Nord di Liverpool, Bramley Moore Dock. Per capire in che direzione sta andando il futuro calcistico dell’Everton bisogna partire da qui. Dal sito individuato per la costruzione del nuovo stadio. Siamo nel distretto di Vauxhall, Regent Road costeggia tutta la zona portuale una volta superato il Kingsway tunnel, utilizzato da chi vuol passare sulla sponda opposta del fiume Mersey. L’autorizzazione del piano di finanziamento è la prima pietra virtuale posta dal consiglio comunale guidato da Joe Anderson, sindaco laburista della città ed evertonian per eccellenza. Il costo dell’opera è stimato in 300 milioni di sterline per un impianto di quasi 50 mila posti e il rinnovamento di un’area piuttosto desolata. Quasi cupa, frequentata maggiormente da chi lavora nei cantieri navali e poco collegata dal centro cittadino distante 3 chilometri. La stessa distanza che separerà il nuovo stadio dall’amato Goodison Park, storico impianto dei Blues da 125 anni incastonato tra le case nel quartiere di Walton, a ridosso di Stanley Park. Una volta dimostrata la necessaria copertura finanziaria, la macchina burocratica inglese è piuttosto agile, quindi l’Everton sta già lavorando al progetto definitivo. L’architetto incaricato è l’americano Dan Meis, che ha realizzato svariate arene sportive negli Stati Uniti, in Giappone e in Cina, mentre in Italia è stato coinvolto per la costruzione dello stadio della Roma e la ristrutturazione del Dall’Ara di Bologna.
Sulla cosiddetta via dei dock, c’è un solo storico pub. Situato esattamente di fronte al Bramley Moore, porta lo stesso nome del politico inglese dell’Ottocento, ricco presidente della Mersey Docks and Harbour Board. Durante la settimana offre ristoro e soprattutto birra ai lavoratori una volta finito il turno, non è difficile individuarli se addosso vestono ancora il classico giubbotto giallo catarifrangente. Molto più ardua è capire il loro dialetto Scouse, come quello di Scottie per esempio, nonostante si sforzi il più possibile: «L’area individuata dall’Everton richiederà un lavoro enorme, il bacino sopra il quale sorgerà lo stadio andrà drenato e poi riempito di materiali impermeabili. Bisognerà anche decontaminare tutta l’area, qui fino alla fine degli anni Ottanta è stata lavorata una grossa quantità di carbone. Ma se il club metterà tutti quei soldi che ha promesso non sarà un problema». Il tema della disponibilità economica ultimamente ricorre spesso tra i supporter dell’Everton, a maggior ragione ora che è stato svelato questo progetto di dimensioni notevoli un anno dopo l’arrivo in società del miliardario Farhad Moshiri, azionista di maggioranza iraniano che detiene il 49,9% delle quote del club. Dopo aver fallito l’assalto all’Arsenal assieme al magnate russo Alisher Usmanov, Moshiri ha lasciato la fetta detenuta nei Gunners e ha investito 200 milioni di sterline nell’Everton. La presidenza è rimasta però al produttore teatrale britannico Bill Kenwright, presente nel board societario dal 1989, che ha rilanciato: «Esattamente trent’anni fa abbiamo vinto il nostro ultimo titolo in Inghilterra, davanti ai rivali del Liverpool. È arrivata l’ora di tornare competitivi, presto lo saremo anche in Europa».
Sulla sponda Blues della Mersey l’ultimo anno ha portato tanti cambiamenti, a partire proprio dall’assetto societario. Dall’estate scorsa il progetto ha coinvolto anche Steve Walsh, nuovo Director of Football dopo il miracolo compiuto a Leicester nella costruzione della squadra poi diventata incredibilmente campione. L’ex scout del Chelsea, personaggio navigato del calcio inglese, ha imposto subito un cambio di direzione nella gestione tecnica, interrompendo dopo 3 anni il rapporto con Roberto Martinez e ingaggiando l’olandese Ronald Koeman. L’unico vero sacrificio è stato quello del difensore John Stones, che unito ai nuovi capitali ha permesso una campagna acquisti da 85 milioni di euro nelle ultime due sessioni di mercato. Risultato? Settimo posto in campionato e due precoci eliminazioni al terzo turno, sia in Coppa di Lega che in Fa Cup. L’Everton l’anno prossimo ripartirà dai palcoscenici europei, affrontando a fine luglio il terzo turno preliminare di Europa League. «Per via degli alti e bassi la stagione non è del tutto soddisfacente, ma è un buon punto di ripartenza» è il parere di Peter Reid, ex centrocampista dei Toffees che a metà anni Ottanta ha segnato l’ultima epoca vincente della squadra anche fuori dai confini nazionali. «All’Everton è in atto una rivoluzione, i risultati non arriveranno subito, ma è comprensibile l’umore di una tifoseria che non vince un trofeo dal 1995. Intanto siamo alle spalle di tutte quelle squadre candidate a inizio stagione a vincere il titolo, mi aspetto buone novità dal futuro perché c’è una società disposta a spendere e un allenatore con delle ottime idee di gioco. Certo, trattenere un capocannoniere come Romelu Lukaku è imprescindibile per tornare in Champions League». Competizione da cui i Blues mancano dal 2005, quando furono estromessi ai preliminari dal Villarreal.
