L’equilibrista

Ciro Immobile ha dovuto rialzarsi più volte in carriera: è così che ha migliorato, anche in campo, il suo gioco di velocità ed equilibrio.

Arrivo a Formello con mezz’ora d’anticipo sull’appuntamento per paura del traffico romano, è l’ora di pranzo e il piazzale è deserto a eccezione di poche auto. Finisco un panino incamminandomi verso gli uffici e dopo aver lasciato il documento al guardiano la prima persona che incontro è Ciro Immobile: «Che facciamo, cominciamo subito così dopo mangio anche io?».

Di solito, quando si parla di calciatori che non sono anche attori, fenomeni mediatici come Cristiano Ronaldo, Neymar, Balotelli, si dice che sono semplici, genuini, ma con un tono per cui sembra sottinteso che abbiano una un’abilità in meno. Come se a una maggiore purezza si associasse una mancanza di ambizione, o di energia. Seduto davanti a Immobile, mentre parliamo dell’altalena tra le sue stagioni più prolifiche (Pescara 2011/12, Torino 2013/14 e questa alla Lazio, che a gennaio è già la terza migliore della sua carriera) e quelle più difficili soprattutto dal punto di vista ambientale (Genova, Dortmund, Siviglia), penso che c’è molta intensità nel suo essere semplice. Non è il primo calciatore che incontro e nessuno si muoveva tanto sulla sedia, cambiando postura e toccando oggetti su una scrivania non sua, dandomi l’impressione che se fosse entrata una palla nella stanza sarebbe stato pronto a scattare e ad arrivarci per primo.

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La forza delle gambe

Uno dei concetti più cari a Johan Cruyff, cresciuto in una famiglia non ricca di Amsterdam, era che l’educazione di un calciatore dovrebbe sempre iniziare in strada, sul cemento anziché sull’erba, dove se cadi ti fai male. Su El País scriveva che in questo modo «ti devi svegliare, devi imparare a muoverti con più rapidità, a decidere velocemente cosa fare con la palla e dove andare senza».

Sembra una descrizione delle qualità di Immobile, che in effetti è parte di quella generazione di calciatori cresciuta giocando in strada: «Non era il periodo di internet, dei social network. Giocavamo dappertutto, anche dove passavamo le macchine».  È cresciuto nella zona sud di Torre Annunziata – non la più tranquilla della città – a cui è legato al punto da diventare presidente onorario della squadra locale, il Savoia. È lontano da ormai dieci anni ma i suoi genitori sono ancora lì: «È bellissimo perché quando cammino per Torre c’è chi si stupisce. Mi dicono: allora è vero, non ti si dimenticato».

Nel suo gioco, oggi, c’è qualcosa che probabilmente non faticheremmo a rivedere nei video di quel periodo, se ci fossero. Un’urgenza che l’ha spinto a iscriversi a scuola calcio quando era ancora troppo piccolo: «Avevo quattro anni, infatti non avrei potuto, ma mi hanno preso lo stesso. Non volevo mai saltare un allenamento, neanche con la febbre». Chiedo al fratello, che sta lì con noi, com’era Ciro da piccolo e lui commenta con un sorriso ironico: «Diciamo molto vivace». Il padre in passato ha raccontato che una volta, dato che era esile e giocava con ragazzi di due anni più grandi, ha smarcato un avversario passandogli sotto le gambe: «Sì, ho buttato la palla di lato e siccome stavo cadendo gli sono passato sotto le gambe continuando a correre».

Sembra nato per cambiare direzione senza rallentare, per rimbalzare sugli avversari senza cadere e tenere più o meno sotto controllo la palla a velocità e in condizioni di equilibrio tali che se tutti giocassero come lui nel calcio dovrebbero introdurre delle protezioni tipo football americano. Ed è interessante sentire come ragiona Immobile quando si parla del suo dinamismo naturale: «Il fatto che non mi fermo mai è merito di mia mamma, l’equilibrio in velocità invece è frutto dell’allenamento. Perché in campo sei sempre in contatto con qualcuno, una spalla, o una mano sulla schiena, se perdi facilmente la forza nelle gambe non è semplice giocare».

La carriera di Immobile comincia veramente quando incontra Zdenek Zeman che, come dice lui stesso in un’intervista, gli insegna i movimenti. «Sì, intendevo che mi ha insegnato i movimenti giusti», specifica. Per un attaccante l’abilità di muoversi senza palla è una specie di mistica, troppe variabili in causa per usare il pensiero razionale: «Quando il centrocampista ha la palla orientativamente puoi farti un’idea di dove potresti correre. Un fattore importante è la coordinazione: devi capire dove correre e come concludere e poi farlo il più velocemente possibile, con i ritmi di oggi è impensabile che tu riesca a stoppare la palla dentro l’area, a guardarti intorno e a calciare». Devi averci pensato prima che la palla ti arrivi. «Sì, altrimenti non è possibile. È soprattutto velocità di pensiero: gli attaccanti più forti lo sono per questo, al di là del talento».

