Il tempo è una sostanza fluida per sua natura, ma a certe latitudini si sfalda del tutto e finisce per confondersi con l’aria e la materia, sicché i calendari appaiono oziosi, gli equinozi superflui. La convenzione per cui ieri era inverno e oggi è primavera semplicemente non regge, perché quassù è più evidente che le stagioni non procedono a scatti, ma in analogico. Assumono un numero infinito di valori lungo la curva che tracciano col loro scorrere. Ecco allora che in posti come Húsavík, Islanda nord-orientale, 2200 abitanti, una trentina di chilometri sotto il Circolo Polare Artico, è necessario un segnale forte per sospendere la quiete invernale e introdurre i mesi dei turisti e dell’iperattività. Serve qualcosa che coinvolga i sensi e riattivi le membra. Oltre all’avvistamento delle balene di ritorno dai Caraibi, esiste un altro stimolo che suggerisca inequivocabile la transizione. Succede quando ai bordi del völlur – il campo sportivo cittadino – due dozzine di pick-up cominciano a suonare il clacson a distesa: significa che il Völsungur ha fatto gol.
«Il nostro pubblico festeggia così», spiega Heiðar Halldórsson, uno dei dirigenti della polisportiva. Il Völsungur prende il nome da un predatore mitologico, simile al falco, mentre la Saga dei Volsunghi è sulla responsabilità: quella maschile di ricompensare gli amici, quella femminile di incitare alla vendetta. «Il fatto è che il campo del Völsungur non ha posti a sedere e quindi, soprattutto a inizio stagione, i tifosi preferiscono guardarsi la partita al caldo, nelle loro auto». Difatti inizio stagione vuol dire aprile per le coppe e maggio per i campionati: sono mesi in cui in Islanda di tanto in tanto è possibile che la primavera assuma i valori dell’inverno pieno. Heiðar ricorda che la prima di campionato dell’anno scorso fu accolta da una nevicata talmente abbondante che l’impianto di riscaldamento che scorre sotto il campo Völsungur non riuscì a sciogliere lo strato bianco. «Ci sono 40 km di tubature sotto il terreno di gioco», dice. «Dal 2012 usiamo regolarmente l’acqua delle fonti geotermiche (Húsavík sorge esattamente lungo la spaccatura tra la placca nordamericana e quella eurasiatica, in una delle zone geologicamente più attive del Paese, nda). Si tratta di un getto di oltre 30 litri al secondo, ma quella volta non ci fu nulla da fare».
Un campo riscaldato significa potersi allenare tutto l’anno all’aperto. È un concetto estremamente diverso dall’allenarsi dentro campi indoor, la cui crescente diffusione è considerata uno dei segreti dell’ascesa del calcio «I campi al chiuso ci hanno aiutato molto a crescere come movimento», sostiene Jóhann Gunnarsson, il capo allenatore del Völsungur. «Tuttavia io credo che allenarsi fuori renda i nostri calciatori più tenaci, più pronti alle condizioni che realisticamente si troveranno ad affrontare. Noi ci alleniamo anche quando la temperatura è -10, se il vento non è eccessivo. Solo per i bambini più piccoli usiamo standard più clementi. Ma fino ai -5 ci si allena tutti».
Jóhann, 38 anni, è tornato a Húsavík dopo alcune esperienze in giro per l’isola. Come la maggioranza degli allenatori islandesi, ha studiato calcio tra Germania e Inghilterra e possiede un patentino Uefa A. Da quando è arrivato, lo scorso autunno, le cose al Völsungur sono cambiate. Adesso in squadra ci sono solo ragazzi nati e cresciuti in città, il rapporto con le scuole si è intensificato, l’età media è stata abbattuta. E la squadra, terza divisione nazionale, ha vinto le prime tre partite della stagione. Atli Barkarson, nato nel 2001, è l’esterno sinistro titolare, nonché uno dei più promettenti giovani in rosa: Norwich e Psv gli hanno offerto un provino, lui dice di ispirarsi a Özil. I due giocatori più esperti della squadra sono invece tornati a indossare la maglia verde esclusivamente per via di Jóhann. «È uno di quegli allenatori che fanno in modo che tu dia tutto quello che hai per lui», ammette Guðmundur Steingrímsson, 31 anni, imbianchino, fonte di ispirazione Paul Scholes. Nello spregiudicato 4-1-4-1 di mister Gunnarsson, è il tuttofare davanti alla difesa. «Io avevo smesso di giocare 9 anni fa, ma quando Jóhann mi ha chiamato non ho potuto fare altro che rimettermi i guantoni», gli fa eco Alexander Jónasson, 26 anni, carpentiere, fonte di ispirazione Manuel Neuer. Ha ripreso ad allenarsi a novembre, adesso è già il portiere titolare.
