Il 18 Settembre 1961 a Città del Messico ha visto la luce la Concacaf. Il massimo organismo calcistico dell’America centro-settentrionale è stato il prodotto di una fusione: c’era la necessità di porre fine all’ormai anacronistico bipartitismo del sistema Nafc-Cccf per riunire sotto un unico ombrello tutto il calcio giocato in un perimetro immaginario compreso tra l’Alaska e l’istmo di Darién, saldando i due tronconi in cui era spezzato il calcio in quello spicchio di Mondo fino a quel momento. Il primo campionato tra Nazionali sotto l’egida della nuova confederazione si è giocato due anni più tardi.
Basta scorrere l’albo d’oro per capire come Messico e Stati Uniti si siano trovati a proprio agio nel recitare la parte dei leoni, rimpinzando la bacheca di trofei e attirandosi le invidie di tutta la periferia calcistica mesoamericana: su ventitré edizioni complessive, tra campionato Concacaf e Gold Cup, la Tricolor ha trionfato dieci volte, mentre lo Usmnt è fermo a cinque successi. Come unica alternativa credibile al duopolio Messico-Usa si è affermato il Costa Rica, trionfatore nell’edizione inaugurale disputata in El Salvador nel 1963. Ma non sono mancati anche i colpi di scena. Nel 1973 il torneo è stato organizzato per la prima volta in un Paese caraibico, nella Haiti insanguinata dalla brutale dittatura di Papa Doc Duvalier: oltre alla corona continentale in palio c’era anche un biglietto per la successiva edizione del Mondiale.
Esoterismo haitiano
Così come quella degli altri stati caraibici, la storia di Haiti è la storia di un ibridismo interetnico e multiculturale che trae origine dalla deportazione degli schiavi neri dall’Africa e si completa di ulteriori tessere nel periodo dei conquistadores: da tutto questo è scaturito quell’articolato sincretismo in grado di orientare la bussola della cultura popolare verso concetti antiempirici come la superstizione e la stregoneria. All’occorrenza gli haitiani si sono serviti dell’esoterismo senza farsi troppe remore, così come si dice abbiano fatto durante il torneo Concacaf del 1973, per ingraziarsi i poteri oscuri e consentire a Les Granadiers di salire sul tetto del Centro-nord America: dopotutto bisognava tentarle tutte pur di mettere i bastoni tra le ruote a un Messico campione uscente e apparentemente inarrestabile, che sembrava aver già prenotato un posto sull’aereo per la Germania Ovest. La Nazionale azteca arrivò sull’isola dopo aver fatto un breve scalo a Miami e ad accoglierla trovò un clima da tregenda. Il repertorio c’era tutto: insulti a volontà, pugni picchiettanti sulle vetrate del bus e stramazzi sotto l’albergo al fine di disturbare il riposo dei tricolores. D’altronde se l’erano cercata quando un famoso quotidiano messicano aveva utilizzato parole poco rispettose per documentare quella che era la realtà haitiana. Qualcuno ad Haiti era venuto a conoscenza della cosa e aveva fatto tradurre l’articolo, assicurandosi di tappezzare di copie i muri di ogni singolo angolo dell’isola: la reazione della gente, ferita nell’orgoglio, fu tanto spontanea quanto tumultuosa. Che si creda o meno alla tesi dei riti vudù, durante quella spedizione qualcuno sembrava avercela davvero con i calciatori del Messico, letteralmente flagellato da un interminabile corteo di infortuni: il più bizzarro fu quello occorso al portiere Ignacio Calderón, infortunatosi a un dito a causa dello scoppio di una lattina di Coca Cola mentre stava cercando di aprirla. Alla fine, tra sospetti di doping, magia nera e favori arbitrali – in una partita furono annullate quattro reti regolari a Trinidad e Tobago – Haiti vinse il torneo e andò davvero al Mondiale, dove Sanon avrebbe interrotto l’imbattibilità di Zoff e fatto correre un brivido gelato lungo la schiena di tutti gli italiani.
