La Masía si è fermata

Perché il settore giovanile del Barcellona ha smesso di germogliare calciatori capaci di arrivare in prima squadra, dopo i successi di Guardiola.

Nei pressi del Camp Nou, dove ogni giorno il museo e lo store del Barcellona accolgono incessantemente le code di tifosi, turisti e appassionati, riposa silenziosa la Masía de Can Planes, oggi semplice reliquia a cielo aperto, ma origine del successo calcistico del club catalano, che ha fatto scuola nel mondo intero. In spagnolo il termine Masía fa riferimento a quel casolare di campagna nel quale si producono ed elaborano i prodotti della terra. E in effetti l’idea di formazione primordiale dei giovani calciatori è la pietra miliare dell’imposizione del modello blaugrana, oggi di moda in tutto il mondo.

Eppure, la struttura nella quale a metà degli anni ‘90 un giovanissimo Andrés Iniesta scoppiava di nascosto in lacrime per la nostalgia di casa, o nella quale un imberbe Carles Puyol faceva la fila all’unico telefono a gettoni per chiamare la famiglia sui Pirenei, è adesso un monumento per il ricordo: il centro di formazione, che oggi porta il nome del defunto talent scout catalano Oriol Tort, è da poco stato trasferito nella struttura modernissima di Sant Joan Despí, dove si allenano tutte le squadre del club. L’accorpamento delle installazioni adibite alla formazione fisica vera e propria dei calciatori, dai cosiddetti pulcini alla prima squadra, è stata una delle prime disposizioni del presidente Sandro Rosell, presidente della società catalana dal giugno 2010 fino al gennaio del 2014, quando fu costretto alle dimissioni per «appropriazione indebita e simulazione contrattuale» nel caso dell’ingaggio di Neymar Jr..

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«Hai visto cosa sta facendo Grimaldo nel Benfica? Lì è titolare in campionato e in Champions, mentre nel Barça se non gioca Jordi Alba lo fa Digne. C’era davvero bisogno di lui quando avevamo Grimaldo?». La voce di chi fino a poco fa era uno degli addetti ai lavori nelle giovanili del Barcellona esprime il rammarico per una tendenza ultimamente molto marcata nel club catalano, che preferisce mettere mano al portafoglio per acquistare calciatori in qualche modo già più rodati in competizioni internazionali. Nel campo numero 5 del complesso sportivo di Sant Joan Despí vari tifosi che seguono il Barça B, che milita in Segunda B, la Serie C spagnola, digrignano i denti insoddisfatti e amareggiati. L’allenatore, Gerard López, non è il logico segmento di congiunzione della filosofia dei tecnici con il Dna blaugrana che danno priorità all’estetica rispetto al risultato. Dopo Pep Guardiola, Luis Enrique ed Eusebio Sacristán, quella di Gerard è stata da molti bollata come una scelta di immagine puramente mediatica, data la sua mancanza di esperienza nella gestione e soprattutto nella formazione di giovani talenti. Il malcontento di chi ha messo le basi del progetto formativo del Barça si riflette in quello dei tifosi che non guardano solamente ai titoli della prima squadra, arrivati comunque dopo una serie di acquisti importanti, che certificano la scelta della dirigenza di puntare sui successi nell’immediato.

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La rivoluzione copernicana messa in atto da Guardiola dal 2007 al 2011 aveva generato l’esplosione di una supernova carica di talento e insieme di spensieratezza. Dopo l’addio di Frank Rijkaard e l’allontanamento dell’eccessiva allegria brasiliana incarnata dai sorrisi di Ronaldinho e Deco si era scelto di appoggiarsi ai cardini della disciplina e del rischio: giovani ronzini come Busquets e Pedro, che Pep aveva fatto crescere nel Barça B salito in Segunda B con il record di 83 punti, erano pronti a diventare destrieri, mentre i ritorni di Piqué prima e Fabregas poi confermavano la scommessa sulla generazione del 1987, capeggiata da Lionel Messi. Non è un caso che i calciatori appena citati siano le ultime perle della cantera blaugrana che si sono imposte ad altissimi livelli. La globalizzazione della Masía, nella quale confluiscono sempre più calciatori provenienti da ogni angolo del mondo – su tutti il chiacchierato coreano Lee Seung-woo – è una conseguenza della decisione della direzione presieduta da Josep María Bartomeu che mira all’espansione del marchio Barça fin dalle giovanili. Per i puristi si tratta invece di una “deviazione” dai principî di memoria cruyffiana. Johann si era infatti schierato, nelle ultime elezioni per la presidenza di oltre un anno fa, a favore di Joan Laporta, prima di abbandonare il club catalano e, in seguito, il mondo.

Non va dimenticato che gli stessi Piqué e Fabregas
sono dovuti emigrare in Premier League
prima di essere richiamati