«Non giocatori nuovi, quello che ora serve all’Everton è un progetto a lunga durata» ha affermato Koeman dopo l’ultima chiusura del mercato invernale. Il riferimento era al profondo rinnovamento messo in atto dall’ex tecnico del Southampton a partire dai giovani, proprio come fatto con i Saints e ancora prima all’Ajax. Nel sud dell’Inghilterra aveva dato fiducia a ragazzi come Targett, Bertrand, Ward-Prowse e Clyne, mentre in Olanda sposò subito il talento di gente come Ibrahimovic, Sneijder e Van der Vaart. Invece con la maglia dei Toffeeman la linea verde è stata rilanciata partendo da Davies (diciottenne prodotto dell’Academy), Holgate e Calvert-Lewis (ventenni arrivati dal Barnsley e dallo Sheffield United). Ma soprattutto c’è stato l’investimento per Ademola Lookman, esterno d’attacco classe ‘97 prelevato a gennaio dal Charlton per 11 milioni di sterline. Nato a Londra da genitori nigeriani, la sua storia ricorda molto quella di Dele Alli. Peter Reid non ha dubbi: «Assomiglia a Sterling, è uno dei più forti dell’Under 20 inglese e non è un caso che abbia già segnato il suo primo gol in Premier League. Spero l’Everton lo abbia preso per farlo giocare con continuità, è un esterno d’attacco vero in un punto del campo in cui sono stati sperimentati fin troppi giocatori. Penso a Bolasie, Lennon, Valencia, Deulofeu e Mirallas. Invece a centrocampo Davies è la pedina ideale, il box to box che mancava. In generale Koeman sta creando quel giusto mix tra i giovani e i più esperti come Williams, Barry, McCarthy e Baines». Inoltre ottimi riscontri arrivano dal settore giovanile, di recente la formazione Under 23, guidata da David Unsworth, ha conquistato il campionato di categoria davanti al Manchester City vincendo 15 delle 22 partite stagionali.
Durante la prima annata di Koeman sono stati due i punti di forza: da un lato il formidabile rendimento interno (se si giocasse solo in casa l’Everton sarebbe terzo a questo punto del campionato dietro a Chelsea e Tottenham), dall’altro la miglior stagione di sempre di Lukaku, goleador del campionato esaltato dal gioco imposto dal manager olandese. «Ma non c’è solo lui, l’anno prossimo dovremo migliorare anche l’apporto degli altri reparti alla fase offensiva» ha affermato Koeman in una recente intervista al Daily Mirror. Del resto il suo miglior ricordo da difensore resta legato a un gol che ha deciso la finale di Coppa Campioni: 25 anni fa a Wembley, la punizione vincente contro la Sampdoria da giocatore del Barcellona. Nell’Everton di quest’anno, quanto ad apporto in zona gol, alle spalle di Lukaku c’è stato letteralmente il vuoto, tanto che il secondo marcatore della squadra è Barkley con 6 gol e subito dietro gli autogol a favore, ben 4. Il grande ruolino di marcia casalingo ha trasformato Goodison Park in un vero e proprio fortino, il nuovo progetto sembra convincere la piazza dopo l’amore svanito con Roberto Martinez, esonerato anzitempo dai tifosi durante le ultime partite della passata stagione che condussero l’Everton fuori dalla top ten in Premier. Ma decisive furono anche le semifinali perse in entrambe le coppe nazionali. «Parlo con tantissimi tifosi e c’è grande entusiasmo per il lavoro di Koeman» dice Dave, che tutti i giorni si occupa della St. Luke’s Church, la chiesa anglicana preferita dai Toffees, collocata in un angolo dello stadio, esattamente tra la Gwladys Street End e Goodison Road.
Dave prima di ogni partita apre le porte della chiesa ai tifosi. Si può pregare. Ma anche prendere un the e parlare della propria squadra. L’importante è che la Premier League non fissi partite la domenica all’ora di pranzo, l’Everton lo ha richiesto espressamente per non interferire con le funzioni religiose e mantenere ottimi rapporti con i “vicini”. «È come se fossimo parte integrante dello stadio – conferma Dave -. Ho sentito i supporter parlar bene del nuovo progetto societario e Koeman non ha paura nel lanciare nuovi ragazzi. Abbiamo perso il derby ad Anfield, ma i giovani per crescere devono sbagliare e quel giorno sono addirittura partiti titolari Holgate, Pennington, Davies e Calvert-Lewin. Per la prossima stagione, con un paio di buoni rinforzi in estate, diremo la nostra fino alla fine». I tifosi ammettono il dolore nel dover abbandonare il vecchio stadio, ma allo stesso tempo questa è vista come tappa di passaggio verso un futuro migliore. Come dimostrano i tristi traslochi del West Ham e, a breve, del Tottenham. In riva alla Mersey inevitabilmente è derby tutto l’anno, la frecciata degli evertonian è automatica anche sull’argomento stadio: «Il Liverpool sono vent’anni che espropria i nostri concittadini. Compra le case alle spalle della Main Stand per ampliarla. L’Everton non farebbe mai una cosa del genere perché rispetta la sua comunità». È sempre rossi contro blu, la rivalità di tutta Liverpool.