Anatomia di una rimonta

Come il Barcellona ha compiuto l'impresa storica di rimontare uno 0-4: l'approccio, gli errori del Psg, gli otto minuti di estasi agonistica.

La porta era la stessa della finale di Champions League del 1999 quando, sempre al Camp Nou, si assistette ad uno dei ribaltoni più incredibili della storia: al Manchester United bastarono tre minuti, tra il 90’ e il 93’, per strappare dalle mani del Bayern Monaco una coppa che sembrava già vinta; ne sono serviti otto, tra l’88’ e il 95’, al Barcellona per dare forma all’impossibile e buttare fuori il Paris Saint-Germain, che con la rete di Cavani (al gol stagionale numero 38 in 37 presenze: probabilmente il più amaro e inutile), al quarto d’ora della ripresa, sembrava aver chiuso ogni discorso. Sembrava, appunto, visto che tutto quello che è accaduto dal minuto 88 in poi sfugge all’umana comprensione e a ogni tentativo di razionalizzazione.

Le formazioni iniziali e l’approccio

Che per i parigini non sarebbe stata una serata semplice lo si è capito fin dal momento dell’annuncio delle formazioni. Emery sceglieva di rinunciare a Di Maria (l’uomo che aveva spaccato in due la gara d’andata), favorendo un centrocampo più robusto (con Matuidi e Rabiot a guardare le spalle a Verratti), nella speranza di poter scatenare la velocità di Draxler e Lucas Moura sugli esterni in seguito al recupero palla. Un piano saltato praticamente subito: Rabiot e Matuidi, spettacolosi al Parco dei Principi nella lettura di ogni singola linea di passaggio avversaria, hanno recuperato appena quattro palloni in due (la pass accuracy dei padroni di casa si è attestata sull’85%) e Verratti ha effettuato la miseria di 26 tocchi (quasi tutti in orizzontale), costringendo i due esterni offensivi a forzare la giocata e l’uno contro uno partendo da lontano, con il risultato che né Draxler né Lucas Moura sono riusciti a vincere il confronto diretto con il proprio marcatore. L’aspetto più grave, però, è stato l’altezza del baricentro: dimentichi del successo dell’andata (quando la chiave di volta era stato un pressing furioso portato molto alto), i giocatori del Psg hanno scelto fin da subito di rintanarsi negli ultimi trenta metri della propria metà campo, consegnandosi, di fatto, alla squadra di Luis Enrique.

Il grafico posizionale relativo ai 22 in campo chiarisce come il primo errore della squadra di Emery (a destra) sia stato lasciare scientemente campo alla fitta trama di passaggi del Barcellona che, almeno nel primo tempo, ha potuto tenere un baricentro altissimo senza correre pericoli di sorta sulle transizioni
Il grafico posizionale relativo ai 22 in campo chiarisce come il primo errore della squadra di Emery (a destra) sia stato lasciare scientemente campo alla fitta trama di passaggi del Barcellona che, almeno nel primo tempo, ha potuto tenere un baricentro altissimo senza correre pericoli di sorta sulle transizioni

Lo spagnolo, dal canto suo, ha optato per un 3-3-1-3 di ispirazione bielsana in cui Rafinha, solo nominalmente il quarto di difesa a destra nel canonico 4-3-3 alla catalana, diventa praticamente il terzo di un tridente d’attacco completato da Suarez e Neymar, con Messi libero di agire tra le linee, il trio Iniesta-Rakitic-Busquets a cucire il gioco (con un occhio allo spazio potenzialmente attaccabile alle spalle della “Pulga”) e Mascherano in aiuto in fase di costruzione dal basso tra i due centrali difensivi, agendo prevalentemente sul centro-destra.

Fin dall’inizio della partita si capisce quale sarà il copione tattico: a fronte di 11 giocatori del Psg dietro la linea della palla a fare densità, il Barça oppone otto uomini che, in fase di possesso, si dividono tutte le zone di campo della trequarti offensiva. Mascherano è il primo ad avviare l’azione, uno tra Busquets, Iniesta e Rakitic si preoccupa di attaccare lo spazio alle spalle di Messi (mentre gli altri due gestiscono la circolazione del pallone), Neymar e Rafinha stanno altissimi sulla stessa linea di Suarez pronti a sfruttare il cambio di campo e/o a creare la superiorità numerica sugli esterni
Fin dall’inizio della partita si capisce quale sarà il copione tattico: a fronte di 11 giocatori del Psg dietro la linea della palla a fare densità, il Barça oppone otto uomini che, in fase di possesso, si dividono tutte le zone di campo della trequarti offensiva. Mascherano è il primo ad avviare l’azione, uno tra Busquets, Iniesta e Rakitic si preoccupa di attaccare lo spazio alle spalle di Messi (mentre gli altri due gestiscono la circolazione del pallone), Neymar e Rafinha stanno altissimi sulla stessa linea di Suarez pronti a sfruttare il cambio di campo e/o a creare la superiorità numerica sugli esterni

