L’oro del Sud

Con il solo Napoli candidato a rimanere in Serie A, il ricordo di 6 formazioni del Meridione che hanno fatto la storia.

Certe domeniche d’ottobre nei salotti milanesi si crepava d’invidia. I termosifoni erano ancora spenti e le immagini di Diretta Gol restituivano un Cibali in perfette condizioni, il sole alto a scaldare il Via del Mare. Erano appena sei anni fa e cinque squadre del Sud popolavano la Serie A Tim. A Palermo e Napoli si affiancavano Catania, Bari e Lecce. Discorso a parte, che non affronteremo, meriterebbe il Cagliari. La prossima stagione, a meno di sorprese in arrivo dalla cadetteria, potrebbe essere l’Anno Uno del nostro Mezzogiorno.

A Crotone la prima storica volta tra i grandi è stata fango e poca gloria, solo il tempo dirà se la fine dell’era Zamparini sancirà il nuovo apogeo di Santa Rosalia. Il Napoli è tanto grande quanto solo. Senza scomodare Salvemini e la sua dottrina meridionalista, preoccupa la voragine che si è aperta latitudinale in un pallone a due velocità. Un abisso tecnico e progettuale, in cui la mancanza di investimenti e una preoccupante tendenza all’avventurismo sono solo alcune delle cause. Fiere piazze di calcio sono sparite dai radar tra bancarotte e ridimensionamenti, i derby del Sud vivono ormai più della rivalità tra i tifosi che di un qualsivoglia appeal tecnico e agonistico. Tocca allora volgere lo sguardo indietro, per ritrovare una rassegna delle più esaltanti compagini meridionali del recente passato.


Avellino, 1980/81

Il 23 novembre del 1980 un terremoto di magnitudo 6,9 con epicentro tra i comuni di Teora e Castelnuovo di Conza causava 2914 morti e quasi 300 mila sfollati. I devastanti danni nella zona di Avellino e dintorni erano acuiti dall’atavica sensazione di abbandono della popolazione. Allora i biancoverdi erano alla loro terza stagione in Serie A. Il cammino era in salita: la società, che proprio in questi giorni rivive l’incubo penalizzazione per due presunti illeciti datati 2014, era rimasta invischiata nel maxi processo sul calcioscommesse e costretta a iniziare il torneo da -5. In panchina sedeva il brasiliano ex Napoli Luis Vinicio, che da calciatore aveva realizzato 150 gol in Serie A. Modernista convinto, era affascinato dal gioco fluido degli olandesi e dalla suggestione della marcatura a zona. In porta esordì Stefano Tacconi, arrivato dalla Sambenedettese. Il capitano era Salvatore Di Somma da Castellamare di Stabia, Beruatto e Cesare Cattaneo in difesa, a fare girare palla pensavano i giovani Antonino Criscimanni e Beniamino Vignola, che avrebbe poi fatto una discreta fortuna con la Juventus. Davanti si puntava forte su Mario Piga. Pazienza se quest’ultimo non fu mai un vero bomber: quell’anno i Lupi furono il quarto miglior attacco del campionato.

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Lo straniero del gruppo era stato pescato chissà come a Guadalajara. Minuto, sgusciante e folkloristico con il suo ballo alla bandierina dopo i gol, Juary fece parlare di sé in campo e nelle aule di tribunale, quando, durante un’udienza del processo sulle malefatte della Nuova Camorra Organizzata, consegnò una medaglia d’onore a Raffaele Cutolo. A complicare ulteriormente i piani c’era l’inagibilità del Partenio, arena danneggiata dal sisma che solo pochi mesi prima aveva celebrato un leggendario concerto di Lou Reed. Ospitato inizialmente al San Paolo, l’Avellino vinse 9 delle 15 partite casalinghe. La salvezza arrivò all’ultima giornata di uno dei tornei più equilibrati di sempre, quando il gol di Venturini pareggiò quello di Falcao e mandò all’aria le residue speranze di scudetto della Roma nell’anno del non gol di Turone. La festa aveva il sapore del riscatto.

«Il giorno del terremoto mi trovavo in radio per una registrazione. Riuscii a uscire di corsa, fuori c’era la guerra: palazzi crollati, gente in fuga, lacrime, morti. Il giorno della salvezza provai una gioia indescrivibile», raccontò Vignola. La permanenza in Serie A dell’Avellino durò altre sette stagioni. Nel 1987 la squadra fu ottava. Vestirono la maglia biancoverde Luciano Favero e Ramón Díaz, il campione del mondo Dirceu e Geronimo Barbadillo, un peruviano dalla folta chioma presto diventato icona di non si sa esattamente cosa.