Ascoltandolo argomentare la propria idea di calcio, non è difficile comprendere perché Jóhann faccia così facilmente proseliti. «Mi piace il gioco offensivo, pochi tocchi e molto pressing, gli spazi creati attraverso il movimento. La mia missione è insegnare ai ragazzi il coraggio di tenere la palla. Qui da noi si era soliti urlare “Passa!” ogni volta che un giocatore riceveva il pallone; in caso di corner a favore si esultava come a un gol. Invece io dico che per esempio bisogna allenarsi di più negli uno contro uno». Non esiste una parola per riassumere tutto questo, ma eljusemi si avvicina abbastanza all’obiettivo. «Eljusemi è un misto di dedizione, pazienza e lavoro duro. Se impari a gestire le situazioni difficili, diventi capaci di adattarti a tutto. Prendi la nostra nazionale, ad esempio: ottiene buoni risultati perché giocatori come Gylfi (Sigurðsson, nda) sono fenomenali ad adattarsi a un contesto che non è il loro prediletto. In questo senso essere una squadra noiosa, come può essere definita l’Islanda, è una scelta di consapevolezza e di coraggio. Attenzione però: noi non insegniamo ai giovani calciatori a giocare nel modo in cui gioca la Nazionale, eh».
Jóhann sa che gli Europei del 2016 rappresentano un picco probabilmente irripetibile per la sua Nazionale, ma scommette sul fatto che il mondo del pallone non si sbarazzerà degli islandesi troppo in fretta (l’Islanda è attualmente seconda nel suo girone di qualificazione ai Mondiali del 2018): «Sempre più bambini si presentano al campo indossando la maglia di un giocatore della Nazionale, li conoscono di più e meglio. E la cosa impareggiabile di un posto piccolo come l’Islanda è che i tuoi idoli sono fisicamente vicini a te, puoi guardare con i tuoi occhi i loro passi verso il successo. È anche per questo che nella fascia tra i 6 e 16 anni d’età siamo estremamente competitivi, al livello delle grandi nazioni europee. Quello che ci tocca fare ora è lavorare sulla fascia 16-20, quella è più critica per noi, perché a quell’età chi ha talento va all’estero, mentre chi resta in Islanda rischia di adagiarsi, appiattendosi al livello del campionato locale».
Tutt’altro che mainstream anche il punto di vista di Jóhann sulla gestione caratteriale dei giocatori: «Tradizionalmente la scuola danese, quella un po’ più vicina a noi, insegna a inscatolare l’indole dei calciatori, come dire, un po’ più piantagrane. Invece c’è un gran bisogno di spiriti caldi come Aron (Gunnarsson, il capitano della Nazionale, nda). Ecco, dobbiamo lavorare anche per trovare la giusta dimensione per ragazzi così». All’obiezione che vorrebbe la sua to-do list un po’ troppo intasata, Jóhann ribatte tirando in causa la variabile più dominante d’Islanda: «Il tempo. La pre-season qui dura sei mesi, da inizio ottobre a fine marzo. In inverno c’è tempo a sufficienza per lavorare su tutti gli aspetti del gioco. Certo, dall’altro lato c’è da dire che un’attesa così lunga fa sì che quando la stagione inizia tutti siano su di giri. Tutti vogliono i risultati. Sembrano dire: Beh, vi siete allenati tanto, e ora? È incredibile la pressione che il calcio può generare, anche in una realtà piccola come Húsavík».