La pentola a pressione e gli errori difensivi

Così facendo i parigini sono finiti fin da subito in quella pentola a pressione (per il 45% del tempo si è giocato solo nell’area di rigore francese) che, soprattutto nelle notti europee, poche volte lascia scampo agli antagonisti del Barcellona. Che, molto spesso, non deve nemmeno fare la fatica di crearsi da solo le occasioni da gol: sono gli altri, irretiti dalla fitta trama di passaggi (il dato sul possesso palla è imbarazzante se si considera che si parla di due squadre teoricamente sullo stesso livello: 71% a 29%) e intimoriti da ambiente e avversari, che finiscono con lo sbagliare anche le giocate più semplici. In tal senso, c’è un dato incredibile e  significativo allo stesso tempo: negli ultimi sette minuti, il Psg è riuscito a completare appena quattro passaggi, tre dei quali effettuati per rimettere la palla in gioco dopo ogni gol subìto. Il resto l’hanno fatto degli errori difensivi al limiti del grossolano. Mentre l’1-0 di Suarez e l’autorete di Kurzawa sono figlie dell’atteggiamento di chi ha praticamente rinunciato a giocare, il 6-1 di Sergi Roberto origina da un’autentica follia concettuale: un tentativo di fuorigioco, su palla scoperta (e con Aurier che si perde totalmente il suo uomo), a venti secondi dalla triplice fischio finale. Ma, a quel punto, il panico si era completamente impossessato degli uomini di Emery, annebbiandone le capacità decisionali e di read and react in realzione a ogni singola situazione di gioco. Anche la più banale e leggibile.  

Rimpianti e “sliding doors”

Come se non bastasse, poi, il Paris Saint-Germain può recriminare per un altro aspetto strettamente collegato al suo modo di approcciare la partita. Sul 3-0, con remuntada già in atto, gli ospiti sembrano scuotersi di colpo dal torpore e dall’indolenza che li aveva caratterizzati fino a quel momento e, complice l’ingresso di Di Maria, cominciano a sfruttare gli spazi che la squadra di Luis Enrique è fatalmente costretta a concedere. Tra il 50’ e il 64’ arrivano, in rapida successione, un palo di Cavani, l’apparentemente salvifico gol del 3-1 e un’ulteriore occasione sprecata dal Matador messo da Draxler a tu per tu con ter Stegen. Il rimpianto maggiore, però, è quanto sprecato dal “Fideo” al minuto 85: Marquinhos intercetta, Verratti indovina l’unico corridoio in verticale della sua gara, trovando il numero 11 in fuga solitaria alle spalle di Mascherano che, però, riesce comunque a trovare il modo di disturbare il connazionale al momento della battuta a rete.

Nessuno lo sa ancora, ma è questa la vera “sliding door” della partita. Eppure quel che poteva essere e non è stato assume contorni ancora più amari: quando ha deciso di giocare (o, almeno, di provare a farlo), il Psg ha avuto le sue occasioni per prendersi ciò che sembrava già suo. Il problema è che lo ha fatto solo per venti minuti dopo il 3-0, scegliendo di speculare negli altri 75: un atteggiamento che al Camp Nou si paga molto più che altrove.

Gli otto minuti di Neymar e la mistica del “tutto è possibile”  

Nel regno dell’imponderabile a fare la differenza sono i geni. E Neymar da Silva Santos Junior è un genio. Se il Barcellona ha realizzato l’impossibile, lo deve agli otto minuti di totale onnipotenza calcistica del brasiliano (comunque tra i migliori in campo già da prima: sei conclusioni, due passaggi chiave, quattro dribbling riusciti, 109 palloni toccati con oltre il 70% di pass accuracy): prima la punizione capolavoro del 4-1, poi la freddezza sul rigore del 5-1, infine la dolcezza di tocco nell’offrire a Sergi Roberto una palla che chiedeva solo di essere sospinta in rete per la vittoria.

Il tutto all’interno di una mistica possibile solo al Camp Nou. Dopo il 3-1, l’impressione era che il Barcellona continuasse a giocare al suo solito ritmo solo per congedarsi degnamente dal suo pubblico, con una mentalità che, a prescindere dal risultato, andrebbe insegnata nelle scuole calcio di tutto il mondo. Non conta il risultato, conta come ci si arriva. E loro ci arrivano sempre allo stesso modo: baricentro alto, possesso palla sincopato prima e accelerato poi negli ultimi venti metri, ricerca dello spazio da attaccare dal lato debole, le intuizioni dei grandi fuoriclasse al servizio di un sistema di gioco portato avanti nel tempo e continuamente aggiornato. Quando si ragiona, si agisce e si gioca così, con una filosofia perennemente uguale a se stessa e irreplicabile in altri contesti e situazioni, diventa quasi normale credere che tutto, ma proprio tutto, sia possibile: compreso superare un turno ad eliminazione diretta recuperando da 4-0 e trasformare il «ci hanno fatto quattro gol? Noi gliene possiamo fare sei» di Luis Enrique nel nuovo manifesto del calcio alla catalana. Quando, invece, è solo la normalità.