Merito dell’uomo che per decenni fu il plenipotenziario di quella squadra, da dirigente e poi da presidente, Antonio Sibilia. Un personaggio unico: più volte accusato di collusione con i clan di camorra e persino di aver caldeggiato la gambizzazione di un giornalista sportivo malvoluto, fu protagonista di liti clamorose con il suo staff, con gli avversari e con la grammatica. «Se prima non hai male patito, non capirai niente per il resto della tua vita» disse una volta. In poche parole aveva definito la storia passata, presente e futura del suo Avellino.

 

Bari, 1999/00

Dicesi Priscio la passione più tracimante, quel non starci più dentro in attesa che arrivi la domenica. A Bari, come racconta il film Una meravigliosa stagione fallimentare, quella fibrillazione fu collettivizzata nella primavera 2014, quella in cui finì il regno di Matarrese e una squadra data per spacciata arrivò a un passo dalla serie A. Sensazioni di esaltazione che in città conoscevano bene, pur sbiadite da una serie di annate disastrose sotto il profilo sportivo e societario.

Erano gli ultimi fiati dello scorso millennio, quando lungo il Malecon pugliese una squadra talentuosa dava modo all’esigente pubblico di gonfiare il petto. Stagione 1999/00, allenatore Eugenio Fascetti. Classe 1938, viareggino e destro come pochi, Fascetti a Bari trovò la terra promessa. Arrivò nel 1995 tra i mugugni per i suoi trascorsi leccesi e conquistò presto la piazza. In campo andavano qualità e atletismo: c’erano Gaetano De Rosa e Nicola Ventola, Volpi, Zambrotta e De Ascentis. Assieme a stranieri di rango come Thomas Doll e Ingesson e nomi di culto come Masinga, Guerrero e Neqrouz. Nell’estate 1999 Matarrese, sempre più che cauto negli investimenti, aveva provveduto a un parziale ricambio generazionale.

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Dalla Juventus arrivò un giovane Simone Perrotta, che alcuni anni e un Mondiale dopo avrebbe inaugurato una statua accanto a quella di Geoff Hurst nella natia Ashton-under-Lyne. Esordirono il cileno Jaime Valdes e gli svedesi Daniel Andersson e Yksel Osmanovski. Insomma, c’era dell’abbondanza. Per questo il 18 dicembre 1999 grande fu lo stupore del San Nicola, un’astronave da 60 mila posti che nulla c’entra con le categorie minori, nel constatare che contro l’Inter in attacco avrebbero giocato due ragazzini: il nigeriano Hugo Enyinnaya e Antonio Cassano, nato in città diciassette anni prima.

Il resto è storia nota. Cassano giocò a Bari un altro anno e mezzo e segnò sei gol in tutto, prima di passare alla Roma per una sessantina di miliardi di lire. Non rimase particolarmente legato a quell’esperienza in patria, anche questo è risaputo. I biancorossi sarebbero tornati ai vertici del calcio nazionale solo per un nuovo biennio con mister Ventura in panchina. Oggi la realtà sono una nuova stagione in salita e le gioie che sa dare il tridente Galano-Floro Flores-Brienza: se sarà Priscio lo scopriremo a maggio.

 


Reggina, 1999/00

Bari v RegginaQuello stesso anno, mentre la gente tremava per il sopravvalutatissimo Millenium bug, a Reggio Calabria la domenica era una goduria. Alla sua prima in A la Reggina si presentò con notevole sfacciataggine. Il 29 agosto del 1999 l’esordio al Delle Alpi con la Juventus di Del Piero e Zidane finì 1 a 1: il gol su angolo di Momo Kallon aveva pareggiato la giocata di Inzaghi. In porta c’era Paolo Orlandoni, che a gennaio avrebbe lasciato il posto a Massimo Taibi, reduce dalla avvilente esperienza al Manchester United. Gli altri dieci reggini erano un mix tra i vecchi artefici della promozione e alcune ottime pescate dai vivai delle grandi.