Húsavík è la città di Árnor Gudjohnsen, il padre di Eidur. A Húsavík sono nati Kolbeinn Sigþórsson, l’autore del gol-qualificazione contro l’Inghilterra agli scorsi Europei, e Hallgrímur Jónasson, difensore del Lyngby e della nazionale. Diversi protagonisti della Pepsideildin (la Serie A islandese) hanno esordito nel Völsungur. «Noi siamo una società conosciuta per la capacità di tirar fuori buoni giocatori. In Islanda si usa dire che a Húsavík ci dev’essere qualcosa nell’acqua, vista la quantità di calciatori di livello che esportiamo». Chiedo a Jóhann se tutto questo lavorare per gli altri, questo sgobbare per formare atleti che finiscono quasi sempre per gravitare – come tutta l’Islanda che conta – nell’area di Reykjavík, rafforzandone scuole e squadre di calcio, sia sufficiente a ripagare le ambizioni di un allenatore giovane e preparato come lui. «Guarda che io innanzitutto voglio vincere il campionato (sorride, nda). Però sì, mi rende felice il fatto di poter creare nuove opportunità per i ragazzi di qui».
In Islanda l’inverno dell’isolamento e l’inverno della povertà sono finiti da un pezzo. Tuttavia l’inverno della perifericità, che è diletto e insieme condanna, è nel pieno delle forze. L’Islanda è piena di villaggi troppo piccoli per attrarre, troppo lontani da tutto il resto per contare. Sono posti tipicamente buoni per passarci l’infanzia, o una vacanza; per lavorarci una stagione. Sono luoghi in cui i consigli comunali adempiono alla propria responsabilità nei confronti dei giovani studiando strategie per trattenerli in zona, o per farli tornare, un giorno. Húsavík avrebbe un nome ideale per rimanere: vuol dire “baia delle case”, le abitazioni del golfo essendo le prime di cui si abbia notizia in tutta l’isola. Lungo il litorale scolpito dalle eruzioni e dalle onde, stanno costruendo una gigantesca fabbrica per la produzione di silicio. Per creare nuove opportunità, dicono. Vorrebbero fare quello che fa lo sport. Ad oggi non ci sono grossi dubbi su quale canale prometta di più.
Lorenzo Ciancio, trentenne di Ascoli, allena la squadra femminile di pallavolo del Völsungur, serie A, e ha le idee chiare: «La grande differenza tra l’Islanda e, per esempio, l’Italia sta proprio nelle piccole realtà. Perché qui a fronte di paesi di dimensioni ridotte ci sono strutture sportive incredibili, che in Italia non sfigurerebbero in città di 50-100mila abitanti». Tutto questo si traduce in una quantità spropositata di iscritti ai corsi: «I numeri crescono anno dopo anno. Solo la pallavolo, e solo a livello under 18, quest’anno ha superato i 60 iscritti». Il calcio, saldamente il primo sport cittadino, è oltre quota 200. «L’agonismo, come sempre, inizia solo da un certo punto in poi», conclude Lorenzo. «Prima di allora fare sport è principalmente il miglior modo per stare a contatto con altre persone della propria età. Forse in Islanda questo è più vero che altrove, specie d’inverno».
Il Völsungur ha vinto la quarta partita su quattro di quest’inizio di stagione. Nell’uggia di un pomeriggio di aprile i ragazzi in verde hanno interpretato alla perfezione i precetti che il loro allenatore mi aveva snocciolato intorno a un tavolo e un thermos di caffè. Nonostante l’assenza di cinque tra i migliori elementi della squadra, trattenuti nella capitale da impegni universitari, l’undici di mister Jónsson ha fatto strombazzare per tre volte le auto in moto ai bordi del campo: eljusemi e 3-1. Guðmundur, l’esperto, è stato il migliore in campo. Atli, il giovane mancino, ha segnato il secondo gol, un bel diagonale, e ha pensato che forse resterà il suo ultimo con quella maglia. La settimana prossima volerà in Inghilterra, poi in Olanda, se vuole fare il calciatore per davvero non può restare a Húsavík. Ha detto che sa già che gli mancherà la famiglia, certo, ma anche lo staff del Völsungur, perché qui tutti vogliono aiutarti a diventare un giocatore migliore. Hanno quell’obiettivo, mica altri. Intanto, sui monti dall’altra parte della baia, il sole si è mangiato un altro pezzo di neve. Da sotto emerge il nero delle rocce, e avanza. La primavera non tarderà ad arrivare.