In realtà, commercializzazione del marchio o meno, il problema di fondo risiede nella poca fiducia nei giovani, che Luis Enrique tende a ignorare da quando ha lasciato la squadra B. Guardiola, nel suo moto di rivoluzione dell’asse del pianeta Barça, si era azzardato a promuovere tanti elementi del Barça B anche dopo l’exploit dei primi due anni della sua gestione, arrivando a far rendere come non mai elementi non eccelsi come Tello e Cuenca, e valorizzando come nessuno la profondità che dava al reparto avanzato uno come Bojan, successivamente eclissatosi anche per motivi mentali. Ma l’attuale tecnico non ama scommettere, e le cessioni di quest’estate lo confermano: Samper, l’erede di Busquets, è stato mandato al Granada, Sandro è finito al Málaga e Munir, che a detta di Eusebio «ha tutte le carte in regola per rendere ad alto livello in tutte e tre le posizioni d’attacco della prima squadra», è stato parcheggiato al Valencia nell’operazione che ha visto Paco Alcácer vestirsi di blaugrana. Perché in attacco Neymar, Messi e Suárez non si toccano, quasi non possono essere neanche sostituiti, a differenza di, ad esempio, Ibrahimovic, che nel finale della stagione 2009/10 fu relegato in panchina a vantaggio di Bojan proprio da Guardiola. Non va dimenticato, inoltre, che gli stessi Piqué e Fabregas sono dovuti emigrare in Premier League prima di essere richiamati, sempre da Pep, che ha vinto forse la sua più grande scommessa proprio con il difensore, uomo Barça a 360 gradi e forse anche futuro presidente

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A parte Sergi Roberto, un classe ‘92 riadattato da Luis Enrique a terzino destro, il tecnico asturiano non ha praticamente promosso nessun elemento delle giovanili a titolare della prima squadra, con Rafinha, che ha avuto al Celta, utilizzato a sprazzi. Ed è il fratello di Rafinha, Thiago, il peccato originale della gestione blaugrana degli ultimi anni: il ragazzo del 1991, erede designato di Xavi, è stato lasciato andar via per una clausola imposta prima e poi dimenticata da una dirigenza che con Gerardo Martino in panchina aveva cercato solamente successi effimeri e immediati, senza scrutare il futuro, scimmiottando in modo grottesco il modello del “tutto e subito” tipicamente madridista.

«Il problema è che in molti hanno pensato che una generazione come quella dell’87 fosse ripetibile, e invece non è così. In primis perché non esistono altri Messi, ma anche perché nessuno avrà mai la libertà e il coraggio di Guardiola di promuovere i giovani», continua la voce di chi per decenni ha passato ore sui manti erbosi di una scuola di talenti con pochi eguali nel mondo. Il Barcellona sembra essere una sorta di cannibale di se stesso, a causa di un’aspettativa elevatissima verso i canterani, molti dei quali non riescono a reggere l’aria rarefatta di chi è costretto a competere sulle vette più alte del mondo. È il caso di Bartra, l’ultima delle scelte di Luis Enrique che oggi, nel Borussia Dortmund, sembra aver trovato la sua dimensione. Volgendo lo sguardo all’indietro ci si accorge che, fino a poco fa, il Barcellona sfornava un potenziale campione ogni due-tre anni, con Puyol (1978), Xavi (1980) e Iniesta (1984) ad aprire il passo alla grande generazione del 1987. Una tendenza che ha convinto in troppi a pensare che casi come quello di Messi fossero quasi una regola, anziché l’apparizione di un raro fenomeno astrologico in un firmamento comunque costellato di altri corpi capaci di brillare seppur con meno intensità.

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Un campanello d’allarme rilevante è l’estinzione del mediano metodista che ha avuto continuità dai tempi dello stesso Guardiola fino a Busquets. A segnalarlo è Albert Benaiges, scopritore e secondo padre di Andrés Iniesta, ora in “esilio” in Repubblica Dominicana, dopo essere stato uno dei responsabili del settore giovanile del Barcellona: «Si sta perdendo la centralità del “4” nel disegno di gioco della squadra B e delle giovanili blaugrana, perché dietro Busquets c’è solamente Samper, che è  stato ceduto al Granada». Benaiges è anche consapevole che l’estensione forzata del marchio Barça a livello economico ha snaturato la filosofia di crescita dei calciatori del futuro. «Dall’arrivo di Sandro Rosell alla presidenza sono cambiati i valori del club. Il Barcellona continuerà a vincere ma la sua identità interiore è mutata».

«Il problema è che in molti hanno pensato
che una generazione come quella dell’87 fosse ripetibile,
ma non è così»

Una delle manovre che Benaiges recrimina all’attuale dirigenza è quella di aver letteralmente licenziato dieci elementi della cantera presenti nel Barça B per ingaggiare altrettanti calciatori con il fine di risalire quanto prima in Segunda División, preferendo una questione di immagine allo sviluppo organico e graduale di una mentalità di gioco ben definita attraverso la crescita degli stessi giovani. «L’ultimo giovane che ho reclutato, Lee, è stato preso in prospettiva, con le speranze che possa diventare il Messi asiatico dopo la trafila nella Masia che oggi simboleggia, a mo’ di iperbole, il luogo dove si formano questi giovani calciatori, mentre in realtà sono appena in sessanta a vivere al suo interno. Questo è un altro equivoco molto diffuso: non tutti vivono e si formano nella Masia». Benaiges, uno dei principali responsabili dell’armonia tra i giovani nell’antica Masía, aggiunge: «La perdita di interazione tra la cantera e la prima squadra è scaturita dalla divisione del settore giovanile in due blocchi, con la conseguente nomina di due diversi direttori sportivi che hanno finito per rovinare un lavoro prima svolto in maniera armoniosa, perché nessuno dei due conosceva bene l’ambiente e le sue dinamiche».

La Masía di oggi sembra in qualche modo aver voltato le spalle alla filosofia ideata da Cruijff e predicata da Guardiola. In nome della globalizzazione si è modernizzata eccessivamente, come un motore più potente, luccicante all’esterno. Che finisce, però, per ingolfarsi di aspettative, di promesse mancate.

 

Dal numero 14 di Undici
Fotografie di Iris Humm