Centro America vs Messico
Prima della kermesse Guillermo Cañedo, una delle figure più iconiche del dirigenzialismo calcistico messicano, aveva inchiodato la Tricolor alle sue responsabilità, ovvero quelle di trionfare in carrozza, quasi fosse un diritto divino: «Il calcio messicano è superiore a quello praticato in America Centrale e nei Caraibi. A prescindere da tutto, il Messico vincerà e si qualificherà al Mondiale». In un’altra occasione, invece, Fernando Marcos, uno che ha ricoperto ogni tipo di ruolo nell’universo calcistico azteca, e che aveva un gusto per la polemica mica da ridere, tanto da incendiare con una sua irriverente dichiarazione la rivalità tra Chivas Guadalajara e Club America, vuotò il sacco su ciò che pensava riguardo al livello calcistico mesoamericano. Non furono belle parole: «In Centroamerica giocano con palloni quadrati», sentenziò fornendo un’immagine abbastanza forte per sottolineare il solco tecnico che separava il Messico da tutto il resto dell’America centrale calcistica. Può sembrare paradossale, ma questa convinzione che sfocia in senso di onnipotenza, riscontrabile nella Tri quando si tratta di gareggiare in ambito Concacaf, prende le mosse dall’esatta coscienza dei propri limiti e dalla piena consapevolezza di quelli dei vicini di casa: per comparazione, i messicani si sentono forti perché sanno di avere rivali profondamente più deboli.
Le tre Gold Cup sollevate al cielo consecutivamente negli anni 90, nonostante l’affacciarsi sempre più prepotente degli Stati Uniti sul palcoscenico continentale, non hanno certamente contribuito a far risultare il Messico più simpatico: nel 1993, durante le eliminatorie iridate in cui la Tricolor tornava a concorrere per un posto al Mondiale dopo il ban ricevuto in seguito allo scandalo dei Cachirules, dalle tribune del Volcan di Cuscatlan, in El Salvador, si levò per la prima volta il coro «Al Mundial no vamos, però a Mexico le ganamos», destinato a mettere d’accordo tutti gli antimessicani del Centro America. La cosa, di per sé molto significativa, è diventata un autentico fenomeno popolare: niente poteva dare una soddisfazione simile a quella generata da una vittoria sul gigante messicano. Per informazioni chiedere al Canada, capace di rompere il monopolio nella prima edizione del nuovo millennio grazie alle reti dell’attaccante di origini italiane Carlo Corazzin, capocannoniere di quel torneo con quattro reti e decisivo nella finalissima con la Colombia.
Creolité
Erano quelli gli anni in cui la Concacaf distribuiva wild card a destra e a manca, senza curarsi troppo della geografia: se la presenza di alcune sudamericane come Brasile, Colombia, Ecuador e Perù poteva non essere così straniante, le intrusioni di Corea del Sud e Sudafrica hanno fatto raggiungere livelli di nonsense probabilmente irripetibili. Anche perché da quel momento il governo del calcio nord-centro americano ha assunto un atteggiamento protezionista, sbarrando la porta ad ulteriori contaminazioni extracontinentali.
A partire dal 1991, quando ha assunto la denominazione attuale e apportato diverse modifiche alla struttura, il torneo ha piantato le tende in maniera stabile negli Stati Uniti (salvo rare eccezioni) e si è ingrandito strada facendo, diventando sempre meno elitario. È stata aperta così la strada alle incursioni delle piccole selezioni carabiche, magari nemmeno affiliate alla Fifa, ma fiere ambasciatrici di quella creolità teorizzata dagli scrittori martinicani Jean Bernabé, Patrick Chamoiseau e Raphaël Confiant nel saggio Éloge de la Créolité pubblicato a Parigi nel 1989: dopo le prime volte di Martinica, Saint Vincent e Grenadine, Granada e Guadalupe, quest’anno toccherà a Curaçao e Guyana Francese aggiungere con il loro debutto un pizzico di esotismo alla manifestazione. D’altronde la continua espansione del format è proprio l’obiettivo perseguito dalla nouvelle vague politica della confederazione: «Il nostro obiettivo è continuare ad ampliare la partecipazione dei nostri membri», ha dichiarato Victor Montagliani, il canadese alla guida della Concacaf dal 2016, dopo gli scandali di corruzione che hanno investito i precedenti vertici, durante la cerimonia del sorteggio dei gruppi avvenuta in modo più trasparente del solito alla presenza, tra gli altri, del presidente dei San Francisco 49ers, Al Guido, e di quello dei San José Earthquakes, Dave Kaval, oltre alla leggenda del calcio statunitense Cobi Jones.
