Reduce dall’eliminazione alla fase a gironi di Sudafrica 2010, e incapace di spingersi oltre ai quarti di finale all’Europeo successivo, la Francia di Deschamps in scena durante Brasile 2014 era a dir poco sotto pressione. Quella Francia si qualificò da testa di serie in scioltezza al termine della fase a gironi, e altrettanto facilmente staccò il pass per i quarti di finale, dove tuttavia cadde per mano della Germania di Löw poi vincitrice. Nei due anni intercorsi tra il Mondiale brasiliano e l’Europeo del 2016 sono cambiate molte cose, una su tutte: il grande afflusso di talenti home-grown, verificatosi in un lasso di tempo tanto breve, ha conseguito il naturale ricambio generazionale. Il fenomeno, piuttosto evidente anche da una lettura superficiale, è esemplificato da un dettaglio di natura statistica: tra i 23 componenti della rosa che presero parte alla spedizione in Brasile, infatti, appena il 30% fa tutt’ora parte della nazionale. Sono sei i nomi dei superstiti, nessuno esageratamente in là con gli anni e tutti di un certo spessore: Lloris, Varane, Koscielny, Matuidi, Pogba, Griezmann. Un dato, quel 30%, che è l’emblema del processo di ringiovanimento messo silenziosamente in atto dalla Federcalcio e dal ct in primis. Posto che l’innesco del processo stesso è un dato di fatto, l’interrogativo risiede piuttosto nel come. Ovvero: come è stato possibile un tale affluire di giovani talentuosi nel giro di così poco tempo?
NextGen
È chiaro che indicare come nuova generazione esclusivamente i neo-diciottenni di 2014, 2015 e 2016 sarebbe semplicistico, così come è innegabile che proprio intorno a quell’arco temporale si siano verificate le fioriture maggiormente rilevanti. Se volessimo individuare l’epicentro del fenomeno, dovremmo prendere in considerazione l’annata ’93: quella di Pogba, di Umtiti e di Varane, i volti di quella squadra che nell’estate del 2013 ha portato a casa il primo titolo mondiale per la categoria Under 20. A seguire i ’94, con Tolisso, Laporte e Mendy a fare da uomini copertina. Con i classe ’95, che durante il mondiale in Brasile compivano 19 anni, facciamo un passo deciso all’interno del cuore della NextGen: il parigino Rabiot è il fiore all’occhiello della nidiata, Kimpembe segue le sue tracce proteggendogli le spalle nel Psg e Lemar è uno dei tanti nomi nuovi piombati dall’universo Monaco. Proprio nel Principato, e con la spavalderia tattica di Jardim, sono cresciute le pianticelle più robuste e più inedite: oltre al già citato Lemar hanno spiccato il volo Mbappé (che è un ’98, caso più unico che raro) e Bakayoko, seguiti da una carrellata di ’97 (Diallo, Cardona, Touré) che promette di seguire in tempi relativamente brevi la via maestra.
Il secondo gol di Mbappé contro il Borussia Dortmund
Ciò che impreziosisce ulteriormente la bontà del processo di ricambio, poi, è il fatto che esso non si limiti ai confini nazionali. Basti pensare a quanto il ruolo di Kanté sia determinante per il Chelsea, o alla continuità con cui Ousmane Dembélé sta influenzando il gioco del Borussia Dortmund. Quando si parla della crescita del patrimonio sportivo di un Paese bisogna tener conto anche di questo aspetto: è qualcosa che in Francia viene esaltato, al contrario di altre realtà come quella italiana o inglese. Va da sé che molto è da imputare allo scarso appeal della Ligue 1, che porta i giovani più ambiziosi al desiderio di misurarsi con realtà superiori.
I Centres de Formation
Un’impiantistica di livello, e più nel dettaglio la presenza di centri sportivi specificatamente volti alla crescita dei ragazzi, è oggi più che mai necessaria al fine di produrre giocatori pronti e validi allo stesso tempo. In Francia questi complessi sono chiamati Centres de formation (il più famoso è Clairefontain, situato nella regione dell’Ile-de-France e gestito direttamente dalla Federcalcio francese) e rimandano ad un concetto che in realtà è piuttosto diverso dall’idea comune che abbiamo di centro sportivo. Sono strutture adibite alla crescita totale del giovane, che spazia dall’acquisizione dei valori umani più basilari fino alla coltivazione del talento nella sua forma più pura. Sono settori giovanili che comprendono al loro interno scuole vere e proprie, dove il giovane trascorre oltre metà della sua settimana tra banchi e campo: nel weekend (talvolta anche per tre giorni, in base alla casistica) gli è permesso tornare a casa per stare con la famiglia, ma una volta tornato al Centre deve sostenere un ritmo di lavoro intenso e rigido. Spronato, naturalmente, nell’ottica di esprimere tutto il proprio potenziale.