La gente imparò a conoscere Cirillo, Stovini, Morabito e Jorge Vargas. Davanti, assieme a Kallon, ecco Possanzini e Bogdani. L’eterna promessa Baronio prometteva di accendere il centrocampo in compagnia di un altro ragazzo bresciano: Andrea Pirlo, autore di sei gol e di un’antologia di assist. I due furono effettivamente protagonisti di una stagione da applausi, prima che le loro carriere prendessero pieghe differenti. Il tasso di fantasia dell’undici era incendiato da Francesco Cozza, prodotto del vivaio locale tornato a Reggio dopo un lungo rodaggio.

Era lui l’idolo del Granillo, rimesso a nuovo per l’avventura tra i big. Durante l’estate la società aveva incassato lo straordinario record di 24 mila abbonati: praticamente il tutto esaurito era garantito a ogni match. Oggi, mentre lo storico presidente Lillo Foti è stato travolto dai debiti e alla società è imposta l’ennesima ripartenza dalla leghe minori, si fatica a toccare quota 2 mila affezionati. Dopo aver fermato la Juve, la squadra impose il pareggio a Fiorentina, Parma, Lazio e Inter. A San Siro con il Milan finì 2 a 2, grazie a un rigore parato da Berardi a Shevchenko, mentre la Roma capitolò sotto i gol di Cozza e Cirillo. La salvezza arrivò senza affanno: all’ultima di campionato all’Olimpico la squadra poté assistere al 3 a 0 che, complice il naufragio juventino di Perugia, regalava lo scudetto alla Lazio.

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Nella prima decade del nuovo millennio la Reggina collezionerà altre sette stagioni in A. Alcune furono da applausi, come quella che seguì Calciopoli. La squadra, sotto la guida di Mazzarri, rimontò undici punti di penalizzazione e conquistò una salvezza insperabile. Furono gli anni di Bonazzoli, Di Michele e Mesto. Del genio di Mozart, regista brasiliano dal soprannome impegnativo, e di quello intermittente di Shunsuke Nakamura. Dei gol di Nicola Amoruso prima e di Rolando Bianchi poi. Dei continui ritorni di Ciccio Cozza, che sarebbe poi divenuto allenatore di una squadra relegata ai bassifondi dai pasticci societari.

Ma le classifiche contano fino a un certo punto. E Cozza conosce a memoria il coro dei tifosi reggini che fa: «Una gitana un dì mi ha letto le carte, dice che per amore io soffrirò. Se questo amore sono gli amaranto, nella mia vita mai nulla vincerò. Me l’ha detto la gitana, me l’ha detto con fervor: lascia la maglia amaranto ed avrai soddisfazion. Me l’ha detto la gitana, ma io non l’ascolterò. Meglio la maglia amaranto che la Coppa dei Campion».

 

Lecce, 2003/04

All’inizio del nuovo millennio Quelli che… il calcio, condotto all’epoca da Simona Ventura, rivestiva un ruolo sociale importante. Era l’alternativa low cost a Sky e un balsamo nazionalpopolare per chi non se la sentiva di affrontare un pomeriggio sulle televisioni regionali. Dalla statale 543, che accompagna i leccesi al primo bagno della stagione, le telecamere del varietà indugiavano dagli spalti del Via del Mare sui capillari esplosi di Nando Popu, frontman dei Sud Sound System.

Era difficile non simpatizzare per i salentini, e le vacanze a Gallipoli non erano ancora un obbligo morale per ogni milanese, così che quella terra, distante ore di auto per gli stessi pugliesi, manteneva un po’ di riservo e autonomia. I trionfi del Lecce, probabilmente, contribuirono alla definitiva esplosione del brand.

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Nell’estate del 2003 si ripresentò in Serie A con una squadra che, rivista oggi, pare nata per una di quelle fastidiose pagine Facebook inneggianti alla nostalgia. In difesa c’erano Bovo e Stovini, pronti ad allargare sulle due fasce arate da Cassetti e Tonetto. In mezzo al campo, dove un 26enne Giacomazzi dava già segnali di una intelligenza tattica superiore, l’Italia scopriva l’intensità di Christian Ledesma, pescato da Pantaleo Corvino nelle giovanili del Boca Juniors. Ma era davanti che la squadra diveniva fenomeno pop, grazie al tridente Vucinic-Bojinov-Chevanton.

