaginare lo stato d’animo di Wawrinka quando è sceso in campo per la semifinale proprio contro Federer, sapendo di avere il mondo, se non schierato contro di lui, favorevole al proprio avversario in modo assai palese.

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Nessuno vuole giocare contro di lui, sostiene Chang. Tranne uno, forse. Ogni campione ha un antagonista, talvolta una nemesi. Parlando di Federer, si parla anche di Rafa Nadal. Prima della finale, le statistiche parlavano di un Federer vincente contro Nadal soltanto il 32% delle volte (23 a 11 il bilancio a favore dello spagnolo). I precedenti entrati nella storia dello sport non mancano. Come la finale di Wimbledon 2007, quella del quinto titolo londinese consecutivo per Federer, contro un Nadal mai prima di allora così competitivo sull’erba che cedette soltanto al quinto set (7-6 4-6 7-6 2-6 6-2). O come la finale dell’anno successivo, sempre a Wimbledon, il primo trionfo sul Centre Court per Nadal e una delle più belle partite di tutti i tempi, con Federer che annullò tre match-point al terzo set, prima di rimettere in parità la partita e cedere soltanto 9-7 al quinto dopo quasi cinque ore di battaglia (6-4 6-4 6-7 6-7 9-7). Nell’atto conclusivo degli Australian Open un solo precedente, quello del 2009, era favorevole a Nadal, che al tempo si impose ancora al quinto set (7-5 3-6 7-6 3-6 6-2). L’ultima finale di un torneo del Grande Slam che li ha visti contrapposti è quella del Roland Garros 2011, con il maiorchino che lasciò a Federer un solo set, eguagliando il record di Bjorn Borg di sei titoli parigini (7-5 7-6 5-7 6-1). Erano ormai sette anni fa, un intervallo di tempo abissale in ambito sportivo. Quando lo scorso autunno Roger Federer raggiunse Rafa Nadal in Spagna per l’inaugurazione della Rafa Nadal Academy, i due amici-nemici sembravano quasi ex giocatori. Loro per primi non si sarebbero aspettati un tale gennaio 2017: «Sono andato a trovarlo a Maiorca, eravamo entrambi infortunati e ci siamo detti che sarebbe stato davvero improbabile ritrovarci ancora uno contro l’altro in una finale Slam», ha ricordato Federer nei giorni scorsi.

La mattina del 29 gennaio, dalle 9:30 fino fino all’ora di pranzo italiane, lo spettacolo è stato messo in scena, di nuovo, come fosse stato così voluto ed esaudito da un inconscio collettivo capace di creare la sua realtà. Federer ha giocato una partita semplicemente stellare. Ha subìto un passaggio a vuoto all’inizio del secondo set, con Rafa Nadal si è portato sul 4-0, e qualche pausa nel quarto, che lo spagnolo si è aggiudicato per 6-3, ma sia il servizio, che il dritto, il rovescio e il gioco di volo hanno funzionato alla perfezione. Federer, ancora di più, è stato capace di trovare vincenti in ogni zona del campo, e ha fatto suoi anche gli scambi più prolungati, quelli che a Nadal solitamente non sfuggono. Ha giocato con una disinvoltura rara a questi livelli e con la solita, impareggiabile, eleganza. Bernard Malamud l’avrebbe definito The Natural. Un composto di naturalezza e forza interiore è stato il quinto e decisivo set. È stato in quel momento che, contro il nervosismo e i tic di Nadal, Federer ha sfoderato la sua migliore armatura emotiva. Dopo aver subito un break nel primo gioco ed essere finito sotto per 3-1, con l’inerzia della gara che sembrava prendere la direzione dello spagnolo, non ha cambiato di una sfumatura il suo disegno di vittoria: dopo ripetute palle break, al sesto game finalmente ha strappato il servizio a Nadal riportando il punteggio sul 3-3. L’ottavo game è stato quello chiave, con almeno due dritti vincenti di Federer da regalare agli annali e a Youtube, e il punteggio trasformato in 5-3 per lo svizzero. Dopo, il dritto sulla linea convalidato dall’occhio di falco, e le lacrime.

È stata la vittoria più bella di una carriera da leggenda? Forse sì. Per tutte le sfumature e le chiavi di lettura che un trionfo del genere porta con sé. E oggi, che è soltanto il day after, questi Australian Open lasciano già una corposa nostalgia.