Malouda, Kluivert, l’Europa
Ultimamente la Guyana Francese, famosa più che altro per il leggendario penitenziario della Caienna in cui venne rinchiuso Albert Dreyfus, è balzata all’onore delle cronache per tre cose: l’ondata senza precedenti di proteste popolari che si sono levate nel Paese; la gaffe geografica commessa da Emmanuel Macron che, chiamato a commentare la delicata situazione del dipartimento d’Oltremare, si è riferito alla Guyana come a un’isola; e la storica qualificazione della Nazionale alla Gold Cup. Il fil rouge steso sull’Atlantico in epoca coloniale ha avuto riverberi pure sul calcio. France Football ha provato a immaginare una formazione composta da francesi nati nei dipartimenti d’Oltremare: a rappresentare la Guyana c’erano Bernard Lama, portiere campione del Mondo nel 1998, e Florent Malouda. L’ala dei Delhi Dynamos, vicecampione del Mondo con i Bleus nel 2006, ha deciso di sposare la causa dei Yana Doko, così come sono conosciuti i calciatori della Guyana Francese, e partecipare con loro alla Gold Cup: lo può fare dal momento che la federazione guyanese non è affiliata alla Fifa. A lui spetterà il compito di rifornire Sloan Privat, l’attaccante del Guingamp eroe della qualificazione con una tripletta rifilata ad Haiti nella gara decisiva vinta per cinque a due lo scorso novembre: la Guyana è inserita nel gruppo A assieme a Canada, Honduras e Costa Rica.
In quello che ha tutte le fattezze tipiche di un “gruppo della morte”, invece, si trova Curaçao, che pure sembra poter nutrire qualche ambizione in più rispetto alla Guyana. Il costante e sorprendente progresso calcistico dei biancoblu ha un nome ben preciso: Patrick Kluivert. Quando nel 2015, in maniera piuttosto controintuitiva, ha scelto di sedersi sulla panchina di Curaçao, l’olandese di origini surinamensi si è messo a lavorare su due fronti: parallelamente a un’incessante opera di convincimento che ha portato giocatori di rango come Cuco Martina del Southampton, l’attuale capitano, e Leandro Bacuna dell’Aston Villa a rappresentare la loro terra d’origine, Kluivert ha rivoluzionato la mentalità della squadra , impiantando i semi di un calcio propositivo e spingendo gradualmente i calciatori a mettere in soffitta quell’approccio di tipo difensivistico-speculativo che sembrava essere l’unico piano possibile per affrontare avversari più quotati. Quando Kluivert ha salutato tutti, scegliendo di tornare in Europa per allenare la selezione Under 19 dell’Ajax, il testimone è finito comunque in buone mani: il suo ex assistente Remko Bicentini, infatti, ha proseguito nel solco indicato dall’olandese, portando Curaçao a vincere due settimane fa la Coppa dei Caraibi e ad arrampicarsi fino al sessantottesimo gradino del ranking Fifa.
Mentre l’ossatura della Guyana è composta da giocatori militanti nelle varie categorie del calcio francese, per semplici ragioni di contiguità culturale il serbatoio prediletto da cui attingere per Curaçao non poteva che essere quell’Olanda della quale è un territorio autonomo: diciotto dei ventitré componenti della rosa a disposizione di Bicentini militano in Europa, la maggior parte nella seconda divisione olandese. Giocatori quotati e con un pedigree prestigiosi alle spalle, come la sgusciante ala del Psv Jürgen Locadia o il centravanti dell’Ado Den Haag Guyon Fernandez, avrebbero potuto essere le stelle di questa selezione, ma attendono legittimamente la chiamata della nazionale olandese: negli Stati Uniti ci si dovrà accontentare, si fa per dire, di Martina, Bacuna e del portiere del Vitesse Eloy Room. In un girone apparentemente proibitivo se la dovranno vedere con Messico, Giamaica ed El Salvador: «Ovviamente non giochiamo con avversari come il Messico tutte le settimane. Sebbene siamo consapevoli della loro forza, sappiamo che siamo migliorati e che con il nostro modo di giocare possiamo metterli in difficoltà», ha detto Bicentini a proposito della sfida col gigante verde, mostrando rispetto e al contempo fiducia nei propri mezzi.