Il ventenne Vucinic mise presto in mostra un mix di doti atletiche e lucida follia, il bulgaro una potenza di calcio quasi incompatibile con il suo baricentro. A 16 anni fu il più giovane straniero a saggiare la massima serie: nel gennaio 2014, non ancora maggiorenne, andò in gol contro il Bologna. E poi c’era Ernesto Javier Chevantón, che quell’anno realizzò 19 gol. L’uruguaiano fece subito innamorare i tifosi con una serie di giocate clamorose e con il suo attaccamento alla maglia, che lo portò, assieme al connazionale Giacomazzi, a giocare e segnare in giallorosso in tre categorie. A dirigere l’orchestra era Delio Rossi, confermato in panchina per la sua abilità a fare sbocciare i giovani. La salvezza era acquisita nelle ultime giornate, certificata da un doppio clamoroso successo primaverile contro Juventus (4-3 al Delle Alpi con tre gol di Konan) e Inter (2-1, Tonetto e Bovo).

All’ultima giornata il Via del Mare assistette alla festa congiunta per la salvezza di Lecce e Reggina, in uno smaccato link al paragrafo precedente. L’anno successivo la squadra, passata alle cure di Zdenek Zeman, si ripeté grazie alla definitiva consacrazione dei suoi prospetti. Seguirono anni di sali e scendi tra la A e la B, drammaticamente conclusi con il doppio salto all’indietro del 2012 per illecito sportivo.

 

Messina, 2004/05

A Messina supporter shouts during the ItIl 19 settembre del 2004 fu un grande giorno per quasi tutti i messinesi: quello della prima casalinga del Messina in A dopo quaranta anni, quello dell’inaugurazione di uno stadio atteso troppo a lungo. A snobbare l’evento in città solo gli inquilini di un paio di palazzi del quartiere Gazzi, che fino a pochi mesi prima arrotondavano lo stipendio grazie all’affitto di un seggiolino sul proprio balcone con vista sul comunale Giovanni Celeste. Calpestato fin dal 1932 e incastrato all’interno della città secondo logiche urbanistiche di un tempo, il precedente impianto poteva finalmente essere trattato come il cimelio che era. Iniziati nel 1989 e travagliati da fallimenti e complicazioni di ogni tipo, i lavori del San Filippo erano terminati nel momento più opportuno. L’arena, oggi dedicata alla memoria di Franco Scoglio, era un gioiello per l’isola, la giusta cornice per la nuova avventura ai massimi livelli dei peloritani.

Al resto pensò il calendario, che quel giorno offrì ai 15 mila presenti la sfida tra i padroni di casa e la Roma di Gigi Del Neri. Arbitro dell’incontro era Pierluigi Collina. La partenza dei messinesi, trainati da Bortolo Mutti, fu decisamente convincente: la squadra andò in vantaggio, prima di subire la tripletta di Montella. Al 75′ Mimmo Giampà, che poche settimane dopo si procurerà un tremendo infortunio sbattendo una coscia contro i tabelloni pubblicitari del San Filippo, pareggiava i conti. Pochi minuti dopo, il tripudio: Zampagna superava Pelizzoli con un pallonetto stupendo, prima di portare le mani alle orecchie per godersi il boato dei suoi. Tre giorni dopo erano ancora Giampà e Zampagna a firmare la storica vittoria per 2 a 1 a San Siro contro il Milan campione d’Italia. La prima sconfitta arrivava alla sesta giornata contro la Juventus, che precedeva i siciliani di appena due punti in classifica.

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Fenomeni non ce n’erano. Davanti a Storari figuravano Zoro, l’iraniano Rezaei e il solito Aronica, palermitano come Alessandro Parisi, arma in più della squadra. In mezzo Massimo Donati, Coppola e la fantasia indolente di D’Agostino. Davanti l’arsenale era notevole: oltre a Zampagna (12 gol), che all’epoca non aveva mai calcato il proscenio della A, ecco Amoruso, Arturo Di Napoli, autore in tutto di 9 gol, e la meteora giapponese Atsushi Yanagisawa, incapace di reggere il confronto con il connazionale Nakamura di là dello Stretto. Il campionato, pur con gli inevitabili alti e bassi, fu irripetibile. Al ritorno contro l’Inter arrivò la vittoria in rimonta al novantesimo: a poche giornate dalla fine l’Europa era una prospettiva concreta. Alla fine il Messina conquistò un incredibile settimo posto e la qualificazione all’Intertoto, che la società rifiutò.