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La forza del pensiero

Ma l’energia che spende in qualsiasi cosa faccia è solo metà del suo talento. Tommaso Giagni su Ultimo Uomo dice che «ha un dono per rialzarsi dopo le crisi. O, rovesciando il discorso, per andare in crisi dopo momenti di esaltazione». Immobile pensa che «nel calcio come nella vita ci sta un momento in cui tutto ti va male. Alla fine tutto gira, tutto cambia».

Quest’anno alla Lazio sembra rinato per l’ennesima volta, ma è impossibile non tornare col pensiero al periodo che va dall’estate del 2014 a quella 2016: la stagione sfortunata con il Borussia Dortmund, i successivi sei mesi a Siviglia, dove è finito da subito in panchina (dopo essere stato pagato caro) e poi l’infortunio con il Torino che lo ha tenuto fermo più di un mese. «Quando non giochi è difficile, ti abbatte. Anche se io non sono uno che si butta giù facilmente», dice.

In un calcio in cui anche giocatori con un potenziale eccezionale vanno in crisi per una singola scelta sbagliata (club o allenatore) o anche solo qualche partita sbagliata di seguito, Immobile è riuscito a tirarsi fuori dalle sabbie mobili fin dall’inizio.  Accettando anche di non poter controllare tutte le leve che controllavano l’ascensore della sua carriera. Dopo i primi esordi (entrando al posto di Del Piero) la Juventus lo ha prestato prima a Siena e poi a Grosseto. «Non è una cosa negativa perché ti dà l’opportunità di metterti in mostra. Magari se fossi rimasto alla Juventus non sarebbe andata così perché avrei avuto meno opportunità». Persino dopo il terzo prestito, quello dei 28 gol con il Pescara, non se la sono sentita di puntare su di lui: «L’unica scelta che non ho capito è perché dopo quella stagione Verratti va al Paris Saint-Germain, Insigne lo riprende il Napoli, e io sono andato a Genova».

Il Genoa quell’anno cambia tre allenatori e la squadra finisce ultima tra le non retrocesse. «Però alla fine è stata un’esperienza che mi è servita, a Torino l’anno dopo sono riuscito a fare bene ripensando ai momenti negativi che ho passato. Anche lì ho vissuto un momento difficile, nelle sette partite all’inizio in cui non facevo gol e dicevano che non ero pronto per la Serie A, che andavo bene per la B, che ero diventato capocannoniere perché c’era Zeman. Tutte queste cose non mi hanno buttato giù, anzi».

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Poi a Torino 22 gol, il Mondiale (in cui gioca da titolare solo la partita da dentro o fuori con l’Uruguay) e il Borussia Dortmund. Solo che arriva nella peggiore stagione di Jürgen Klopp, che a gennaio lascia il posto a Thomas Tuchel. «Klopp mi ha insegnato che non si molla mai. Non è mai cambiato nei nostri confronti, quando abbiamo vinto la Supercoppa come quando eravamo ultimi in classifica a dicembre».

L’esperienza in Germania è esemplare di quante cose possono andare storte nella carriera di un calciatore. La Bild lo ha criticato perché non sapeva il tedesco: «È una cattiveria perché anche Ribery dopo anni ancora non lo parla. Anche Aubameyang e Kagawa non lo sapevano». Ma Tuchel decide di fare a meno degli interpreti e Immobile fatica a capire le indicazioni in campo e a vivere lo spogliatoio. Si arriva alla scena tragicomica di Tuchel che durante la tournée estiva a Singapore lo convoca per un colloquio: «Mi parlava in tedesco, e io gli dissi: guarda che non capisco. Lì si rese conto che ero in difficoltà».

Poco importa: per un attaccante, la differenza tra successo e fallimento la fa il linguaggio universale del gol: «Verratti fa la differenza saltando l’uomo, mettendo palloni in profondità. L’attaccante fa il salto di qualità se segna tanti gol».

Sarebbe riduttivo, però, considerare solo quello, soprattutto per un attaccante di fatica come Immobile, no? «Certo, interviene anche la passione, la voglia di giocare. Non hai molto tempo per farti vedere, la nostra è una carriera breve. Pensi: tra dieci anni smetto, quindi cerco di dare tutto adesso». Questa è la chiave: la semplicità può essere anche una forma estrema di concentrazione. «Tutto quello che ho, io lo do in campo».