I primissimi Centres, nati negli anni Settanta, non furono visti di buon occhio dai club professionisti: investirvi era molto costoso, e non se ne vedeva una concreta utilità. Con il passare del tempo sono stati resi obbligatori, e quegli stessi club hanno fatto di necessità virtù: oggi esce dai Centres de formation la crème dei talenti francesi, e a partire da appena un lustro fa hanno fatto lo stesso gli attuali youngsters di Deschamps. La credibilità di questo sistema è resa limpida – oltreché dai risultati in termini di capitale umano lanciato – da una vera e propria classificazione dei Centres operata dalla Federazione, che vigila sulla costanza con cui i club si dedicano alla coltivazione delle proprie pianticelle in tutti i loro aspetti. Ogni cinque anni, infatti, la Direzione Tecnica Nazionale della Federcalcio stabilisce quali club abbiano fatto fruttare al meglio le proprie strutture attraverso una serie di parametri. Sulla bilancia delle valutazioni pesano, ad esempio, il numero di giocatori di età inferiore ai 25 anni che hanno firmato un contratto con un club professionistico (francese, o in alternativa militante in uno delle top 10 leghe europee), o quello delle presenze in una competizione professionistica. Ad influenzare il giudizio sui Centres è inoltre la quantità di diplomi ottenuti dai calciatori-studenti, a testimonianza di come il binomio cultura del talento-istruzione non sia scindibile per i canoni transalpini.
In occasione dell’ultimo quinquennio (2010-2015) la classifica stilata dalla Federazione ne contava 35, la maggior parte dei quali appartenenti a club di Ligue 1 e Ligue 2. Ce ne sono poi altri due, situati al di fuori del territorio nazionale: uno nei Caraibi ed uno nell’oceano Indiano. Il titolo di miglior Centre è spettato al Lione di Genesio (con i vari Tolisso, Lacazette, Ferri e Diakhaby), mentre sul podio, rispettivamente in seconda e terza posizione, si sono posizionati Psg e Tolosa. Anche se, stando almeno a quanto visto negli ultimi dodici mesi, il quinto posto del Monaco promette di tramutarsi in un podio decisamente ambizioso già a partire dal prossimo ranking.
Una visita di Thierry Henry al settore giovanile del Monaco
Pur non essendo assolutamente obbligatorio per i talenti francesi il passaggio nei Centres, la stragrande maggioranza di loro annovera nel proprio recente passato un’esperienza in una delle strutture, disseminate lungo tutto il territorio nazionale; aspetto che la dice lunga su quanto la realtà dei Centres si sia solidificata con il tempo. Solitamente sono le famiglie a scegliere per i ragazzi che hanno ricevuto più proposte, e il primo fattore preso in considerazione consiste nella distanza da casa. Si tratta di un punto molto discusso, perché se da un lato è vero che l’incapacità di staccarsi dal nucleo familiare rischia di pregiudicare la maturità del ragazzo, dall’altro è altrettanto vero che i numeri parlano chiaro: la percentuale di giovani che fallisce dopo essersi trasferita a svariati chilometri da casa oltrepassa addirittura attorno al 90%. Per quanto riguarda le dinamiche di ingresso all’interno di un Centre, bisogna tenere in considerazione il lavoro di scouting delle singole società: tutti i ragazzi che vi entrano sono stati accuratamente osservati e selezionati nei mesi precedenti, e la politica delle detections (i provini aperti) è assai poco diffusa.
Le regioni più ricche di talenti e maggiormente scandagliate dagli scout sono le zone nei dintorni di Marsiglia e l’Ile-de-France; la stessa del centro federale di Clairefontaine – dove è recentemente cresciuto Mbappé, e dove in passato hanno spiccato il volo Henry, Anelka e Matuidi – che si estende per oltre 56 ettari in un complesso che è una vera e propria ode alla modernità. Secondo l’Institut Numérique, fino a qualche anno fa la percentuale di francesi usciti dai Centres e divenuti professionisti si aggirava attorno al 20% (la metà dei quali in Ligue 1), e ad oggi non dovrebbe discostarvisi più di tanto. A dare manforte a questo dato c’è poi il resoconto del rapporto Besson, che già nel lontano 2008 dava i primi indizi del successo della nuova linea del sistema-calcio francese: la Ligue 1 era (ed è, seppur in costante duello con la Bundesliga) il campionato con meno stranieri in proporzione tra i top 5 in Europa.
La vita nei Centres
Chi vive a stretto contatto con questo tipo di realtà le dà, nel corso della descrizione, una sfumatura al limite del totalitaristico: i giovani dai 10 ai 18 anni circa che vivono all’interno dei Centres sono trattati come piccoli professionisti, e da loro si esige un atteggiamento altrettanto professionale. Basti pensare che una delle usanze più caratteristiche osservate dai ragazzi è la stretta di mano, o comunque il saluto, nei confronti di chiunque incroci la loro strada all’interno della struttura. Per quanto riguarda il lavoro sul campo, invece, la tendenza al miglioramento della tecnica individuale è solita prevaricare sul culto della vittoria. Il maggior aspetto negativo della politica del Centre è probabilmente rappresentato dalla maniacale cura della professionalità imposta all’allievo. L’applicazione di questa si snoda in due punti: da un lato c’è il rischio che una volta fuori dal Centre il giovane si perda in un mondo ben differente; dall’altro che reagisca negativamente alle dinamiche pensate per la sua formazione, che ne sia ossessionato. È questo il caso di de Preville, attaccante del Lilla che un anno e mezzo fa descrisse senza mezzi termini il suo passato al Centre: «Lasciare il centro di formazione mi ha permesso di vivere la mia giovinezza, non mi sono mai sentito adatto a quel tipo di vita», sostenne durante un’intervista. Casi specifici a parte, comunque, i nomi saltati fuori recentemente giustificano in pieno la linea gestionale adottata.