L’anno dopo la squadra si salvò grazie alla tempesta Calciopoli, ma la retrocessione era in agguato nel 2007. Il patron Pietro Franza si era ormai stancato e da lì a poco il Messina sparì. Oggi, dopo aver più volte cambiato nome, battaglia nell’agone della Lega Pro come altre nobili meridionali decadute. Qualche settimana fa il mister della squadra, un certo Cristiano Lucarelli, si è ricordato dei bei tempi delle lotte degli avi camalli a Livorno e ha guidato i suoi giocatori in corteo fino al porto, per chiedere al presidente dimissionario di farsi da parte e fare sopravvivere la squadra.

 

Palermo, 2009/10

Palermo players celebrate with their fan«L’obiettivo è da sempre stato quello di individuare opportunità nei mercati liquidi e capitalizzare sul re-adjustment dei prezzi». Questa, come riportata sul sito ufficiale del Palermo Calcio, la filosofia aziendale di Paul Baccaglini, appena nominato presidente della società. Non suonano granché bene le parole dell’ex inviato de Le Iene, fondatore del fondo di investimento Integritas Capital. Il tempo dirà quali sono i suoi programmi, al di là delle illustrazioni sul corpo e degli scatti vestito di soli limoni. Il suo compito è gravoso, perché l’acquisizione della squadra lanciata a razzo verso la B giunge dopo una delle epopee più esaltanti e al contempo contraddittorie del nostro recente pallone: quella di Maurizio Zamparini alla Favorita.

Dopo aver guidato e poi ceduto il Venezia, l’imprenditore sbarcò in Sicilia nel luglio del 2002 con i soldi per rilevare la società rosanero da Franco Sensi. Al secondo tentativo era già in Serie A. Merito della guida di Francesco Guidolin, della classe di Corini e Zauli e della raffica di gol di Luca Toni. Rispetto alle altre sin qui esaminate, l’esperienza del Palermo in Serie A è stata duratura e coronata di grandi successi. Tanto che l’ironia sul “vulcanico Zamparini” e sui 28 cambi di allenatore in 17 anni non può prescindere dal riconoscimento di ciò che di unico ha realizzato in questi anni.

Nella rosa dell’Italia campione del mondo nel 2006 c’erano quattro rosanero: Grosso, Barzagli, Zaccardo e Barone. Non a caso, da neopromossa, quell’anno arrivò la prima qualificazione in Coppa Uefa. Sono state cinque le partecipazioni europee della società, che nella prima decade del nuovo millennio è stata tra le realtà più interessanti del panorama nazionale. Uno degli artefici dei successi di quegli anni fu il ds Rino Foschi, abile ad arricchire un nucleo di italiani di rendimento con i talenti pescati in Sud America e rivenduti a cifre spaziali. Vale la pena menzionare il portiere Sirigu e Giovanni Tedesco, Brienza, Amauri e Liverani. Quest’ultimo, dopo il ritiro di Corini, divenne il faro dell’ultimo Palermo davvero vincente, quello della stagione 2009/10.

BERGAMO, ITALY - MAY 16: Edinson Cavani (R) of Palermo celebrates with his team mate Javier Pastore after scoring a penalty (1:2) during the Serie A match between Atalanta BC and US Citta di Palermo at Stadio Atleti Azzurri d'Italia on May 16, 2010 in Bergamo, Italy. (Photo by Tullio M. Puglia/Getty Images)

Reduce da due annate mediocri, la squadra era stata affidata a Walter Zenga. A novembre l’ex portiere interista perdeva il posto a favore di Delio Rossi, che pochi mesi prima aveva alzato la Coppa Italia con la Lazio. Da quel momento la squadra non si fermò più. L’ossatura era formata da Kjaer, Balzaretti e Nocerino, cui si aggiungevano Fabio Simplicio e l’australiano Mark Bresciano.

Ma era davanti che il Palermo non era gestibile: Javier Pastore, giunto in estate dall’Huracán, fece presto capire quali fossero i suoi margini di miglioramento, mentre Edinson Cavani chiuse la stagione con 13 gol. Meglio ancora fece l’idolo del Barbera, Fabrizio Miccoli, che ne segnò 19. Il quinto posto in Serie A fu la degna conclusione di una grande annata. Era l’anno del Triplete interista, per farsi un’idea della concorrenza. Poi arrivarono Dybala, Vázquez, Belotti e tanti, troppi errori. Che non cancellano i ricordi e le ambizioni di ridare al Sud Italia una bella favola di presta redenzione.